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venerdì 7 dicembre 2012

Il servo di scena - The dresser










Un film di Peter Yates
Titolo originale: The dresser
Con Albert Finney, Tom Courtney, Edward Fox, Eileeen Atkins, Zena Walker
Genere: drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Ronald Hardwood
Sceneggiatura: Ronald Hardwood, Peter Yates
Fotografia: Kelvin Pike
Montaggio: Ray Lovejoy
Musiche: James Horner
Scenografia: Stephen B. Grimes, Colin Grimes, Josie McAvin
Regno Unito 1983


di Chiara Roggino



Carmen la sarta mi spoglia, mi striglia,
mi infila il manto, mi calza il cappello,
mi spinge in scena, passa l'intervallo
ad asciugarmi e cambiarmi la maglia.

Torno sul palco, esalo la parte,
mi succhia il ruolo, riesco consunto,
e lei mi sveste del manto trapunto,
la calzamaglia mi sfila con arte.

Poggia i panni sul muro in sartoria,
dice: “A domani”, non a me, al Personaggio.
Io sbuco in strada di sottopassaggio:
un uomo vuoto che non si sa chi sia”.

Vittorio Gassman



Solo la maschera”. Il camerino e la sua nicchia protetta. Al suo interno, sera dopo sera, replica dopo replica, prende vita l'estrema spersonalizzazione: il sé di ogni giorno perde corpo e sostanza a sostenere la nascita di un essere nuovo. Necessario è spogliarsi degli abiti ordinari, portati a spasso per via, alla luce del sole, per coprirsi di nuove vesti sì che la linfa vitale del personaggio penetri poco a poco nelle membra. Successivamente, il rito del trucco. Il volto e le mani. Quest'ultime, lentamente, scrupolosamente, dipingono i lineamenti, uno ad uno. In tal modo soltanto la trasformazione può adempiersi sì da concedere all'attore il privilegio di calcare passo passo le assi di scena.
Un uomo abbigliato di sola veste da camera è ora seduto davanti allo specchio. Il viso segnato dagli anni e dalla fatica di interminabili tournées: avanti e indietro senza un attimo di sosta perché “un attore deve essere pronto a sacrificare ogni cosa”. Lo osserviamo mentre, sgomento, tenta di raccapezzarsi rovistando maldestramente tra colla e ceroni di varia cromatura distribuiti in bella vista sul tavolo. Da dove iniziare? “Questa è la duecentoventisettesima replica di Re Lear e io non mi ricordo le prime battute”. Ma Sir, antico leone, mattatore indiscusso del teatro shakesperiano, non ha perso le battute soltanto. A mancargli sono ora i fondamentali. Come indossare la maschera? Da dove iniziare? Quale colore impugnare per accingersi alla trasfigurazione del volto? Fortuna vuole che in certi casi ci sia sempre qualcuno pronto a correre in soccorso per riparare l'irreparabile. Così sarà Norman, servo di scena, balia e terapeuta mancato a prestare aiuto al suo padrone.





Classe 1929, il cineasta e produttore britannico Peter Yates è prima di ogni altra cosa uomo di teatro. Diplomatosi all'Accademia d'Arte Drammatica, tra 1948 e il 1962 opera presso alcune compagnie di prosa. I suoi esordi, all'inizio degli anni sessanta, sono strettamente legati alla realtà di palcoscenico. Successiva la decisione di cimentarsi nella settima arte. Una filmografia, la sua, per un accumulo complessivo di ventidue pellicole, poche degne di memoria. Yates, regista della grazia, mancato nel 2011 all'età di ottantun anni, passerà ai posteri quale autore di Bullit (1968), poliziesco tratto dall'opera letteraria di Robert Pike, pellicola incentrata attorno alla figura di un tenente della squadra omicidi di San Francisco (Steve McQueen). Pochi sono coloro che si rammentano di un piccolo film, gioiello d'inestimabile valore datato 1983. Eppure Il servo di scena ( The dresser) rientra a diritto nell'opera omnia del cineasta britannico. Un film per un ritorno a casa. The dresser affonda le sue radici nella nostalgia legata ad un mondo effimero, fedele a chi lo popola, incostante come l'aria. Habitat strutturato di tre pareti tra quinte brulicanti tecnici e direttori di scena, ferma dimora di un personaggio incomprensibile, stravagante, solo: l'attore. Lo screenplay è allestito a quattro mani, tra Yates e Ronald Hardwood. E' quest'ultimo a gettare le basi per la sceneggiatura del film: una trama che avanza passo passo , pagina dopo pagina, sulle righe della sua omonima commedia. Nato a Città Del Capo nel 1951, a diciassette anni si trasferisce in quel di Londra arrabattandosi in ogni modo pur di divenire attore. Presto inizierà un lungo apprendistato: assistente a servizio dell'istrione Sir Donald Wolfit. Dopo una lunga esperienza sulle tavole di palcoscenico si dedicherà alla stesura di opere teatrali.
Per apprestarci ad un'analisi accurata dell'opera di Yates è essenziale sgomitolare la matassa a partire da un nodo cruciale: il titolo. Chi è the dresser (alla lettera, colui che veste l'attore)? Masolino D'Amico, nel tradurre in italiano l'opera di Hardwood, volse il sostantivo originale a servo di scena. Per i francesi the dresser è L'Habilleur, per gli spagnoli Las ombra del actor ( forse, pensando all'opera nel suo complesso e ai suoi molteplici significati, la più efficace tra le traduzioni). Fatto sta che il the dresser di Yates è nient'altro che un uomo, Norman (Tom Courtney), omosessuale dall'oscuro passato: dei suoi precedenti prima dell'arruolamento presso la compagnia shakespeariana diretta da Sir nulla sappiamo. E' un servitore, un tuttofare, l'altra metà, impacciata e affidabile al tempo stesso, di un imponente istrione dai modi burberi e dispotici ( lampante il riferimento autobiografico di Hardwood in merito all'esperienza di balia tuttofare comandata a bacchetta da Sir Wolfit).





Seconda guerra mondiale. Se Londra è straziata da bombardamenti incessanti,una compagnia shakespeariana itinerante persevera nel rappresentare le opere del Bardo: teatro dopo teatro, provincia dopo provincia. Il suo giocatore di punta è un capitano sui generis, istrione e prima donna d'ingombrante personalità: Sir (Albert Finney). Yates affresca le prime pagine della storia immergendo lo spettatore in quell'utero protetto denso di sogni atto a smemorare il pubblico in sala dalla cruda realtà del mondo esterno: il teatro e i suoi abitanti, gli attori. Fugace ripresa del pubblico accomodato nei palchi laterali, rapido stacco di montaggio-ponte funzionale a condurre lo sguardo sul campo di battaglia: l'ultima scena, le ultime battute di Otello. Il quadro non è ripreso frontalmente, l'angolazione è nettamente laterale. Il cineasta regala così una realtà spiata da dietro le quinte. In un angolo, celato all'occhio dello spettatore, il fedele Norman, bicchiere di brandy tra le mani, attende paziente. Il servo di scena è pronto a confortare l'esausto capocomico a rappresentazione ultimata. Consumate le ultime battute, palcoscenico protetto al calar di sipario, Sir non tarda a manifestare il suo temperamento burbero e intollerante. Rimbrotti ed aspri rimproveri vengono distribuiti a piene mani agli attori della compagnia, nessuno escluso.
Il giorno successivo la troupe è in viaggio verso un nuovo approdo e un nuovo spettacolo. Meta: il teatro Alhambra di Bradford, prima rappresentazione: King Lear. Subito si manifestano i primi imprevisti. Sir, antica gloria del teatro anglosassone, è un vecchio attore sulla via del tramonto. L'uomo lotta e sopravvive, rappresentazione dopo rappresentazione, beandosi di fama riflessa. Le sue performances sono ormai il vago ricordo di quelle di un tempo sì che l'interprete, onde mantenere intatto un certo grado di autorità, rimedia maldestramente alle proprie lacune spingendo esageratamente di diaframma tra birignao e intonazioni svizzere ed altisonanti. All'approssimarsi della rappresentazione King Lear l'attore è ormai esaurito, incapace di dar vita alla follia del sovrano-creatura del grande Shakespeare. Ricoverato in ospedale , si dimetterà, ostinato a portare a termine la sua ultima fatica. Lo spettacolo avrà seguito solo grazie al sostegno terapeutico dell'assistente di vecchia data, il tuttofare Norman. L'uomo, a servizio presso Sir da anni, conosce a memoria i pregi e gli innumerevoli difetti dell'irritabile datore di lavoro. Sa come adularlo per infondergli quel briciolo di forza necessaria a calcare ancora le scene. Ma il servitore ignora o non vuole vedere. Il suo padrone è irrimediabilmente affetto da demenza senile, incapace del tutto di distinguere fantasia e realtà, imprigionato tra miriadi di personaggi portati in scena nel corso degli anni. Così come Lear, Sir ha perduto il senno. Solo nei rari momenti di lucidità irrompe in lui, nitida, la consapevolezza di non poter dare più nulla al mondo del teatro. Del tutto sfinito, l'uomo desidererebbe una tranquilla vecchiaia.





Albert Finney si trasforma in una delle migliori performance della sua carriera. L'esistenza di Sir rispecchia in parallelo la tragica vita di Lear, l'egocentrico monarca che si isola con il suo orgoglio e le sue richieste arbitrarie. Come Lear, Finney realizza tardi che la vita, così come la vecchiaia, è traboccante di dolore. Ma lo spettacolo deve andare avanti ed è Norman soltanto a infondergli il coraggio di perseverare. Norman, servo di scena, vassallo, si fa in quattro per Sir: aiutandolo nell'indossare le vesti di scena temprandolo contro la paura del pubblico e l'angoscia del fallimento. Egli è come il giullare di Lear: attento uditore e consulente di prima categoria, mette in guardia il suo padrone, talvolta provocandone l'ira. Sir ha bisogno di Norman e Norman ha bisogno di Sir: un rapporto biunivoco per un reciproco rispecchiamento di caratteri.
Alla resa dei conti, The dresser è una gara di bravura tra due giganti delle scene. E se Finney, pur non avendo mai rappresentato il suo personaggio nei teatri, sbalordisce per l'umana fragilità di un'interpretazione pulsante vita, Tom Courtney ( dopo aver ricoperto il ruolo di Norman nel West End e a Brodway) è altrettanto brillante nella parte del maggiordomo gay la cui devozione a Sir è così completa da cancellare la propria personalità.