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sabato 10 novembre 2012

Amour








Un film di Michael Haneke
Con Jean-Louis Trintignant, Emanuelle Riva, Isabelle Huppert
Genere: Drammatico
Soggetto: Michael Haneke
Sceneggiatura: Michael Haneke
Produzione: Stefan Arndt, Margaret Ménégoz, Veit Heiduschka (co-produttore), Michael Katz (co-produttore)
Casa di produzione: Les Films du Losange, X-Filme Creatve Pool, Wega Film
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Nadine Muse, Monika Willi
Scenografia: Jean-Vincent Puzos
Costumi: Céline Collobert

di Chiara Roggino


Salotto di un'ampia dimora borghese. Georges, uomo sull'ottantina, siede alla poltrona. Quasi ipnotizzato, osserva il pianoforte a mezzacoda presente nella stanza. Innanzi allo strumento, Anne: compagna per la vita, musicista, alla pari del marito. Elegante figura, sfiora i tasti bianco e neri a evocare note familiari di un improvviso schubertiano. Le pagine dello spartito s'involano, sfogliandosi una dopo l'altra, leste, senza pause: un preludio che vorrebbe sovvertire le leggi del tempo, costretto suo malgrado a chinare il capo innanzi alle regole della fuga. I giorni si susseguono per lasciar posto agli anni anche per una coppia accordata alla perfezione. Ora una vecchia bambina riposa mollemente su un guanciale di petali. A turbare la sua quiete, polizia e vigili del fuoco: indagano gli interni domestici, ipotizzano eventi alla ricerca del perché e del per come.
Il regista austriaco Michael Haneke è senz'altro il capo procuratore dei peccati dell'uomo moderno. La sua rappresentazione della disumanità insita in personaggi apparentemente intoccabili nella loro masquerade di civiltà ha sollevato strepiti al suono di parole aspre tali “sadismo cinematografico”. Nessuno, tuttavia, potrà contestare quella padronanza nel dirigere le scene di moderni psicodrammi tali La pianista (2001) e Caché (2005) fino all'epico Il nastro bianco (2009), pellicola che ritrae il collettivo senso di colpa in una città tedesca vent'anni anni prima della nascita di Hitler.
Amour ( Palma d'Oro al Festival di Cannes 2012) può constare di numerose pietre di paragone-retroterra dell'opera del cineasta: stile visivo austero e maestoso, una coppia al centro della storia, un ambiente chiuso al limite della claustrofobia che non consente via di fuga ai personaggi e ai loro demoni.
Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), sono una coppia ottuagenaria: insegnanti di musica in pensione. La prima scena del film li ritrae sperduti tra il pubblico in una grande sala. Haneke usufruisce di un piano fisso per cui spetterà all'occhio vigile dello spettatore farsi strada fra le tante e tante e tante facce per rintracciare i protagonisti. Sarà sufficiente un briciolo d'attenzione per vederli parlottare, seduti in terza fila, ansiosi di assistere al concerto di un allievo d'antica data di Anne. Di rientro a casa, la coppia si accorge di un tentato furto ai danni dell'appartamento. La serratura è stata evidentemente forzata. Quasi un presagio del poi, qualcuno o qualcosa ha cercato di introdursi nel nido protetto per guastarne la placidità, portando scompiglio. Da quel momento nulla sarà come prima. I segni di un silenzioso malessere si insidiano nelle membra di Anne sì da causarle prima una paresi al lato destro del corpo, poi la totale immobilità per una non vita di indifesa fanciullezza, d'impotente afasia. La donna diverrà peso morto, crisalide di dolore aggrappata a un letto.
Non solo le rughe dell'età, ma sgomento e paura incidono ora il volto di Trintignant: la persona che amava e ama sta iniziando a svanire davanti ai suoi occhi. Dopo aver promesso ad Anne di non riportarla mai più in ospedale, Georges è sottoposto alla crescente responsabilità di prendersi cura di lei personalmente. E tuttavia le scene più angoscianti del film sono le prime: piccoli indizi che Haneke sparge per via a inizio pellicola. Qualcosa non va. Anne si sveglia nel cuore della notte fissando il vuoto, attonita. Successivamente ella garantisce al marito che nulla è accaduto. E' lei a rassicurarlo: tutto va bene, l'uomo può tranquillamente scacciare i cattivi pensieri. Ma la mattina dopo, a colazione, la donna cambierà forma, assumendo le fattezze d'immobile simulacro. Quasi una statua, il suo bel volto mite riporterà i segni di una serenità mortuaria.




Da allora la casa sarà barricata, luogo d'assedio tra vita e morte. In tal modo le preoccupazioni degli altri (amici e parenti stretti) saranno mal accette e percepite come prive di significato.
Con il coraggio di chi teme di perdere il più prezioso dei beni, Georges si troverà suo malgrado solista di una danza macabra al fine di strappare Anne dalle tenebre per riabbracciarla così come era un tempo. Ma la luce della donna amata sta iniziando a svanire.
Haneke ci pone innanzi a quesiti di forse inarrivabile risposta. Cos'è l'amore e cosa accade quando la metà di una coppia si ritrova sola e spezzata? C'è un modo per far fronte a tutto questo? La vita è sempre degna di essere vissuta? Una luce invernale mescolata ad una palpabile sensazione di semioscurità pervade l'intera pellicola. Il dramma da camera si snoda tranquillamente sotto nuvole grigie. Non c'è tempesta, solo cambiamenti graduali: un giorno, una settimana, un mese, quello successivo. L'appartamento è altresì teatro per le storie dei protagonisti. In esso convivono passato, presente e futuro. In Haneke il mito della morte esplode con la violenza di un evento pubblico: qualcosa da condividere, attorno a cui radunarsi per partecipare di lacrime e agonia. L'autore affronta la realtà della malattia, ma la sua missione non è soltanto quella di mettere in mostra un ritratto realistico della fine (anche se questo fa parte del processo). Più di questo, egli brama esplorare le emozioni e gli istinti della coppia: l'orgoglio, la disperazione, la perdita imminente, l'empatia e i suoi limiti. Ci sono emozioni forti in gioco, ma anche un pragmatismo intenso. Georges ha fatto una promessa ad Anne (“Per favore non riportarmi in ospedale...Prometti...Promettimelo.”). Tra i suoi tanti significati e molteplici chiavi di lettura, Amour è anche un film sulla fedeltà e sulla forza di mantenere la parola data fino alla fine.