Un
film di Peter Yates
Titolo
originale: The dresser
Con
Albert Finney, Tom Courtney, Edward Fox, Eileeen Atkins, Zena Walker
Genere:
drammatico
Durata:
118 min.
Soggetto:
Ronald Hardwood
Sceneggiatura:
Ronald Hardwood, Peter Yates
Fotografia:
Kelvin Pike
Montaggio:
Ray Lovejoy
Musiche:
James Horner
Scenografia:
Stephen B. Grimes, Colin Grimes, Josie McAvin
Regno
Unito 1983
di Chiara Roggino
di Chiara Roggino
“Carmen
la sarta mi spoglia, mi striglia,
mi
infila il manto, mi calza il cappello,
mi
spinge in scena, passa l'intervallo
ad
asciugarmi e cambiarmi la maglia.
Torno
sul palco, esalo la parte,
mi
succhia il ruolo, riesco consunto,
e
lei mi sveste del manto trapunto,
la
calzamaglia mi sfila con arte.
Poggia
i panni sul muro in sartoria,
dice:
“A domani”, non a me, al Personaggio.
Io
sbuco in strada di sottopassaggio:
un
uomo vuoto che non si sa chi sia”.
Vittorio
Gassman
“Solo
la maschera”. Il camerino e la sua nicchia protetta. Al suo
interno, sera dopo sera, replica dopo replica, prende vita l'estrema
spersonalizzazione: il sé di ogni giorno perde corpo e sostanza a
sostenere la nascita di un essere nuovo.
Necessario è spogliarsi degli abiti ordinari, portati a spasso per
via, alla luce del sole, per coprirsi di nuove vesti sì che la linfa
vitale del personaggio penetri poco a poco nelle membra.
Successivamente, il rito del trucco. Il volto e le mani.
Quest'ultime, lentamente, scrupolosamente, dipingono i lineamenti,
uno ad uno. In tal modo soltanto la trasformazione può
adempiersi sì da concedere all'attore il privilegio di calcare passo
passo le assi di scena.
Un
uomo abbigliato di sola veste da camera è ora seduto davanti allo
specchio. Il viso segnato dagli anni e dalla fatica di interminabili
tournées: avanti e indietro senza un attimo di sosta perché “un
attore deve essere pronto a sacrificare ogni cosa”.
Lo osserviamo mentre, sgomento, tenta di raccapezzarsi rovistando
maldestramente tra colla e ceroni di varia cromatura distribuiti in
bella vista sul tavolo. Da dove iniziare? “Questa
è la duecentoventisettesima replica di Re Lear e io non mi ricordo
le prime battute”. Ma
Sir, antico leone, mattatore indiscusso del teatro shakesperiano, non
ha perso le battute soltanto. A mancargli sono ora i fondamentali.
Come indossare la maschera? Da dove iniziare? Quale colore impugnare
per accingersi alla trasfigurazione del volto? Fortuna vuole che in
certi casi ci sia sempre qualcuno pronto a correre in soccorso per
riparare l'irreparabile. Così sarà Norman, servo di scena, balia e
terapeuta mancato a prestare aiuto al suo padrone.
Classe
1929, il cineasta e produttore britannico Peter Yates è prima di
ogni altra cosa uomo di teatro. Diplomatosi all'Accademia d'Arte
Drammatica, tra 1948 e il 1962 opera presso alcune compagnie di
prosa. I suoi esordi, all'inizio degli anni sessanta, sono
strettamente legati alla realtà di palcoscenico. Successiva la
decisione di cimentarsi nella settima arte. Una filmografia, la sua,
per un accumulo complessivo di ventidue pellicole, poche degne di
memoria. Yates, regista
della grazia, mancato
nel 2011 all'età di ottantun anni, passerà ai posteri quale autore
di Bullit (1968),
poliziesco tratto dall'opera letteraria di Robert Pike, pellicola
incentrata attorno alla figura di un tenente della squadra omicidi di
San Francisco (Steve McQueen). Pochi sono coloro che si rammentano di
un piccolo film, gioiello d'inestimabile valore datato 1983. Eppure
Il servo di scena ( The dresser) rientra
a diritto nell'opera omnia del cineasta britannico. Un film per un
ritorno a casa. The
dresser affonda
le sue radici nella nostalgia legata ad un mondo effimero, fedele a
chi lo popola, incostante
come l'aria.
Habitat strutturato di tre pareti tra quinte brulicanti tecnici e
direttori di scena, ferma dimora di un personaggio incomprensibile,
stravagante, solo: l'attore. Lo screenplay è allestito a quattro
mani, tra Yates e Ronald
Hardwood. E'
quest'ultimo a gettare le basi per la sceneggiatura del film: una
trama che avanza passo passo , pagina dopo pagina, sulle righe della
sua omonima commedia. Nato a Città Del Capo nel 1951, a diciassette
anni si trasferisce in quel di Londra arrabattandosi in ogni modo pur
di divenire attore. Presto inizierà un lungo apprendistato:
assistente a servizio dell'istrione Sir Donald Wolfit. Dopo una lunga
esperienza sulle tavole di palcoscenico si dedicherà alla stesura di
opere teatrali.
Per
apprestarci ad un'analisi accurata dell'opera di Yates è essenziale
sgomitolare la matassa a partire da un nodo cruciale: il titolo. Chi
è the dresser
(alla
lettera, colui che veste l'attore)? Masolino D'Amico, nel tradurre in
italiano l'opera di Hardwood, volse il sostantivo originale a servo
di scena.
Per i francesi the
dresser è
L'Habilleur,
per gli spagnoli Las ombra del actor (
forse, pensando all'opera nel suo complesso e ai suoi molteplici
significati, la più efficace tra le traduzioni). Fatto sta che il
the dresser
di Yates è nient'altro che un uomo, Norman (Tom
Courtney),
omosessuale dall'oscuro passato: dei suoi precedenti prima
dell'arruolamento
presso la compagnia shakespeariana diretta da Sir nulla sappiamo. E'
un servitore, un tuttofare, l'altra metà, impacciata e affidabile al
tempo stesso, di un imponente istrione dai modi burberi e dispotici (
lampante il riferimento autobiografico di Hardwood in merito
all'esperienza di balia
tuttofare
comandata a bacchetta da Sir Wolfit).
Seconda
guerra mondiale. Se Londra è straziata da bombardamenti
incessanti,una compagnia shakespeariana itinerante persevera nel
rappresentare le opere del Bardo: teatro dopo teatro, provincia dopo
provincia. Il suo giocatore di punta è
un capitano sui
generis, istrione
e prima donna d'ingombrante personalità:
Sir
(Albert Finney).
Yates affresca le prime pagine della storia immergendo lo spettatore
in quell'utero
protetto denso di sogni atto a smemorare il pubblico in sala dalla
cruda realtà del mondo esterno: il teatro e i suoi abitanti, gli
attori. Fugace ripresa del pubblico accomodato nei palchi laterali,
rapido stacco di montaggio-ponte funzionale a condurre lo sguardo sul
campo di battaglia:
l'ultima scena, le ultime battute di Otello.
Il quadro non è ripreso frontalmente, l'angolazione è nettamente
laterale. Il cineasta regala così una realtà spiata da dietro le
quinte. In un angolo, celato all'occhio dello spettatore, il fedele
Norman, bicchiere di brandy tra le mani, attende paziente. Il servo
di scena è pronto a confortare l'esausto capocomico a
rappresentazione ultimata. Consumate le ultime battute, palcoscenico
protetto al calar di sipario, Sir non tarda a manifestare il suo
temperamento burbero e intollerante. Rimbrotti ed aspri rimproveri
vengono distribuiti a piene mani agli attori della compagnia, nessuno
escluso.
Il
giorno successivo la troupe è in viaggio verso un nuovo approdo e un
nuovo spettacolo. Meta: il teatro Alhambra di Bradford, prima
rappresentazione: King Lear.
Subito si manifestano i primi imprevisti. Sir, antica gloria del
teatro anglosassone, è un vecchio attore sulla via del tramonto.
L'uomo lotta e sopravvive, rappresentazione dopo rappresentazione,
beandosi di fama riflessa. Le sue performances sono ormai il vago
ricordo di quelle di un tempo sì che l'interprete, onde mantenere
intatto un certo grado di autorità, rimedia maldestramente alle
proprie lacune spingendo esageratamente di diaframma tra birignao e
intonazioni svizzere ed altisonanti. All'approssimarsi della
rappresentazione King
Lear l'attore
è ormai esaurito, incapace di dar vita alla follia del
sovrano-creatura del grande Shakespeare. Ricoverato in ospedale , si
dimetterà, ostinato a portare a termine la sua ultima fatica. Lo
spettacolo avrà seguito solo grazie al sostegno terapeutico
dell'assistente di vecchia data, il tuttofare Norman. L'uomo, a
servizio presso Sir da anni, conosce a memoria i pregi e gli
innumerevoli difetti dell'irritabile datore di lavoro. Sa come
adularlo per infondergli quel briciolo di forza necessaria a calcare
ancora le scene. Ma il servitore ignora o non vuole vedere. Il suo
padrone è irrimediabilmente affetto da demenza senile, incapace del
tutto di distinguere fantasia e realtà, imprigionato tra miriadi di
personaggi portati in scena nel corso degli anni. Così come Lear,
Sir ha perduto il senno. Solo nei rari momenti di lucidità irrompe
in lui, nitida, la consapevolezza di non poter dare più nulla al
mondo del teatro. Del tutto sfinito, l'uomo desidererebbe una
tranquilla vecchiaia.
Albert
Finney si trasforma in una delle migliori performance della sua
carriera. L'esistenza di Sir rispecchia in parallelo la tragica vita
di Lear, l'egocentrico monarca che si isola con il suo orgoglio e le
sue richieste arbitrarie. Come Lear, Finney realizza tardi che la
vita, così come la vecchiaia, è traboccante di dolore. Ma lo
spettacolo deve andare avanti ed è Norman soltanto a infondergli il
coraggio di perseverare. Norman, servo di scena, vassallo, si fa in
quattro per Sir: aiutandolo nell'indossare le vesti di scena
temprandolo contro la paura del pubblico e l'angoscia del fallimento.
Egli è come il giullare di Lear: attento uditore e consulente di
prima categoria, mette in guardia il suo padrone, talvolta
provocandone l'ira. Sir ha bisogno di Norman e Norman ha bisogno di
Sir: un rapporto biunivoco per un reciproco rispecchiamento di
caratteri.
Alla
resa dei conti, The
dresser
è una gara di bravura tra due giganti delle scene. E se Finney, pur
non avendo mai rappresentato il suo personaggio
nei
teatri, sbalordisce per l'umana fragilità di un'interpretazione
pulsante vita, Tom Courtney ( dopo aver ricoperto il ruolo di Norman
nel West End e a Brodway)
è altrettanto brillante nella parte del maggiordomo
gay la cui devozione a Sir è così completa da cancellare la
propria personalità.