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mercoledì 24 ottobre 2012

Sleuth ( Gli insospettabili) - ll secondo articolo della nuova rubrica di CineClandestino sul punto d'incontro tra cinema e teatro rilegge per voi i due "Sleuth": l'originale "Gli insospettabili" di Joseph L. Mankiewicz del 1972 ed il remake diretto nel 2007 da Kenneth Branagh. Con Michael Caine a fare da trait d'union tra due epoche cinematografiche molto differenti













Titolo italiano: Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 1972
Durata: 138'
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Interpreti: Laurence Olivier, Michael Caine, Alec Cawthorne
Fotografia: Oswald Morris
Montaggio: Richard Marden
Scenografia: Ken Adam
Colonna sonora: John Addison

Titolo italiano: Sleuth - Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 2007
Durata: 86'
Regia: Kenneth Branagh
Interpreti: Michael Caine, Jude Law
Fotografia: Haris Zambarloukos
Montaggio: Neil Farrell
Scenografia: Tim Harvey
Colonna sonora: Patrick Doyle


di Chiara Roggino


Un'ombra a lato del proscenio. Sagoma buia, ne intravediamo appena le fattezze. Un uomo con cappello: detective St. John Lord Merridew. E ancora miniature, una dopo l'altra, microplastici di scenografie incorniciate da pesanti drappi,sipari scarlatti a spalancarsi sulle mirabolanti imprese del protagonista originato dalla fantasia di Andrew Wyke, scrittore di gialli rigorosamente ambientati in "location" aristocratiche (poiché “Il romanzo giallo è la ricreazione congegnale alle menti nobili”). E infine un trompe l'œil : la tela si solleva su uno scenario vivo, una villa immersa nella verde campagna inglese. E' sufficiente un rapido zoom per accostarci all'edificio e assistere all'incipit del “gioco”, sfiorando le mura, muovendosi fianco a fianco insieme al nuovo arrivato. Un certo Milo Tindle, si dice, parrucchiere per signora.





Un lento piano sequenza dall'alto ne segue i passi attraverso l'intricato labirinto di siepi. A guidarlo una voce in lontananza, stentorea, altisonante. Si suppone quella del padrone di casa.
Buio. Quindici anni dopo, un nuovo pubblico davanti al grande schermo. In principio è il ticchettio dei tasti di un computer: un complesso sistema di sorveglianza elettronica. Lo spettatore è così scaraventato a forza all'interno di un'esperienza metacinematografica sotto ogni aspetto: cinema nel cinema. Al di là dello schermo del vigile apparato di sicurezza prende vita un nuovo film. L'immagine ora è decolorata. Una macchina parcheggia davanti a un lussuoso maniero. Solo un braccio sporge dalla porta principale della magione. Quello del padrone di casa, si suppone. Il nuovo arrivato si presenta come Milo Tindle: attore disoccupato di professione, chaffeur part-time.





Sleuth (Gli insospettabili, 1972), ultima pellicola del cineasta Joseph L. Mankiewicz (Schiavo del passato, Eva contro Eva, Improvvisamente l'estate scorsa) è il fedele adattamento della pièce teatrale composta da Antony Shaffer, il quale per l'occasione operò in veste di sceneggiatore. Protagonisti d'eccezione Laurence Olivier e Michael Caine. Nel 2007 il britannicissimo Kenneth Branagh realizza (su sceneggiatura di Harold Pinter) un rifacimento della pellicola là dove lo stesso Caine ricoprirà il carattere allora interpretato da Olivier e Jude Law quello del giovane antagonista incarnato sul grande schermo dall'attore londinese. I ruoli si invertono, gli scenari mutano aspetto, le storie si aggrovigliano prendendo pieghe inaspettate, fino agli antipodi.




 
Fu Shaffer a dichiarare quanto la commedia avesse tratto in parte ispirazione da uno dei suoi più cari amici, Stephen Sondheim, il cui morboso interesse per i giochi e i divertissements rifletteva in parte il carattere dell'eccentrico Andrew Wike. La prima rappresentazione del dramma, interpretata da Anthony Quayle e Keith Baxter, debuttò al teatro Saint Martin di Londra.
Parlando con Mel Gussow del New York Times nel novembre del 1970, Shaffer dirà : "
I gialli di Agata Christie sono ormai anticaglia. Essi presentano il misterioso simulacro di un'Inghilterra defunta trent'anni or sono, una società fortemente strutturata per divisione in classi. La vittima, l'assassino e il detective erano tutti signori o signore dell'alta nobiltà". Continua a spiegare: "Il mistero ha bisogno di una nuova mano di vernice fresca per dare nuovo smalto a qualsivoglia intreccio di genere. Servono nuove idee. Sono perfettamente cosciente che esse potrebbero originare da un processo creativo di complessa e difficile attuazione”.
Discorrendo di sceneggiatori d'alta levatura, tra Aaron Sorkin, David Mamet e Ben Hecht, Antony Shaffer rientrerebbe a pieno diritto all'interno del mazzo. Se amate dialoghi incalzanti al limite della perfezione il prossimo film a cui dare la caccia è certamente
Sleuth ( Mankiewicz). Il set è la storia di un gioco a due, trastullo offensivo sfaccettato tra travestimenti e scambi di ruolo là dove il più forte prende il posto del più debole e viceversa. Lo spettatore riconoscerà subitamente l'ossessione per i travestimenti e le sciarade, peculiarità del personaggio Andrew Wykes (Olivier). I dettagli sparsi per la nobile magione non sono certo irrilevanti.
A partire dal grottesco Jack Molina, automa ad altezza umana di marinaio ubriacone in grado di ridere a comando, se sollecitato da un pulsante, l'occhio del pubblico potrà spaziare aggirandosi in libertà tra bambole che suonano il piano, bambole che danzano adornate di ghirlande floreali, statuette di mandarini che sorseggiano il the. Allo stesso modo anche il gusto arcaico per la musica d'altri tempi (Cole Porter in particolare) lascia subodorare l'ombra di un personaggio doppio, costretto a giocare un ruolo nella vita, sempre il medesimo, fino all'irreversibile finale.
Il gioco è peculiarità per una costante lotta al potere. Chi lo detiene, chi domina e chi ne è succube? Inizialmente sembra che Wike abbia Tindle in pugno, tanto da trasformare il giovane
latin lover in buffone con le carte in regola: Joy, clown calzato e vestito. Milo, viveur quasi libero dalla vergogna derivante da umili origini nonché da un pesante fallimento economico familiare, finisce per ritrovarsi, a suo modo, nelle vesti di un ladruncolo da quattro soldi. Se Laurence Olivier fu "materiale" di prima scelta per il ruolo del celebre autore di gialli Andrew Wyke, Michael Caine non fu il primo candidato per il parvenu Milo Tindle. Albert Finney fu precedentemente preso in considerazione per essere successivamente respinto (alcuni dicono perché in sovrappeso). Caine fu inizialmente intimidito al pensiero di lavorare con Olivier tanto da non sapere come rivolgersi al Sir del teatro anglosassone. Ma i due divennero presto amici, instaurando sul set un ottimo rapporto consequenziale ad un altrettanto strepitoso affiatamento tra performers.
Internamente ad un percorso critico che intenda mettere a confronto due pellicole di uguale origine ma di differente matrice (Mankiewicz da una parte, Branagh dall'altra) il gioco si fa duro. Apprestandoci ad un'analisi filmica che accosti due opere tanto diverse, semplificheremo l'approccio sfaccettato tra divergenze e punti in comune attraverso l'utilizzo di tre cardini ad assumere la fisionomia di tre parole chiave: luogo (qual è l'ambientazione del film?), caratteri e intreccio.
Mankiewicz ambienta le vicende dei suoi protagonisti all'interno di una villa padronale là dove dialoghi e azione avverranno quasi interamente entro le pareti domestiche: un salone arredato da bizzarre chincaglierie (automi, pupazzi, souvenirs d'ogni genere e provenienza), una scala che conduce al piano superiore, la camera da letto di Margherita (donna contesa dai due duellanti). La location è congegnale al dipanarsi della storia. Gli stravaganti arredi interni al maniero sono lo specchio fedele della psicologia-visione del mondo del giocatore Wike (personaggio rappresentato d'innumerevoli fratture-scarti caratteriali, puzzle carente di tasselli, rompicapo d'altri tempi, incarnazione perfetta di quella nobiltà compiaciuta di sé, sprezzante della
middle class e di tutti i suoi membri, indistintamente).
Da canto suo Branagh allestisce come sfondo alla lotta tra Caine e Law un'altrettanto nobile dimora, arredata alla foggia di un immenso salone di bizzarra arte contemporanea.
Tromps l'oeils ancora in bella vista, un ascensore al centro della scena, complessi apparati di luci al neon attivabili tramite telecomando: emananti talora luce fredda, glaciale, talora spunto per una fotografia in cui predominano filtri blu, adatti ad accrescere l'atmosfera del gioco.
Sir Laurence Olivier è perfettamente a suo agio nelle vesti del celebre e spocchioso scrittore di gialli. Fin dalle prime inquadrature lo vedremo camminare avanti e indietro con passo austero e nobile cipiglio: l'uomo e l'artista simulano il monologo finale del detective St. John Lord Merridew. Il divo del teatro shakespeariano non potrebbe essere più a suo agio. La voce risuona stentorea mentre ampi gesti accompagnano la declamazione del fatale verdetto. Da parte sua Caine, internamente al percorso filmico allestito da Branagh, sguazzerà come un pesce nell'acqua.





Già nel 1972, diretto da Mankiewicz, egli affermerà di prediligere , tra i due, il carattere affidato a Olivier. Una recitazione, la sua, al limite della gigioneria e della "macchietta", pur efficace a suo modo, specie nella prima parte del film. Per quel che concerne il personaggio-Milo, Caine e Law non potrebbero essere più diversi tra loro.
Se il primo si presenta come uomo di bassa estrazione, gentleman ripulito a dovere vestito alla moda, sorriso sornione stampato sulle labbra, Law, da parte sua non sarà più un coiffeur per signora (anche se Wike non farà che sminuirlo definendolo spregevolmente più e più volte “parrucchiere”), ma un attore, disoccupato sì, ma pur sempre un attore.
Ma Mankiewicz ha dalla sua un asso vincente. Shaffer, autore della commedia, curerà la sceneggiatura del film dalla prima all'ultima battuta. Un finale perfetto per una perfetta chiusura del cerchio quella dell'originale Sleuth. I giocatori si scambiano di ruolo fino all'inevitabile, spietato the end. Se nella prima parte della pellicola Branagh allestisce un esercizio di stile affascinante con vette d'alto convincimento, internamente alla seconda metà del gioco il mazzo di carte gli cade di mano. Re e regine, assi e bastoni si sparpagliano a terra sì che il film comincia a perdere colpi. Perché non rispettare la sceneggiatura della pièce di Shaffer? L'autore procede a casaccio, a briglia sciolta, venendo a strutturare situazioni narrative di scarsa se non nulla efficacia. Così sarà ridicolo l'approccio pseudo omosessuale dello scrittore di gialli nei confronti del giovane attore. La situazione si presenterà al limite del grottesco, attaccata maldestramente al resto delle pellicola con un nastro adesivo di scarsa tenuta. Allo stesso modo, il finale concepito da Branagh con l'ausilio del povero Pinter sarà una conclusione del tutto casuale, messa in piedi su basi inconsistenti. Un retrogusto amaro rimarrà in bocca allo spettatore, cosciente di aver assistito a una chiusura di sipario tirata per i capelli, messa in scena senza un concreto perché.










giovedì 12 luglio 2012

Hugo Cabret






Un film di Martin Scorsese
Con Asa Butterfield, Cloe Moretz, Ben Kingsley, Sacha Baron Coen, Jude Law, Cristopher Lee
Titolo originale: Hugo
Genere: Avventura, fantasy
Soggetto: Brian Selznick
Sceneggiatura: John Logan
Produzione: Martin Scorsese, Johnny Depp, Tim Headington, Graham King
Casa di produzione: GK Film, Infinitum Nihil
Montaggio: Thelma Shoonmaker
Effetti speciali: Simon Cockren
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi: Sandy Powell, Fola Solanke


di Chiara Roggino



Anni trenta. L’orfano Hugo Cabret vive clandestinamente tra le mura della stazione di Montparnasse. A fargli da casa un un labirinto di buie segrete, reticolo di stanze sospese a mezz’aria. Unico ricordo del padre, orologiaio da cui il piccolo ha appreso il mestiere, uno strano automa che, riparato a dovere, dovrebbe essere in grado di scrivere. Nell’impresa volta a recuperare i pezzi mancanti per risanare l’uomo meccanico, Hugo conoscerà la giovane Isabelle e il suo padrino: un eccentrico giocattolaio dai modi bruschi che nasconde un segreto. Egli è in realtà Georges Méliès, uno dei più grandi tra i padri fondatori del cinema muto. (sinossi)




Ascolta. Un treno in lontananza. E’ questione di pochi secondi e alla voce della macchina si sovrappone un fischio: il capostazione chiama a raduno l’imponente gregge metallico. Ed ecco un nuovo suono a distrarre l’attenzione. Il ticchettio di un ingranaggio. Il rumore fuori campo si fa improvvisamente immagine: un corpo metallico danzante e il grande orologio prende vita. Vedi il perno intorno a cui tutto gira? Ora non è più macchina, ma la sagoma dell’Arc de Triomphe. Parigi, meccanismo di strade illuminate: la Ville Lumière è rompicapo d’ingranaggi. Ogni tassello ha il suo compagno combaciante. L’occhio meccanico rivela il grande treno che si avvia a destinazione: Paris Montparnasse. Un carrello frenetico segue il brulicare dei clienti, il chiacchiericcio costante di habitués e commessi viaggiatori. Lo sguardo cambia bruscamente prospettiva. La cinepresa si solleva fino a inquadrare un grande orologio a cipolla. C’è una finestra anomala al “numero quattro”. Niente di meglio per spiare l’andirivieni degli indigeni di laggiù. Dall’alto, un occhio perfettamente azzurro controlla la situazione. L’occhio di Hugo. Secondo il bibliotecario Labisse ( un superbo Christopher Lee) ogni libro conosce la sua giusta ubicazione: la dimora che gli è più consona per questo o quel motivo. Ragioni di somma importanza, intendiamoci. E’ stato forse un ineluttabile e magico destino a sospingere tra le mani di Martin Scorsese le pagine di Brian Selznick e del suo “The invention of Hugo Cabret”? La fiaba del bambino che ripara orologi e , cosa ben più importante, lenisce gli affanni delle persone che incontra, rientra in un territorio lontano anni luce dagli scenari abituali cui il grande maestro ci ha avvezzati, fin dai suoi primissimi film.
A settant’anni, Scorsese scopre il piacere del gioco nella sua espressione più pura, si appassiona al 3D, fino ad ottenere l’impensabile: un omaggio alla settima arte che conosce l’ampio respiro di uno spirito visionario fanciullo. Da una scatola ruzzola fuori una pioggia di schizzi su carta quando fantasmi d’onirica sostanza prendono il volo: un mondo lontano popolato da trucchi magici, creature bizzarre che appaiono e scompaiono a loro piacimento. Da segnalare l’ottima prova degli scenografi Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Oscar meritato, il loro, per aver allestito una Parigi che conosce la polvere e lo smalto dei vecchi set cinematografici anni trenta: volutamente artefatta e viva nel medesimo tempo. Il film, nella sua prima metà, scorre senza intoppi, incanta e affascina così da concretare le ottime intenzioni di un maestro che dietro all’occhio della cinepresa non teme rivali. Ma, in questo divertissement di slanci e corse pazze a omaggiare il mondo dei sogni, Scorsese conosce un brusco arresto. Il bambino che è in lui si lascia trasportare dal gioco e a cavallo di un gioco sfrenato, si sa, specie senza redini, quel che si rischia è una brutta caduta. L’autore pare aver dimenticato che una buona storia, per appassionare, non può procedere esclusivamente per immagini. Ci vuole quel qualcosa in più. Un racconto ben strutturato, innanzitutto. Personaggi sfaccettati e credibili, non monolitici sembianti che ben poco hanno da narrare ed esprimere. Non si può chiedere l’impossibile a un attore del calibro di Ben Kingsley. Se a difettare è la storia, se le situazioni sono rare quando del tutto assenti, il carisma dell’attore, il suo istrionismo nell’annullarsi in un carattere, potranno servire a poco. Forse Méliès meritava di più. E una parte del pubblico non si accontenterà di assistere alla ricostruzione delle performances nello studio-serra di Montreuil o di testimoniare delle pellicole originali del geniale cineasta francese. Quel che manca è una storia, delle motivazioni solide per far progredire il personaggio nel suo excursus di maturazione emotiva: dalla rabbia, al dolore, alla catarsi. Scorsese offre rare argomentazioni così che i suoi personaggi perdono sostanza e svaniscono nel nulla. Come in un gioco di prestigio riuscito alla perfezione.