Un
film di Martin Scorsese
Con
Asa Butterfield, Cloe Moretz, Ben Kingsley, Sacha Baron Coen, Jude
Law, Cristopher Lee
Titolo
originale: Hugo
Genere:
Avventura, fantasy
Soggetto:
Brian Selznick
Sceneggiatura:
John Logan
Produzione:
Martin Scorsese, Johnny Depp, Tim Headington, Graham King
Casa
di produzione: GK Film, Infinitum Nihil
Montaggio:
Thelma Shoonmaker
Effetti
speciali: Simon Cockren
Musiche:
Howard Shore
Scenografia:
Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi:
Sandy Powell, Fola Solanke
di
Chiara Roggino
Anni
trenta. L’orfano Hugo Cabret vive clandestinamente tra le mura
della stazione di Montparnasse. A fargli da casa un un labirinto di
buie segrete, reticolo di stanze sospese a mezz’aria. Unico ricordo
del padre, orologiaio da cui il piccolo ha appreso il mestiere, uno
strano automa che, riparato a dovere, dovrebbe essere in grado di
scrivere. Nell’impresa volta a recuperare i pezzi mancanti per
risanare l’uomo meccanico, Hugo conoscerà la giovane Isabelle e il
suo padrino: un eccentrico giocattolaio dai modi bruschi che nasconde
un segreto. Egli è in realtà Georges Méliès, uno dei più grandi
tra i padri fondatori del cinema muto. (sinossi)
Ascolta. Un treno in lontananza. E’ questione di pochi secondi e alla voce della macchina si sovrappone un fischio: il capostazione chiama a raduno l’imponente gregge metallico. Ed ecco un nuovo suono a distrarre l’attenzione. Il ticchettio di un ingranaggio. Il rumore fuori campo si fa improvvisamente immagine: un corpo metallico danzante e il grande orologio prende vita. Vedi il perno intorno a cui tutto gira? Ora non è più macchina, ma la sagoma dell’Arc de Triomphe. Parigi, meccanismo di strade illuminate: la Ville Lumière è rompicapo d’ingranaggi. Ogni tassello ha il suo compagno combaciante. L’occhio meccanico rivela il grande treno che si avvia a destinazione: Paris Montparnasse. Un carrello frenetico segue il brulicare dei clienti, il chiacchiericcio costante di habitués e commessi viaggiatori. Lo sguardo cambia bruscamente prospettiva. La cinepresa si solleva fino a inquadrare un grande orologio a cipolla. C’è una finestra anomala al “numero quattro”. Niente di meglio per spiare l’andirivieni degli indigeni di laggiù. Dall’alto, un occhio perfettamente azzurro controlla la situazione. L’occhio di Hugo. Secondo il bibliotecario Labisse ( un superbo Christopher Lee) ogni libro conosce la sua giusta ubicazione: la dimora che gli è più consona per questo o quel motivo. Ragioni di somma importanza, intendiamoci. E’ stato forse un ineluttabile e magico destino a sospingere tra le mani di Martin Scorsese le pagine di Brian Selznick e del suo “The invention of Hugo Cabret”? La fiaba del bambino che ripara orologi e , cosa ben più importante, lenisce gli affanni delle persone che incontra, rientra in un territorio lontano anni luce dagli scenari abituali cui il grande maestro ci ha avvezzati, fin dai suoi primissimi film.
A
settant’anni, Scorsese scopre il piacere del gioco nella sua
espressione più pura, si appassiona al 3D, fino ad ottenere
l’impensabile: un omaggio alla settima arte che conosce l’ampio
respiro di uno spirito visionario fanciullo. Da una scatola ruzzola
fuori una pioggia di schizzi su carta quando fantasmi d’onirica
sostanza prendono il volo: un mondo lontano popolato da trucchi
magici, creature bizzarre che appaiono e scompaiono a loro
piacimento. Da segnalare l’ottima prova degli scenografi Dante
Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Oscar meritato, il loro, per aver
allestito una Parigi che conosce la polvere e lo smalto dei vecchi
set cinematografici anni trenta: volutamente artefatta e viva nel
medesimo tempo. Il film, nella sua prima metà, scorre senza intoppi,
incanta e affascina così da concretare le ottime intenzioni di un
maestro che dietro all’occhio della cinepresa non teme rivali. Ma,
in questo divertissement di slanci e corse pazze a omaggiare il mondo
dei sogni, Scorsese conosce un brusco arresto. Il bambino che è in
lui si lascia trasportare dal gioco e a cavallo di un gioco sfrenato,
si sa, specie senza redini, quel che si rischia è una brutta caduta.
L’autore pare aver dimenticato che una buona storia, per
appassionare, non può procedere esclusivamente per immagini. Ci
vuole quel qualcosa in più. Un racconto ben strutturato,
innanzitutto. Personaggi sfaccettati e credibili, non monolitici
sembianti che ben poco hanno da narrare ed esprimere. Non si può
chiedere l’impossibile a un attore del calibro di Ben Kingsley. Se
a difettare è la storia, se le situazioni sono rare quando del tutto
assenti, il carisma dell’attore, il suo istrionismo nell’annullarsi
in un carattere, potranno servire a poco. Forse Méliès meritava di
più. E una parte del pubblico non si accontenterà di assistere
alla ricostruzione delle performances nello studio-serra di Montreuil
o di testimoniare delle pellicole originali del geniale cineasta
francese. Quel che manca è una storia, delle motivazioni solide per
far progredire il personaggio nel suo excursus di maturazione
emotiva: dalla rabbia, al dolore, alla catarsi. Scorsese offre rare
argomentazioni così che i suoi personaggi perdono sostanza e
svaniscono nel nulla. Come in un gioco di prestigio riuscito alla
perfezione.
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