Un
film di Pedro Almodovar
Con
Antonio Banderas, Elena Anaya,
Marisa Paredes, Jan Cornet
Titolo
originale: La
piel que habito
Durata:
120 min.
Genere:
Drammatico
Soggetto:
Thierry
Jonquet (romanzo)
Sceneggiatura:
Pedro Almodovar, Augustìn Almodovar
Produzione:
Augustìn Almodovar, Esther Garcia
Casa
di produzione: El Deseo
Fotografia:
José Luis Alcaine
Montaggio:
José Salcedo
Musiche:
Alberto Iglesias
Scenografia:
Antxòn Gomez
Costumi:
Paco Delgado, Jean-Paul Gaultier
Spagna
2011
di Chiara Roggino.
Si
può detestare o amare incondizionatamente . Il cinema di Almodovar è
cucito ad hoc per uno spettatore che non conosce mezze misure. Il suo
ultimo film, “La pelle che abito”, è distribuito nelle sale
italiane dal 23 settembre.
Un nuovo film comporta un nuovo “percorso” per un territorio ancora incontaminato, tutto da esplorare. Ci si aggira per le stanze, senza fretta. Il più piccolo dettaglio potrebbe essere fondamentale. Si salgono scale, gradino dopo gradino. Strana mobilia, quadri appesi alle pareti, nudi di donna. Quale sarà il primo colpo di scena? Mentre si muove per le stanze osservando, assorbendo poco a poco l’ambiente che lo circonda, lo spettatore pregusta la manifestazione di quei “segni”: inconfondibili marchi d’autore sparpagliati per vezzo da Almodovar, instancabile "pollicino", ovunque, tra le pagine di una storia ancora tutta a venire. C’è un cartello da leggere, un cancello. Oltre il cancello una strada sterrata. Alla fine della strada una casa e una finestra chiusa dall’esterno. La camera ci mostra per la prima volta il corpo di Vera ( Elena Anaya: bella di una recitazione “tutta occhi”), inguainato in una tuta color carne, teso ad arco, in posizione yoga. L’immagine è sufficiente per innescare un flashback di altri corpi in movimento, donne a scontrarsi come cieche su un palcoscenico. Quando il tempo sembra fermarsi ad accompagnare la rivelazione della bellezza più pura. Era “Café Muller” e c’era un’indimenticabile Pina Bausch. Impossibile allora non commuoversi, insieme a Dario Grandinetti ( Parla con lei, 2002).
Giunti
all’ingresso di una sala operatoria, non esiteremo, entrandovi a
passo spedito. Ne abbiamo visti tanti: ospedali, sale operatorie,
sale di rianimazione. L’ambiente, pallido e sterile, era sempre
vivificato dalla presenza di una donna. Quante donne straordinarie!
La
clinica che ci apprestiamo a visitare è gestita dal chirurgo
estetico Robert Ledgard (Antonio Banderas) e dalla sua équipe. Gli
occhi si abituano facilmente all’habitat spettrale illuminato da
luci fredde. E’ ora di assistere all’”esperimento”.
“Costa
molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non bisogna
essere tirchi perché una è tanto più autentica tanto più somiglia
all’idea che ha di se stessa.” ( Tutto su mia madre, 1999 )
I personaggi di Almodovar gridano fame di coerenza quando
l’intervento chirurgico diventa l’ultima spiaggia per salvare la
donna che si strazia in un corpo che non le appartiene.
Vicente
vive serenamente la sua mascolinità. Tuttavia è qui: giace
profondamente addormentato in attesa di una vaginoplastica.
L’incontro sbagliato al momento sbagliato. Era ad una festa,
ricorda. Aveva preso qualche pasticca di troppo e quella ragazza era
così carina. Il ragazzo è ancora all’oscuro: il corpo di cui sta
abusando appartiene a Norma, figlia del dottor Ledgard. Quella stessa
Norma che, in seguito allo stupro, si ucciderà. La vendetta del
padre sarà implacabile.
Tratto
dal romanzo “Tarantola” di Thierry Jonquet , “La pelle che
abito” segna l’incontro tra Almodovar e il noir. Pensato
inizialmente per una resa cromatica in bianco e nero, l’ultima
fatica del cineasta castigliano si avvantaggia di una vividità di
colori accesi, pennellate decise, congeniali alle “esplosioni”
emotive dei protagonisti.
Il
rosso: color del fuoco, della pazzia. Rosso come rosso è
il sangue. José Luis Alcaine dirige una fotografia di primi piani
arroventati: filtri sanguigni campeggiano sui volti a stravolgerne i
lineamenti assoggettando l’immagine a un’imperante follia senza
rimedio che assorbe uomini e cose indistintamente.
Il
nero: è una matita da trucco quando non sottolinea lo sguardo ma
diviene unico appiglio per scrivere e ricordare. Un diario su una
parete della “cella”: fatto di cifre, segni, strane e multiformi
sembianze. Per non impazzire, per mantenere in vita il vero sé al di
là delle apparenze, oltre l’”estranea” riflessa allo specchio.
Di
tanti segni visivi e visivamente affascinanti, rimane impressa una
particolare dissolvenza incrociata. Robert e Vera giacciono nello
stesso letto dandosi le spalle. Il regista insiste sui singoli primi
piani ravvicinati per enunciare un doppio flashback: quello del
dottore, poi quello della ragazza. Entrambi rammentano l’evento che
cambiò le loro vite: il ricevimento di nozze di donna Casiva. E’ il
turno di Vera e per un attimo il cuscino nero perde consistenza. I colori sfumano per ricomporsi in
un’immagine nuova. Ora un altro volto giace accanto a quello di
Vera. E’ quello di Vicente. Per un attimo due facce della medesima
identità riposano mollemente sul guanciale. Poi, lentamente, il
volto di Vera svanisce per lasciar posto allo sfondo della festa.
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