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venerdì 21 dicembre 2012

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore







Un film di Wes Anderson
Con Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton, Jared Gilman, Kara Hayward, Harvey Keitel
Titolo originale: Moonrise Kingdom
Genere: Commedia drammatica
Durata: 94 min.
Soggetto: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola
Produzione: Steven M. Ravens, Scott Rudin, Wes Anderson, Jeremy Dawson
Fotografia: Robert Yeoman
Montaggio: Andrew Weisblum
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Adam Stockhausen
Usa 2012


di Chiara Roggino



Forbici da mancino, il disegno incorniciato di un'abitazione bianca e rossa e una cartella appesi alla parete. Un mangiadischi azzurro disposto su una mensola. Lento si avvia, stanza dopo stanza, arrampicandosi su e giù per le scale della magione Bishop, un lento, lungo piano sequenza orchestrato con la minuzia di una sonda sottomarina. Tre marmocchi ascoltano il disco di Benjamin Britten, Guida del giovane per l'Orchestra, passaggio in cui i vari strumenti sono separati e identificati. Nel mentre una ragazzina, sguardo severo-occhi bistrati d'azzurro, binocolo alla mano, osserva il mondo esterno da una finestra, quasi attendesse l'arrivo di qualcuno o qualcosa.
Il signor Bishop se ne sta in panciolle sul divano, sguardo vacuo, perso nel vuoto. La padrona di casa, sciatta alla pari dei vestiti che indossa, aspira avidamente da una sigaretta preparando la cena, tentando di comunicare con i membri della famiglia tramite l'uso di un megafono.
Ambientato su un'isola al largo della costa del New Ingland nell'estate inoltrata del 1965, Moonrise Kingdom (ottava pellicola del texano Wes Anderson) è la storia dolce e malinconica di due dodicenni: Sam (Jared Gilman) e Suzy (Kara Hayward). Entrambi si innamorano pianificando una fuga alla larga da genitori menefreghisti, scouts pronti ad emarginare indifesi e diversi, orfanatrofi e famiglie affidatarie su cui fare scarso affidamento.







A far da corifeo alla storia narrata, uno stravagante meteorologo, cartografo e storico (Bob Balaban). Cappello da marinaio calcato sul capo e occhiali spessi così, appare dal nulla quasi una versione sui generis di Steve Zissou ( Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Wes Anderson, 2004). E' lui in persona a predirre l'imminente tempesta pronta ad abbattersi sull'isola nel lasso di pochi giorni, uragano volto a stravolgere le già complicate vicissitudini di inseguitori e inseguiti. Anderson intesse con delicatezza da fiaba carica di spunti autobiografici la realtà di due preadolescenze emarginate da adulti e coetanei. Suzy e Sam bramano fuggire a gambe levate da un mondo per loro incomprensibile, avido di derubarli d'innocenza e fantasia. Suzy si estranea dal mondo circostante tuffandosi a capofitto nella lettura di libri derubati dalla biblioteca le cui protagoniste possiedono poteri magici e misteriosi. Tutte, dalla prima all'ultima, sono rigorosamente orfane. ( “ Io ho sempre desiderato essere orfana. I miei personaggi preferiti lo sono. Credo che abbiate vite più speciali”, “Io ti amo, ma tu non sai quello che dici”.).






Sam, orfano sballottato da istituto a istituto, così come la sua compagna di viaggio, ha la nomea di disadattato. Il loro viaggio verso un luogo vergine, tutto per loro, è null'altro che il disperato tentativo di mantenere intatti i sogni per un futuro migliore.
Così il tuffo nella baia parrà il prosieguo mancato di un'antica istantanea in bianco e nero: quella di Antoine Doinel ( I quattrocento colpi, Truffaut). Ma allora la perdita della poesia e dell'infanzia era un miraggio lontano da inseguire perseverando in una corsa senza fiato.
L'isola dipinta ad acquerello da Anderson appare una via di mezzo tra la dimora di Prospero (popolata da venti e creature aeree) e L'isola che non c'è. Così, quasi rileggendo le pagine di Barrie, svelta apparrà l'immagine di Suzy, cantastorie di fiabe e mamma adottiva per i ragazzi sperduti.
Di contrasto alla realtà plasmata su misura dai due protagonisti, quella residenziale popolata dagli adulti dell'isola, tutti consapevolmente identificati con le loro mansioni ufficiali. Un poliziotto perennemente in divisa che assicura o quantomeno dovrebbe assicurare l'ordine. Una donna dura e zelante che porta il nome di Servizi Sociali e ricopre nell'ambito della narrazione il ruolo di cattiva per eccellenza: perfetta matrigna calzata e vestita. I coniugi Bishop ( Bill Murray e Frances McDormand), avvocati e consiglieri, discorrono di casi legali in corso a letto, prima di coricarsi mentre il primo capo scout ( Edward Norton), fumatore incallito e bevitore di whisky, considera la sua professione precaria quale fondamentale ( “Io sono prima un capo scout e poi un professore di matematica”). A sfidare quest'universo ordinato, due dodicenni. Il loro amore ha la purezza di un mitico lontano passato cavalleresco, suggerito dal nome della base scout ( Ivanohe Camp). Una storia esilarante e riflessiva tra sprazzi di pura poesia che lacera la comunità protagonista per poi ricompattarla saldamente.





mercoledì 19 dicembre 2012

Arsenico e vecchi merletti





Un film di Frank Capra
Con Cary Grant, Josephine Hull, Jean Adair, John Alexander, Edward Everett Horton, James Gleason
Genere: Commedia noir
Durata: 118 min.
Soggetto: Joseph Kesserling
Sceneggiatura: Julius J. Epstein, Philip J. Epstein
Fotografia: Sol Polito
Montaggio: Daniel Mandell
Musiche: Max Steiner, H. R. Bishop
Scenografia: Max Parker
Usa 1944


di Chiara Roggino


Arsenico e vecchi merletti, uno dei più clamorosi successi di Brodway datato 1940. Commedia corale dai tempi calcolati ad orologeria per una messa in scena pluriomicida orchestrata tra battere e levare ai tasti di pianoforte, con mano leggera. L'umorismo nero del tempo non poteva essere distillato nel migliore dei modi. Quando Frank Capra acquistò i diritti cinematografici dell'opera di Kesserling, la produzione ebbe modo di mettersi in moto solo alla fine del 1941. Questa la clausola per la trasposizione filmica del dramma: attendere l'esaurirsi delle repliche teatrali. I proventi dell'opera dovevano mettere al sicuro, finanziariamente parlando, Capra e la sua famiglia. Purtroppo le rendite furono pari a quelle di un maggiore dell'esercito. Data la straripante popolarità della commedia, i diritti d'autore furono rilasciati al cineasta solo nel 1944. Il regista riuscì però a prelevare direttamente dalle tavole di palcoscenico talenti quali Josephine Hull, Jean Adair, John Alexander. Il cast originale era a sua completa disposizione per il primo ciak. Dopo aver convocato Cary Grant per il ruolo principale (Mortimer Brewster), Capra ebbe modo di scegliere tra i suoi attori favoriti. Così, aggiunti Edward Everett Horton e James Gleason, il cast fu al completo. Tradurre spettacoli di Brodway appositamente per lo schermo cinematografico fu sempre un ostacolo non irrilevante ad Hollywood. Così fu per Capra: dirigere Arsenico e vecchi merletti non si rivelò un gioco da ragazzi. Tuttavia, come sul palco e a dispetto dei problemi produttivi-registici e d'organizzazione , la pellicola si rivelò uno strepitoso ed esilarante successo.




 
Arsenic and old lace offre allo spettatore la dolcezza morbosa di un omicidio servito in una tazza di camomilla. L'essenza della storia è semplice e lineare. Mortimer Brewster (Cary Grant), celebre critico teatrale, rinnega le sue ferme convinzioni da scapolo incallito per sposare la bella Elaine (Priscilla Lane). Torna a casa dalle vecchie zie Abby e Martha (Josephine Hull e Jean Adair) - le più dolci vecchiette di tutta Brooklyn - per annunciare loro l'imminente luna di miele. Aggirandosi frenetico per il salone e spalancando cassetti e cassettoni, è messo suo malgrado al corrente del piccolo segreto. Ci sono undici cadaveri sepolti nel seminterrato più un altro morto di fresco nascosto nella cassapanca sotto la finestra. Le ziette sorridono affabili, non comprendendo il terror panico riversato negli occhi strabuzzanti del nipote. Melense come al solito, domandano a Mortimer se gradisce una fetta di dolce o qualcosa da bere; nel mentre, con pazienza ed evidente eccitazione, gli spiegano il modo in cui sono ormai avvezze nel sopprimere uomini vecchi e soli che capitano talora ospiti nella loro magione.
Arsenico e vecchi merletti convince proprio per questo: la sua completa rottura con le convenzioni. La pellicola fu girata al termine della seconda guerra. Una realtà brutale, una morte indicibile e concreta stavano irrompendo all'estero. Così la commedia di Capra brillò per un merito non trascurabile: permettere al pubblico di ridere di fatti macabri, osservando gli eventi da una certa distanza.
Arsenic and old lace fu un'esperienza insolita anche per un attore del calibro di Cary Grant. La sua interpretazione di Mortimer Brewster spicca in contrasto a qualsiasi altro carattere interpretato addietro dall'attore di Bristol.





Mortimer è frenetico, scardinato, un po' fesso, avvolto com'è nel vortice di follia dell'insolita situazione domestica in cui si viene a trovare suo malgrado. Le care ziette sono totalmente all'oscuro circa la natura criminosa delle loro azioni caritatevoli e misericordiose.
Poi c'è un fratello: Teddy. Si crede il presidente Rooslvelt in persona e corre a perdifiato su per la rampa di scale suonando la tromba ogni volta che ha bisogno di entrare in camera sua. Per fortuna c'è anche un altro fratello! Jonathan, pazzo criminale che si presenta in casa nel bel mezzo del caos insieme alla sua coorte: un falso medico, tale dottor Einstein ( interpretato con finezza tutta horror da Peter Lorre).
Ma la peculiarità di Casa Brewster non risiede solo nell'essere popolata da individui a dir poco stravaganti. L'edificio non contiene solo personaggi. La casa, poco a poco, sembra animarsi di vita propria quasi fosse dotata di personalità o posseduta da uno spirito: entità mutevole, malleabile, riflessiva. L'atmosfera viene a crearsi, scena dopo scena, nel vai e vieni di personaggi che si agitano convulsamente all'interno dell'ambiente domestico. Esso assume pertanto un ruolo attivo e dominante nelle controversie verificatesi negli interni. Il clima dolce e mite infuso nell'habitat casalingo dalle strepitose Josephine Hull e Jean Adair, il buio totale, protagonista delle apparizioni di Jonathan, gli improvvisi squilli di tromba che annunciano le cavalcate di Teddy al piano superiore. Tutto è spettacolo e la casa è nient'altro che un grande studio cinematografico. Dietro l'illusione, al di là della macchina da presa, l'autore mette in scena con sapiente virtuosismo tutti i registri del comico, dal più grossolano al più raffinato. Arsenic and old lace: pellicola disinibita in cui il confine tra bene e male, peccato e virtù, umorismo e orrore, vengono annullati del tutto.



 

lunedì 10 dicembre 2012

Il cacciatore - The deer hunter








Un film di Michael Cimino
Con Robert De Niro, Christopher Walken, Meryl Streep, John Savage, John Cazale
Titolo originale: The deer hunter
Genere: Drammatico
Soggetto: E. M. Corder ( romanzo), Michael Cimino, Deric Washburn, Louis Garfinkle, Quinn Redeker
Sceneggiatura: Deric Washburn
Produzione: Barry Spikings, Michael Deeley,Michael Cimino, John Peverall
Fotografia: Vilmos Zsigmond
Montaggio: Peter Zinner
Musiche: Stanley Myers
Scenografia: Ron Hobbs, Kim Swados
Usa, Inghilterra 1978



di Chiara Roggino


Clairton, Pennsylvania, prime luci dell'alba. Qualche raro lampione ancora acceso per via. Un sottopassaggio, colonne di cemento armato ai lati del breve tunnel. A percorrerlo, un camion. La pesante vettura conduce l'occhio dello spettatore per le strade della cittadina industriale costellata da lunghe ciminiere. Clairton, luogo di residenza per una comunità d'immigrati russi, paese di provincia che trae sostentamento dall'industria metallurgica. Alberi d'autunno, rami spogli, quasi scheletrici, fanno da cornice alla cittadina. Evidente sarà il contrasto con la vegetazione e le verdi conifere presenti negli ampi paesaggi di montagna là dove avrà luogo la caccia al cervo. Rapido stacco di montaggio e siamo catapultati all'interno di un'officina. Fuoco e lapilli. Un fiume di metallo incandescente scorre al centro della scena, quasi un'anticipazione inoffensiva al dopo: il fuoco delle mine esplose in Vietnam, il lanciafiamme impugnato da Mike (Robert De Niro) a incendiare il nemico in terra straniera. La scena successiva si districa negli spogliatoi della fabbrica. I personaggi paiono muoversi a fatica tra aree anguste, opprimenti. Gli operai del turno successivo augurano a Steve (John Savage), Mike e Nick (Christopher Walken) di ritornare sani e salvi dalla guerra. Il pub di John, punto di incontro, raduno della compagnia, è altresì luogo ingeneroso d'aria e spazi ( il pesante soffitto "schiaccia" quasi i personaggi), ma la straripante allegria dei giovani riesce per incanto a dilatare l'ambiente ( in sottofondo "Can't take my eyes off of you" di Frankie Valli). 




  
Prima d'ogni altra cosa, Il cacciatore ( Michael Cimino, 1978) è senza dubbio alcuno una grande storia d'amicizia. Il matrimonio tra Steve ed Angela si svolgerà secondo i costumi tradizionali russi, ultima esplosione di vita e vitalità prima di assaggiare il morso della morte. Ma la vena festosa viene bruscamente interrotta dall'arrivo di un ufficiale dell'esercito. L'uomo pare un fantasma: sguardo vacuo, disumanizzato, perso nel vuoto. Tale sarà l'espressione di Nick dopo l'esperienza di guerra. Il soldato fissa Michael e l'allegra brigata in maniera inquietante. Tutti sembrano a disagio per la sua presenza: l'apparizione del berretto verde, reduce dal Vietnam, è chiaramente un segno, un forte presagio di quel che avverrà in seguito. Al termine della cerimonia, gli sposi dovranno bere vino da un calice a doppia coppa. Versarne una sola goccia significherebbe eterna sfortuna per i giovani. Se inizialmente il rito pare avere successo, ad un tratto due gocce rosse (quasi sangue) macchiano l'abito candido di Angela: evidente ed ulteriore presagio del poi. Michael è un appassionato cacciatore e, prima di partire per la guerra, ha in programma un'ultima escursione in montagna: ammazzare il cervo con un colpo solo ( "Ti dico una cosa. Se sapessi di dover morire tra le montagne mi andrebbe bene. Ma deve essere nella tua testa...Un colpo solo. Due è da femminucce. Un cervo si ammazza con un colpo solo, ma nessuno mi ascolta".).




 
Michael partecipa di questa esperienza accompagnato da un sentimento che sfiora la religiosità ( recarsi in montagna e inseguire un cervo è per lui equiparabile a un sacro rito). Egli non può che provare risentimento verso Stan e i suoi amici, amabili quanto indisciplinati. L'unica persona che capisca veramente il suo punto di vista è Nick. Tuttavia per quest'ultimo non è davvero la caccia a contare. Egli ama guardare gli alberi più che uccidere animali ( "Sto pensando ai cervi, al Vietnam. Mi piacciono gli alberi. Come sono in montagna. Tutti diversi....Come sono gli alberi"). Alla fine del weekend, i ragazzi, di ritorno in paese con un cervo legato al cofano della macchina di Mike, sostano al pub locale per il bicchiere della staffa. John improvvisa un brano malinconico al pianoforte ( Notturno numero 6 di Chopin) e l'atmosfera si fa funerea. Gli uomini ascoltano in religioso silenzio. Cimino inquadra i volti degli attori uno ad uno tramite un lento piano sequenza. Gli sguardi di tutti non possono che essere sgomenti. Da quel preciso momento la vita non sarà più la stessa. Con The deer hunter, l'autore crea un capolavoro d'arte tragica, un canto universale sull'innocenza perduta a causa della guerra. Nick, animo gentile, non riuscirà a sopportare la devastazione psichica conseguente all'esperienza bellica. A differenza di molti altri film di genere, "Il cacciatore" non glorifica niente e nessuno. L'azione converge interamente intorno ad un unico bisogno fondamentale: sopravvivere. Tra i numerosi momenti cardine de "Il cacciatore" rientra a diritto la scena che vede Mike-De Niro scaraventato nella follia del Vietnam. Egli giace disteso a terra, il suo sguardo ricorda quello del cervo abbattuto nella prima scena di caccia sulle montagne della Pennsilvanya. I suoi occhi rispecchieranno la totale assenza-perdita di vita, eco lontana dell'animale agonizzante. Ritornato a casa dopo la guerra, in una nuova escursione di caccia, Mike si ritroverà davanti un nuovo cervo. Sparerà, sì, ma verso il cielo. Il nobile animale verrà graziato. Quel che più interessa a Cimino è spintonare a forza lo spettatore nella cruda realtà del Vietnam. Non siamo al corrente del dispiegamento delle truppe, né di alcun addio in lacrime, né dell'inizio della campagna. Il film è permeato da una lucida impostazione-sensazione documentaristica tale da alimentare un crudo senso di realismo. La sezione del film ambientata in Vietnam verrà girata da Cimino in pellicola di grana pesante, fianco a fianco a veri cinegiornali di guerra. Un rapido carrello in avanti, a fior d'acqua, ci conduce ad una palafitta in legno ancorata alla corrente di un fiume torbido, di colore indefinito: tra il grigio e il giallo di fetidi liquami. Laggiù, sotto le assi di legno a far da pavimento alla catapecchia, una prigione in filo spinato: soldati e Viet del sud immersi in un fluido stagnante, rigato di sangue. Su, in alto, i Vietcong del nord ammazzano il tempo scommettendo alla roulette russa. Non sono certo loro a partecipare alla "gara", bensì i nemici, gli uomini fatti prigionieri. Una pistola al centro del tavolo, soldi sparsi, gli sfidanti "giocano" all'ultimo sangue, trastullo di una disumanità feroce. Dal basso, attraverso una breccia nel legno, Mike, Steve e Nick assistono inermi alle pubbliche esecuzioni. I duelli tra Mike e Steve prima, tra Nick e Mike successivamente, saranno inquadrati tramite la semplice formula campo-controcampo. L'autore sa quello che fa. Egli trae forza emozionale e narrativa tramite l'intensità di un De Niro in stato di grazia. Efficacia registica uguale efficacia performativa.





Cimino non è interessato al Vietnam in sé, piuttosto al modo in cui si alterano irreversibilmente le vite dei suoi protagonisti. I nostri uomini sanno poco del conflitto in cui sono coinvolti e ancora meno delle persone contro cui stanno combattendo sì che la guerra in terra straniera viene sottolineata in tutta la sua macabra assurdità. Le loro vere battaglie non si giocano sfidando i Vietcong, ma lottando contro la loro stessa psiche: Steve deve fare i conti con una vita che cambia in seguito all'amputazione di entrambe le gambe. Nick rimarrà talmente sconvolto dal gioco della roulette russa sì da restare a Saigon al fine di saziare quella che può essere descritta come dipendenza traumatica. Michael, in qualche modo, riuscirà a ricompattare gli amici, riportandoli a casa. Il cacciatore descrive gli effetti del post Vietnam all'interno di un microcosmo consentendo agli spettatori di tracciare il legame che unisce i personaggi della storia narrata alle decine di migliaia di americani segnati da un destino simile se non peggiore al loro. Questo risultato è ottenuto efficacemente tramite due momenti, episodi della pellicola in cui la musica e il canto la fanno da padroni: dolcemente, dolorosamente comunicano vite e destini dei protagonisti. Il primo, citato precedentemente, è un pezzo per pianoforte solo, brano che precede la partenza degli uomini per il fronte. Il secondo è una comune resa a cappella di "God Bless America". Entrambi sono canti funebri per ciò che è stato e non sarà mai più. 




 

venerdì 7 dicembre 2012

Il servo di scena - The dresser










Un film di Peter Yates
Titolo originale: The dresser
Con Albert Finney, Tom Courtney, Edward Fox, Eileeen Atkins, Zena Walker
Genere: drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Ronald Hardwood
Sceneggiatura: Ronald Hardwood, Peter Yates
Fotografia: Kelvin Pike
Montaggio: Ray Lovejoy
Musiche: James Horner
Scenografia: Stephen B. Grimes, Colin Grimes, Josie McAvin
Regno Unito 1983


di Chiara Roggino



Carmen la sarta mi spoglia, mi striglia,
mi infila il manto, mi calza il cappello,
mi spinge in scena, passa l'intervallo
ad asciugarmi e cambiarmi la maglia.

Torno sul palco, esalo la parte,
mi succhia il ruolo, riesco consunto,
e lei mi sveste del manto trapunto,
la calzamaglia mi sfila con arte.

Poggia i panni sul muro in sartoria,
dice: “A domani”, non a me, al Personaggio.
Io sbuco in strada di sottopassaggio:
un uomo vuoto che non si sa chi sia”.

Vittorio Gassman



Solo la maschera”. Il camerino e la sua nicchia protetta. Al suo interno, sera dopo sera, replica dopo replica, prende vita l'estrema spersonalizzazione: il sé di ogni giorno perde corpo e sostanza a sostenere la nascita di un essere nuovo. Necessario è spogliarsi degli abiti ordinari, portati a spasso per via, alla luce del sole, per coprirsi di nuove vesti sì che la linfa vitale del personaggio penetri poco a poco nelle membra. Successivamente, il rito del trucco. Il volto e le mani. Quest'ultime, lentamente, scrupolosamente, dipingono i lineamenti, uno ad uno. In tal modo soltanto la trasformazione può adempiersi sì da concedere all'attore il privilegio di calcare passo passo le assi di scena.
Un uomo abbigliato di sola veste da camera è ora seduto davanti allo specchio. Il viso segnato dagli anni e dalla fatica di interminabili tournées: avanti e indietro senza un attimo di sosta perché “un attore deve essere pronto a sacrificare ogni cosa”. Lo osserviamo mentre, sgomento, tenta di raccapezzarsi rovistando maldestramente tra colla e ceroni di varia cromatura distribuiti in bella vista sul tavolo. Da dove iniziare? “Questa è la duecentoventisettesima replica di Re Lear e io non mi ricordo le prime battute”. Ma Sir, antico leone, mattatore indiscusso del teatro shakesperiano, non ha perso le battute soltanto. A mancargli sono ora i fondamentali. Come indossare la maschera? Da dove iniziare? Quale colore impugnare per accingersi alla trasfigurazione del volto? Fortuna vuole che in certi casi ci sia sempre qualcuno pronto a correre in soccorso per riparare l'irreparabile. Così sarà Norman, servo di scena, balia e terapeuta mancato a prestare aiuto al suo padrone.





Classe 1929, il cineasta e produttore britannico Peter Yates è prima di ogni altra cosa uomo di teatro. Diplomatosi all'Accademia d'Arte Drammatica, tra 1948 e il 1962 opera presso alcune compagnie di prosa. I suoi esordi, all'inizio degli anni sessanta, sono strettamente legati alla realtà di palcoscenico. Successiva la decisione di cimentarsi nella settima arte. Una filmografia, la sua, per un accumulo complessivo di ventidue pellicole, poche degne di memoria. Yates, regista della grazia, mancato nel 2011 all'età di ottantun anni, passerà ai posteri quale autore di Bullit (1968), poliziesco tratto dall'opera letteraria di Robert Pike, pellicola incentrata attorno alla figura di un tenente della squadra omicidi di San Francisco (Steve McQueen). Pochi sono coloro che si rammentano di un piccolo film, gioiello d'inestimabile valore datato 1983. Eppure Il servo di scena ( The dresser) rientra a diritto nell'opera omnia del cineasta britannico. Un film per un ritorno a casa. The dresser affonda le sue radici nella nostalgia legata ad un mondo effimero, fedele a chi lo popola, incostante come l'aria. Habitat strutturato di tre pareti tra quinte brulicanti tecnici e direttori di scena, ferma dimora di un personaggio incomprensibile, stravagante, solo: l'attore. Lo screenplay è allestito a quattro mani, tra Yates e Ronald Hardwood. E' quest'ultimo a gettare le basi per la sceneggiatura del film: una trama che avanza passo passo , pagina dopo pagina, sulle righe della sua omonima commedia. Nato a Città Del Capo nel 1951, a diciassette anni si trasferisce in quel di Londra arrabattandosi in ogni modo pur di divenire attore. Presto inizierà un lungo apprendistato: assistente a servizio dell'istrione Sir Donald Wolfit. Dopo una lunga esperienza sulle tavole di palcoscenico si dedicherà alla stesura di opere teatrali.
Per apprestarci ad un'analisi accurata dell'opera di Yates è essenziale sgomitolare la matassa a partire da un nodo cruciale: il titolo. Chi è the dresser (alla lettera, colui che veste l'attore)? Masolino D'Amico, nel tradurre in italiano l'opera di Hardwood, volse il sostantivo originale a servo di scena. Per i francesi the dresser è L'Habilleur, per gli spagnoli Las ombra del actor ( forse, pensando all'opera nel suo complesso e ai suoi molteplici significati, la più efficace tra le traduzioni). Fatto sta che il the dresser di Yates è nient'altro che un uomo, Norman (Tom Courtney), omosessuale dall'oscuro passato: dei suoi precedenti prima dell'arruolamento presso la compagnia shakespeariana diretta da Sir nulla sappiamo. E' un servitore, un tuttofare, l'altra metà, impacciata e affidabile al tempo stesso, di un imponente istrione dai modi burberi e dispotici ( lampante il riferimento autobiografico di Hardwood in merito all'esperienza di balia tuttofare comandata a bacchetta da Sir Wolfit).





Seconda guerra mondiale. Se Londra è straziata da bombardamenti incessanti,una compagnia shakespeariana itinerante persevera nel rappresentare le opere del Bardo: teatro dopo teatro, provincia dopo provincia. Il suo giocatore di punta è un capitano sui generis, istrione e prima donna d'ingombrante personalità: Sir (Albert Finney). Yates affresca le prime pagine della storia immergendo lo spettatore in quell'utero protetto denso di sogni atto a smemorare il pubblico in sala dalla cruda realtà del mondo esterno: il teatro e i suoi abitanti, gli attori. Fugace ripresa del pubblico accomodato nei palchi laterali, rapido stacco di montaggio-ponte funzionale a condurre lo sguardo sul campo di battaglia: l'ultima scena, le ultime battute di Otello. Il quadro non è ripreso frontalmente, l'angolazione è nettamente laterale. Il cineasta regala così una realtà spiata da dietro le quinte. In un angolo, celato all'occhio dello spettatore, il fedele Norman, bicchiere di brandy tra le mani, attende paziente. Il servo di scena è pronto a confortare l'esausto capocomico a rappresentazione ultimata. Consumate le ultime battute, palcoscenico protetto al calar di sipario, Sir non tarda a manifestare il suo temperamento burbero e intollerante. Rimbrotti ed aspri rimproveri vengono distribuiti a piene mani agli attori della compagnia, nessuno escluso.
Il giorno successivo la troupe è in viaggio verso un nuovo approdo e un nuovo spettacolo. Meta: il teatro Alhambra di Bradford, prima rappresentazione: King Lear. Subito si manifestano i primi imprevisti. Sir, antica gloria del teatro anglosassone, è un vecchio attore sulla via del tramonto. L'uomo lotta e sopravvive, rappresentazione dopo rappresentazione, beandosi di fama riflessa. Le sue performances sono ormai il vago ricordo di quelle di un tempo sì che l'interprete, onde mantenere intatto un certo grado di autorità, rimedia maldestramente alle proprie lacune spingendo esageratamente di diaframma tra birignao e intonazioni svizzere ed altisonanti. All'approssimarsi della rappresentazione King Lear l'attore è ormai esaurito, incapace di dar vita alla follia del sovrano-creatura del grande Shakespeare. Ricoverato in ospedale , si dimetterà, ostinato a portare a termine la sua ultima fatica. Lo spettacolo avrà seguito solo grazie al sostegno terapeutico dell'assistente di vecchia data, il tuttofare Norman. L'uomo, a servizio presso Sir da anni, conosce a memoria i pregi e gli innumerevoli difetti dell'irritabile datore di lavoro. Sa come adularlo per infondergli quel briciolo di forza necessaria a calcare ancora le scene. Ma il servitore ignora o non vuole vedere. Il suo padrone è irrimediabilmente affetto da demenza senile, incapace del tutto di distinguere fantasia e realtà, imprigionato tra miriadi di personaggi portati in scena nel corso degli anni. Così come Lear, Sir ha perduto il senno. Solo nei rari momenti di lucidità irrompe in lui, nitida, la consapevolezza di non poter dare più nulla al mondo del teatro. Del tutto sfinito, l'uomo desidererebbe una tranquilla vecchiaia.





Albert Finney si trasforma in una delle migliori performance della sua carriera. L'esistenza di Sir rispecchia in parallelo la tragica vita di Lear, l'egocentrico monarca che si isola con il suo orgoglio e le sue richieste arbitrarie. Come Lear, Finney realizza tardi che la vita, così come la vecchiaia, è traboccante di dolore. Ma lo spettacolo deve andare avanti ed è Norman soltanto a infondergli il coraggio di perseverare. Norman, servo di scena, vassallo, si fa in quattro per Sir: aiutandolo nell'indossare le vesti di scena temprandolo contro la paura del pubblico e l'angoscia del fallimento. Egli è come il giullare di Lear: attento uditore e consulente di prima categoria, mette in guardia il suo padrone, talvolta provocandone l'ira. Sir ha bisogno di Norman e Norman ha bisogno di Sir: un rapporto biunivoco per un reciproco rispecchiamento di caratteri.
Alla resa dei conti, The dresser è una gara di bravura tra due giganti delle scene. E se Finney, pur non avendo mai rappresentato il suo personaggio nei teatri, sbalordisce per l'umana fragilità di un'interpretazione pulsante vita, Tom Courtney ( dopo aver ricoperto il ruolo di Norman nel West End e a Brodway) è altrettanto brillante nella parte del maggiordomo gay la cui devozione a Sir è così completa da cancellare la propria personalità.




sabato 10 novembre 2012

Amour








Un film di Michael Haneke
Con Jean-Louis Trintignant, Emanuelle Riva, Isabelle Huppert
Genere: Drammatico
Soggetto: Michael Haneke
Sceneggiatura: Michael Haneke
Produzione: Stefan Arndt, Margaret Ménégoz, Veit Heiduschka (co-produttore), Michael Katz (co-produttore)
Casa di produzione: Les Films du Losange, X-Filme Creatve Pool, Wega Film
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Nadine Muse, Monika Willi
Scenografia: Jean-Vincent Puzos
Costumi: Céline Collobert

di Chiara Roggino


Salotto di un'ampia dimora borghese. Georges, uomo sull'ottantina, siede alla poltrona. Quasi ipnotizzato, osserva il pianoforte a mezzacoda presente nella stanza. Innanzi allo strumento, Anne: compagna per la vita, musicista, alla pari del marito. Elegante figura, sfiora i tasti bianco e neri a evocare note familiari di un improvviso schubertiano. Le pagine dello spartito s'involano, sfogliandosi una dopo l'altra, leste, senza pause: un preludio che vorrebbe sovvertire le leggi del tempo, costretto suo malgrado a chinare il capo innanzi alle regole della fuga. I giorni si susseguono per lasciar posto agli anni anche per una coppia accordata alla perfezione. Ora una vecchia bambina riposa mollemente su un guanciale di petali. A turbare la sua quiete, polizia e vigili del fuoco: indagano gli interni domestici, ipotizzano eventi alla ricerca del perché e del per come.
Il regista austriaco Michael Haneke è senz'altro il capo procuratore dei peccati dell'uomo moderno. La sua rappresentazione della disumanità insita in personaggi apparentemente intoccabili nella loro masquerade di civiltà ha sollevato strepiti al suono di parole aspre tali “sadismo cinematografico”. Nessuno, tuttavia, potrà contestare quella padronanza nel dirigere le scene di moderni psicodrammi tali La pianista (2001) e Caché (2005) fino all'epico Il nastro bianco (2009), pellicola che ritrae il collettivo senso di colpa in una città tedesca vent'anni anni prima della nascita di Hitler.
Amour ( Palma d'Oro al Festival di Cannes 2012) può constare di numerose pietre di paragone-retroterra dell'opera del cineasta: stile visivo austero e maestoso, una coppia al centro della storia, un ambiente chiuso al limite della claustrofobia che non consente via di fuga ai personaggi e ai loro demoni.
Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), sono una coppia ottuagenaria: insegnanti di musica in pensione. La prima scena del film li ritrae sperduti tra il pubblico in una grande sala. Haneke usufruisce di un piano fisso per cui spetterà all'occhio vigile dello spettatore farsi strada fra le tante e tante e tante facce per rintracciare i protagonisti. Sarà sufficiente un briciolo d'attenzione per vederli parlottare, seduti in terza fila, ansiosi di assistere al concerto di un allievo d'antica data di Anne. Di rientro a casa, la coppia si accorge di un tentato furto ai danni dell'appartamento. La serratura è stata evidentemente forzata. Quasi un presagio del poi, qualcuno o qualcosa ha cercato di introdursi nel nido protetto per guastarne la placidità, portando scompiglio. Da quel momento nulla sarà come prima. I segni di un silenzioso malessere si insidiano nelle membra di Anne sì da causarle prima una paresi al lato destro del corpo, poi la totale immobilità per una non vita di indifesa fanciullezza, d'impotente afasia. La donna diverrà peso morto, crisalide di dolore aggrappata a un letto.
Non solo le rughe dell'età, ma sgomento e paura incidono ora il volto di Trintignant: la persona che amava e ama sta iniziando a svanire davanti ai suoi occhi. Dopo aver promesso ad Anne di non riportarla mai più in ospedale, Georges è sottoposto alla crescente responsabilità di prendersi cura di lei personalmente. E tuttavia le scene più angoscianti del film sono le prime: piccoli indizi che Haneke sparge per via a inizio pellicola. Qualcosa non va. Anne si sveglia nel cuore della notte fissando il vuoto, attonita. Successivamente ella garantisce al marito che nulla è accaduto. E' lei a rassicurarlo: tutto va bene, l'uomo può tranquillamente scacciare i cattivi pensieri. Ma la mattina dopo, a colazione, la donna cambierà forma, assumendo le fattezze d'immobile simulacro. Quasi una statua, il suo bel volto mite riporterà i segni di una serenità mortuaria.




Da allora la casa sarà barricata, luogo d'assedio tra vita e morte. In tal modo le preoccupazioni degli altri (amici e parenti stretti) saranno mal accette e percepite come prive di significato.
Con il coraggio di chi teme di perdere il più prezioso dei beni, Georges si troverà suo malgrado solista di una danza macabra al fine di strappare Anne dalle tenebre per riabbracciarla così come era un tempo. Ma la luce della donna amata sta iniziando a svanire.
Haneke ci pone innanzi a quesiti di forse inarrivabile risposta. Cos'è l'amore e cosa accade quando la metà di una coppia si ritrova sola e spezzata? C'è un modo per far fronte a tutto questo? La vita è sempre degna di essere vissuta? Una luce invernale mescolata ad una palpabile sensazione di semioscurità pervade l'intera pellicola. Il dramma da camera si snoda tranquillamente sotto nuvole grigie. Non c'è tempesta, solo cambiamenti graduali: un giorno, una settimana, un mese, quello successivo. L'appartamento è altresì teatro per le storie dei protagonisti. In esso convivono passato, presente e futuro. In Haneke il mito della morte esplode con la violenza di un evento pubblico: qualcosa da condividere, attorno a cui radunarsi per partecipare di lacrime e agonia. L'autore affronta la realtà della malattia, ma la sua missione non è soltanto quella di mettere in mostra un ritratto realistico della fine (anche se questo fa parte del processo). Più di questo, egli brama esplorare le emozioni e gli istinti della coppia: l'orgoglio, la disperazione, la perdita imminente, l'empatia e i suoi limiti. Ci sono emozioni forti in gioco, ma anche un pragmatismo intenso. Georges ha fatto una promessa ad Anne (“Per favore non riportarmi in ospedale...Prometti...Promettimelo.”). Tra i suoi tanti significati e molteplici chiavi di lettura, Amour è anche un film sulla fedeltà e sulla forza di mantenere la parola data fino alla fine. 



 



mercoledì 24 ottobre 2012

Sleuth ( Gli insospettabili) - ll secondo articolo della nuova rubrica di CineClandestino sul punto d'incontro tra cinema e teatro rilegge per voi i due "Sleuth": l'originale "Gli insospettabili" di Joseph L. Mankiewicz del 1972 ed il remake diretto nel 2007 da Kenneth Branagh. Con Michael Caine a fare da trait d'union tra due epoche cinematografiche molto differenti













Titolo italiano: Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 1972
Durata: 138'
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Interpreti: Laurence Olivier, Michael Caine, Alec Cawthorne
Fotografia: Oswald Morris
Montaggio: Richard Marden
Scenografia: Ken Adam
Colonna sonora: John Addison

Titolo italiano: Sleuth - Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 2007
Durata: 86'
Regia: Kenneth Branagh
Interpreti: Michael Caine, Jude Law
Fotografia: Haris Zambarloukos
Montaggio: Neil Farrell
Scenografia: Tim Harvey
Colonna sonora: Patrick Doyle


di Chiara Roggino


Un'ombra a lato del proscenio. Sagoma buia, ne intravediamo appena le fattezze. Un uomo con cappello: detective St. John Lord Merridew. E ancora miniature, una dopo l'altra, microplastici di scenografie incorniciate da pesanti drappi,sipari scarlatti a spalancarsi sulle mirabolanti imprese del protagonista originato dalla fantasia di Andrew Wyke, scrittore di gialli rigorosamente ambientati in "location" aristocratiche (poiché “Il romanzo giallo è la ricreazione congegnale alle menti nobili”). E infine un trompe l'œil : la tela si solleva su uno scenario vivo, una villa immersa nella verde campagna inglese. E' sufficiente un rapido zoom per accostarci all'edificio e assistere all'incipit del “gioco”, sfiorando le mura, muovendosi fianco a fianco insieme al nuovo arrivato. Un certo Milo Tindle, si dice, parrucchiere per signora.





Un lento piano sequenza dall'alto ne segue i passi attraverso l'intricato labirinto di siepi. A guidarlo una voce in lontananza, stentorea, altisonante. Si suppone quella del padrone di casa.
Buio. Quindici anni dopo, un nuovo pubblico davanti al grande schermo. In principio è il ticchettio dei tasti di un computer: un complesso sistema di sorveglianza elettronica. Lo spettatore è così scaraventato a forza all'interno di un'esperienza metacinematografica sotto ogni aspetto: cinema nel cinema. Al di là dello schermo del vigile apparato di sicurezza prende vita un nuovo film. L'immagine ora è decolorata. Una macchina parcheggia davanti a un lussuoso maniero. Solo un braccio sporge dalla porta principale della magione. Quello del padrone di casa, si suppone. Il nuovo arrivato si presenta come Milo Tindle: attore disoccupato di professione, chaffeur part-time.





Sleuth (Gli insospettabili, 1972), ultima pellicola del cineasta Joseph L. Mankiewicz (Schiavo del passato, Eva contro Eva, Improvvisamente l'estate scorsa) è il fedele adattamento della pièce teatrale composta da Antony Shaffer, il quale per l'occasione operò in veste di sceneggiatore. Protagonisti d'eccezione Laurence Olivier e Michael Caine. Nel 2007 il britannicissimo Kenneth Branagh realizza (su sceneggiatura di Harold Pinter) un rifacimento della pellicola là dove lo stesso Caine ricoprirà il carattere allora interpretato da Olivier e Jude Law quello del giovane antagonista incarnato sul grande schermo dall'attore londinese. I ruoli si invertono, gli scenari mutano aspetto, le storie si aggrovigliano prendendo pieghe inaspettate, fino agli antipodi.




 
Fu Shaffer a dichiarare quanto la commedia avesse tratto in parte ispirazione da uno dei suoi più cari amici, Stephen Sondheim, il cui morboso interesse per i giochi e i divertissements rifletteva in parte il carattere dell'eccentrico Andrew Wike. La prima rappresentazione del dramma, interpretata da Anthony Quayle e Keith Baxter, debuttò al teatro Saint Martin di Londra.
Parlando con Mel Gussow del New York Times nel novembre del 1970, Shaffer dirà : "
I gialli di Agata Christie sono ormai anticaglia. Essi presentano il misterioso simulacro di un'Inghilterra defunta trent'anni or sono, una società fortemente strutturata per divisione in classi. La vittima, l'assassino e il detective erano tutti signori o signore dell'alta nobiltà". Continua a spiegare: "Il mistero ha bisogno di una nuova mano di vernice fresca per dare nuovo smalto a qualsivoglia intreccio di genere. Servono nuove idee. Sono perfettamente cosciente che esse potrebbero originare da un processo creativo di complessa e difficile attuazione”.
Discorrendo di sceneggiatori d'alta levatura, tra Aaron Sorkin, David Mamet e Ben Hecht, Antony Shaffer rientrerebbe a pieno diritto all'interno del mazzo. Se amate dialoghi incalzanti al limite della perfezione il prossimo film a cui dare la caccia è certamente
Sleuth ( Mankiewicz). Il set è la storia di un gioco a due, trastullo offensivo sfaccettato tra travestimenti e scambi di ruolo là dove il più forte prende il posto del più debole e viceversa. Lo spettatore riconoscerà subitamente l'ossessione per i travestimenti e le sciarade, peculiarità del personaggio Andrew Wykes (Olivier). I dettagli sparsi per la nobile magione non sono certo irrilevanti.
A partire dal grottesco Jack Molina, automa ad altezza umana di marinaio ubriacone in grado di ridere a comando, se sollecitato da un pulsante, l'occhio del pubblico potrà spaziare aggirandosi in libertà tra bambole che suonano il piano, bambole che danzano adornate di ghirlande floreali, statuette di mandarini che sorseggiano il the. Allo stesso modo anche il gusto arcaico per la musica d'altri tempi (Cole Porter in particolare) lascia subodorare l'ombra di un personaggio doppio, costretto a giocare un ruolo nella vita, sempre il medesimo, fino all'irreversibile finale.
Il gioco è peculiarità per una costante lotta al potere. Chi lo detiene, chi domina e chi ne è succube? Inizialmente sembra che Wike abbia Tindle in pugno, tanto da trasformare il giovane
latin lover in buffone con le carte in regola: Joy, clown calzato e vestito. Milo, viveur quasi libero dalla vergogna derivante da umili origini nonché da un pesante fallimento economico familiare, finisce per ritrovarsi, a suo modo, nelle vesti di un ladruncolo da quattro soldi. Se Laurence Olivier fu "materiale" di prima scelta per il ruolo del celebre autore di gialli Andrew Wyke, Michael Caine non fu il primo candidato per il parvenu Milo Tindle. Albert Finney fu precedentemente preso in considerazione per essere successivamente respinto (alcuni dicono perché in sovrappeso). Caine fu inizialmente intimidito al pensiero di lavorare con Olivier tanto da non sapere come rivolgersi al Sir del teatro anglosassone. Ma i due divennero presto amici, instaurando sul set un ottimo rapporto consequenziale ad un altrettanto strepitoso affiatamento tra performers.
Internamente ad un percorso critico che intenda mettere a confronto due pellicole di uguale origine ma di differente matrice (Mankiewicz da una parte, Branagh dall'altra) il gioco si fa duro. Apprestandoci ad un'analisi filmica che accosti due opere tanto diverse, semplificheremo l'approccio sfaccettato tra divergenze e punti in comune attraverso l'utilizzo di tre cardini ad assumere la fisionomia di tre parole chiave: luogo (qual è l'ambientazione del film?), caratteri e intreccio.
Mankiewicz ambienta le vicende dei suoi protagonisti all'interno di una villa padronale là dove dialoghi e azione avverranno quasi interamente entro le pareti domestiche: un salone arredato da bizzarre chincaglierie (automi, pupazzi, souvenirs d'ogni genere e provenienza), una scala che conduce al piano superiore, la camera da letto di Margherita (donna contesa dai due duellanti). La location è congegnale al dipanarsi della storia. Gli stravaganti arredi interni al maniero sono lo specchio fedele della psicologia-visione del mondo del giocatore Wike (personaggio rappresentato d'innumerevoli fratture-scarti caratteriali, puzzle carente di tasselli, rompicapo d'altri tempi, incarnazione perfetta di quella nobiltà compiaciuta di sé, sprezzante della
middle class e di tutti i suoi membri, indistintamente).
Da canto suo Branagh allestisce come sfondo alla lotta tra Caine e Law un'altrettanto nobile dimora, arredata alla foggia di un immenso salone di bizzarra arte contemporanea.
Tromps l'oeils ancora in bella vista, un ascensore al centro della scena, complessi apparati di luci al neon attivabili tramite telecomando: emananti talora luce fredda, glaciale, talora spunto per una fotografia in cui predominano filtri blu, adatti ad accrescere l'atmosfera del gioco.
Sir Laurence Olivier è perfettamente a suo agio nelle vesti del celebre e spocchioso scrittore di gialli. Fin dalle prime inquadrature lo vedremo camminare avanti e indietro con passo austero e nobile cipiglio: l'uomo e l'artista simulano il monologo finale del detective St. John Lord Merridew. Il divo del teatro shakespeariano non potrebbe essere più a suo agio. La voce risuona stentorea mentre ampi gesti accompagnano la declamazione del fatale verdetto. Da parte sua Caine, internamente al percorso filmico allestito da Branagh, sguazzerà come un pesce nell'acqua.





Già nel 1972, diretto da Mankiewicz, egli affermerà di prediligere , tra i due, il carattere affidato a Olivier. Una recitazione, la sua, al limite della gigioneria e della "macchietta", pur efficace a suo modo, specie nella prima parte del film. Per quel che concerne il personaggio-Milo, Caine e Law non potrebbero essere più diversi tra loro.
Se il primo si presenta come uomo di bassa estrazione, gentleman ripulito a dovere vestito alla moda, sorriso sornione stampato sulle labbra, Law, da parte sua non sarà più un coiffeur per signora (anche se Wike non farà che sminuirlo definendolo spregevolmente più e più volte “parrucchiere”), ma un attore, disoccupato sì, ma pur sempre un attore.
Ma Mankiewicz ha dalla sua un asso vincente. Shaffer, autore della commedia, curerà la sceneggiatura del film dalla prima all'ultima battuta. Un finale perfetto per una perfetta chiusura del cerchio quella dell'originale Sleuth. I giocatori si scambiano di ruolo fino all'inevitabile, spietato the end. Se nella prima parte della pellicola Branagh allestisce un esercizio di stile affascinante con vette d'alto convincimento, internamente alla seconda metà del gioco il mazzo di carte gli cade di mano. Re e regine, assi e bastoni si sparpagliano a terra sì che il film comincia a perdere colpi. Perché non rispettare la sceneggiatura della pièce di Shaffer? L'autore procede a casaccio, a briglia sciolta, venendo a strutturare situazioni narrative di scarsa se non nulla efficacia. Così sarà ridicolo l'approccio pseudo omosessuale dello scrittore di gialli nei confronti del giovane attore. La situazione si presenterà al limite del grottesco, attaccata maldestramente al resto delle pellicola con un nastro adesivo di scarsa tenuta. Allo stesso modo, il finale concepito da Branagh con l'ausilio del povero Pinter sarà una conclusione del tutto casuale, messa in piedi su basi inconsistenti. Un retrogusto amaro rimarrà in bocca allo spettatore, cosciente di aver assistito a una chiusura di sipario tirata per i capelli, messa in scena senza un concreto perché.