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lunedì 16 luglio 2012

Detachment - Il distacco






Un film di Tony Kaye
Con Adrien Brody, Samy Gayle, James Caan, Christina Hendricks, Lucy Liu, Marcia Gay Harden, Brian Cranston, Betty Kaye, Tim Blake Nelson, Blythe Danner, William Petersen
Titolo originale: Detachment
Genere: Drammatico
Durata: 97 min.
Sceneggiatura: Carl Lund
Produzione: Greg Shapiro, Carl Lund, Austin Stark, Benji Kohn
Produttore esecutivo: Adrien Brody
Distribuzione (Italia): Officine UBU
Montaggio: Michelle Botticelli, Barry Alexander Brown
Fotografia: Tony Kaye
Musiche: The Newton Brothers
Scenografia: Jade Healy
Costumi: Wendy Schecter
USA 2011


di Chiara Roggino



E mai mi sono sentito così profondamente distaccato da me e nello stesso tempo così presente nel mondo” (Albert Camus)

Primi, primissimi piani in bianco e nero si lasciano sfogliare dallo spettatore: immagini strutturate come un'intervista, professori demotivati, insegnanti per puro ripiego. Detachment si fa così critica ed esplorazione del sistema scolastico americano. Tony Kaye detesta i film di puro intrattenimento. Al cineasta interessano questioni morali e sociali importanti ( Lake of fire aveva trattato senza peli sulla lingua il tema dell'aborto, American Histotry X era una pellicola sulla questione del razzismo). Detachment parla anche della famiglia, dell'importanza della famiglia: la famiglia è tutto. Il distacco è quello di essere un genitore; Henry Barthes (un emozionante Adrien Brody), il protagonista, troverà la sua strada, quando deciderà di abbracciare un futuro che comporti la cura di una giovane anima perduta, Erica ( la rivelazione Samy Gayle). 




 
L'autore inglese ha diretto prevalentemente spot pubblicitari e video musicali. Dal suo personale background, l'ideazione di disegni animati col gesso su un'immaginifica lavagna: raffigurazione dei pensieri dei personaggi, descrizione dello stato emotivo delle scene di riferimento.
Il film è la storia di un uomo che si perde e nel dolore cerca di nascondere i veri problemi della sua esistenza. Egli è in costante fuga dalla realtà, come fosse coperto da una grande tenda nera che non può vedere. Henry Barthes, giovane supplente, si trova costretto a 'migrare' in un'altra scuola. Dalla vecchia struttura scolastica a quella nuova c'è una gran differenza. L'uomo comincerà a cambiare: la sua visione del sistema educativo diverrà sempre più cinica. Fil rouge, voce narrante della storia è lo stesso Henry, ripreso in primo piano su fondale scuro. 




 

Qual è il dovere di un insegnante? Preoccuparsi di allievi problematici e disagiati o disinteressarsi di loro per innalzare il prestigio della scuola, abbandonarli, integrando il 'personale allievi' con ragazzi 'normali', motivati all'apprendimento? Il liceo dove Henry presta supplenza sarà presto destinato alla chiusura. “Molti insegnanti qui, ad un certo punto, hanno pensato che avrebbero fatto la differenza. So quanto è importante essere guidati e avere qualcuno che ti aiuti a capire la complessità del mondo in cui viviamo. Io non ho mai avuto nessuno mentre crescevo”. ( Henry Barthes)
Il protagonista ha paura di diventare padre, assumendosi responsabilità per lui troppo onerose in un periodo di vita segnato da angosce e disperazione. Paura: per il fatto di non essere all'altezza ( in seguito all'abbandono paterno all'età di sette anni). Paura per non aver mai avuto alle spalle un solido nucleo familiare sui cui poter fare conto. Un nonno, forse stupratore della madre. Una madre: alcolizzata, in perenne crisi, presto suicida. I ricordi di infanzia di Henry, tasselli nella mente del protagonista, emergono di continuo, con prepotenza: immagini confuse, girate con camera a mano, sgranate e sature di cromatismi-filtri sanguigni. “Ogni volta che ci penso io dico che c'era una sensazione. Credo in me stesso. Sono giovane e sono vecchio. Mi sono annoiato a morte così tante volte. Non ce la faccio più, sono andato. Sono come voi”. ( Henry Barthes)
Cosa significa essere insegnante in una realtà disagiata? Rivelatrice sarà la voce di Dean Vargas, professore in perpetuo 'congedo'; egli non farà altro che lasciare messaggi sulla segreteria telefonica della scuola, approntando scuse per non recarsi al lavoro. “E' una faticaccia questa vita. E' attesa, interruzione, espulsione, incontri coi docenti, rinvii di documenti, genitori assenti e i loro figli pericolosi. Loro sono la paura del dolore. Sputano sulla mia anima. Questa umiliazione finirà. La disciplina verrà ristabilita. I ragazzi ci tengono al guinzaglio. Siamo noi quelli sotto giudizio. E' come una dannata follia. Ogni ragazzo ha valore? E' informato e merita un'educazione? Dannati ragazzini che non hanno desideri! Nessun fuoco. Nessuna mente da nutrire.”

Il primo incontro tra Henry ed Erica avviene su un autobus. Primissimo piano di Henry che piange disperato ( dopo aver fatto visita alla clinica in cui è ricoverato il nonno). Dettagli delle calze a rete, scarpe col tacco e minigonna di Erica che pratica sesso orale ad un cliente. La giovane è la pietra angolare del quadro perchè è un personaggio collegato ad Henry, fa parte di Henry. Dice il regista: “ Ho anche questa concezione della fotografia in senso cromatico: contrasti, buio e luce, neuroni sotto controllo e neuroni fuori controllo, capelli neri contro i capelli castani e capelli biondi. Sami Gayle (che interpreta Erica) aveva i capelli castani. Il che per me implica una “zona fuori controllo”, così ho cercato un Henry Barthes che avesse i capelli neri, un uomo calmo, controllato. Ho trovato che Adrien Brody si adattasse alla perfezione. Così l'ho convinto a gridare e urlare e buttare sedie tutt'intorno, l'ho convinto a esplodere e tornare alla calma per ritornare ad essere un uomo sotto controllo, per diventare un genitore”.

Abbiamo la grande responsabilità di guidare i nostri giovani in modo che non finiscano per crollare o arrendersi, diventare insignificanti” (Henry Barthes).
La giovane Meredith, allieva di Henry, tutta angosce, passione per l'arte e talento purissimo, soccomberà a un finale di partita inevitabile e spietato. Alle spalle una famiglia gretta, un padre che non farà altro che scoraggiarla, degradandola, sottolineandone l'aspetto fisico poco piacente e l'impraticabilità di sogni campati in aria. La ragazza si toglierà la vita. Questo è il percorso del protagonista, la storia del distacco. Meredith lo condurrà all'inferno e ritorno. Per il ruolo dell'allieva suicida, Kaye ha subito pensato alla figlia Betty.
Dirà in un'intervista: “ Per quel che riguarda mia figlia Betty, ho sempre pensato a lei (per tre anni in realtà) per interpretare il ruolo di Meredith. Betty non assomiglia al personaggio nella vita reale, lei è molto fiduciosa e molto forte e ultra-determinata a riuscire nella vita, ma ha avuto anche un'esistenza difficile: ho calpestato la mia famiglia quando ero molto giovane. Ero molto egoista e pieno di ego. Betty aveva cinque anni e la prese molto male. Rubino, sua sorella, ne aveva due e non ha mai compreso davvero le mie azioni. Betty ha sofferto molto e credo proprio che abbia portato in superficie quelle emozioni nella sua interpretazione di Meredith. Non ho mai saputo se mi sarebbe stato permesso di scritturare mia figlia come una dei protagonisti, perché sarei stato accusato di nepotismo o qualcosa del genere, ed ero abbastanza preparato. Se avessi trovato qualcuno migliore di lei non avrei avuto scelta e Betty avrebbe rischiato di non parlarmi per anni, ma la verità è che lei è stata assolutamente perfetta durante l'audizione e via via dava sempre il meglio per quel ruolo, la sua recitazione era così dannatamente vera”.
Al termine di pellicola Henry dovrà cambiare nuovamente scuola. Prima lezione. Il racconto La rovina della casa degli Usher diviene metafora di una globale pesantezza ad accomunare l'umanità intera: la descrizione di 'uno stato d'animo'. Una visione apocalittica quella finale. Un'aula deserta, sedie rovesciate a terra, fogli e fogliame secco ovunque. E' la fine del mondo, l'olocausto del sistema umano e scolastico insieme.

Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo attraverso una campagna singolarmente lugubre, fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l’ebbi guardata una sensazione d’insopportabile tristezza mi prese l’anima. Insopportabile, dico, già che non le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore.
Guardavo la scena che mi stava davanti. E lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre come orbite vuote, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo dilegua.
Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo. E fui costretto a ritrarmi sulla conclusione poco soddisfacente che esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno potere di rattristarci fino a un tal punto, ancorché l’analisi di questo potere dipenda da considerazioni troppo profonde rispetto a noi. Pensavo che forse una qualsiasi differenza nella disposizione degli elementi della scena, dei particolari del quadro, sarebbe bastata a modificare o persino forse a distruggere tanta forza di dolorosa impressione spinto da questo pensiero, condussi il cavallo sulla riva scoscesa d’un lugubre stagno d’acque morte che si stendeva, nel suo nero luccicore, presso la dimora; e guardai, ma ne ebbi un tremito ancora più profondo; guardai riflesse, capovolte, le immagini dei giunchi di cenere, dei tronchi sinistri e delle finestre simili ad occhi vuoti.” (Edgar Allan Poe - La rovina della casa degli Usher)



 




giovedì 12 luglio 2012

Midnight in Paris









Un film di Woody Allen
Con Owen Wilson, Rachel McAdams, Adrien Brody, Marion Cotillard, Katy Bates
Genere: Commedia
Durata: 94 minuti
Sceneggiatura: Woody Allen
Produzione: Letty Aronson, Stephen Tenenbaum, Jaume Roures, Helen Robi, Eva Garrido
Produttore esecutivo: Javier Méndez, Jack Rollins
Casa di produzione: Mediapro, Versàtil Cinema, Gravier Productions, Pontchartrain Productions
Fotografia: Darius Khondji
Scenografia: Anne Seibel
Costumi: Sonia Grande
Usa, Spagna 2011


di Chiara Roggino




La realtà è che la nostalgia significa negazione. La negazione di un presente doloroso (…) Il nome di questa teoria è ‘l’idea del periodo d’oro’. Un concetto sbagliato secondo cui se vivessimo in un diverso periodo sarebbe meglio dell’attuale. E’ il fallimento di un’immaginazione romantica delle persone che faticano ad affrontare il presente”. Al “pedante” Paul, pseudo intellettuale da quattro soldi, è sufficiente un breve giro di parole per catalogare la ‘patologia’ del sognatore Gil Pender. La diagnosi non si allontana troppo dalla realtà. Gil si trova a Parigi insieme alla fidanzata Inez e ai futuri suoceri, in trasferta nella capitale francese per motivi di lavoro. Il giovane Pender è alle prese con il suo primo romanzo. Le parole, ahimé, non prendono il volo e Gil non nega una certa fatica perché “è uno sceneggiatore di Hollywood e finora non ha mai scritto vera letteratura”. Cosa domandare di più? Per il neo romanziere in cerca d’ispirazione galeotti saranno Parigi e la sua “festa mobile”. Nella miglior tradizione della fiaba secondo Allen, ai dodici rintocchi della mezzanotte gli orologi impazzano: una mano invisibile arretra di un secolo le lancette dell’orologio, scaraventando l’incredulo Gil nel vortice di una scatenata Parigi anni Venti. Il goffo sceneggiatore, baciato da un miracoloso “Cinderella’s touch”, si troverà a tu per tu con i suoi idoli artistici e letterari: i coniugi Fitzgerald, un Hemingway baffuto e tenebroso, Gertrude Stein, Pablo Picasso, Salvador Dalì. I fantasmi del passato, mai così reali, saranno per Gil autentici maestri di vita, creativa e amorosa.
Era dai tempi de “La rosa purpurea del Cairo”che attendevamo il ritorno di un Allen alla larga da intellettualismi e fobie, maestro di pura e incontaminata leggerezza. “Midnight in Paris”solletica la gola dello spettatore tale a una cascata di bollicine di champagne, delicate e frizzanti. Andando per il sottile potremmo tacciare il vecchio Woody per eccesso di ingombranza autoriale (quando il protagonista si fa alterego-sostituto dell’autore in carne ed ossa). Inizialmente sarà forse difficile scindere il personaggio Gil Pender da un Allen assente ma sempre manifesto. Tuttavia, col passar del tempo, ci lasceremo portare per mano, concedendo piena fiducia a Owen Wilson. Fra tenere perplessità, occhi sgranati e un romanticismo d’altri tempi, l’attore feticcio di Wes Anderson (da “Un colpo da dilettanti” a “Il treno per Darjeeling”) è indiscutibile talento di performer, un cocktail ben temperato di misura e istrionismo.
Lungi dallo strafare, Wilson tratteggia una recitazione di teneri sbigottimenti e concitati entusiasmi per cui ogni emozione saprà l’incarnato della vita vera, così come è davvero vissuta.
Se potessi scegliere, in quale epoca vorresti vivere?”. Ci sarà capitato, prima o poi: trovarci nel mezzo di un comunissimo gioco per un periodo ipotetico dell’irrealtà. Un umano e concreto dolere è retroterra alla fiaba intessuta da Allen. Ognuno di noi è in qualche modo incapace di vivere il presente, frastornato dalle montagne russe di una quotidianità proiettata in un incerto avvenire. Più comodo è rifugiarsi in un passato risaputo e meglio decifrabile. Imprescindibile dall’uomo, in ogni tempo, lo sforzo di calarsi nell’oggi per trarne creatività e bellezza.
Adriana, se resti qui diventerà il tuo presente e prima o poi inizierai a sognare un’altra epoca, sai, la vera età dell’oro. Ma è il presente! E’ un po’ insoddisfacente perché la vita è un po’ insoddisfacente. (…) Se mai vorrò scrivere qualcosa di valido dovrò sbarazzarmi delle mie illusioni. Pensarmi più felice nel passato ne fa sicuramente parte”.