Un
film di Paolo Sorrentino
Con
Sean Penn, Frances McDormand, Eve
Hewson, Dean Stanton, Joyce Van Patten
Genere:
Drammatico
Durata:
118 min.
Soggetto:
Paolo Sorrentino
Sceneggiatura:
Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Produzione:
Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Michèle Petin,
Laurent Petin, Ed Guiney, Andrew Lowe
Produttore
esecutivo: Ronald M. Bozman, Viola Prestieri
Casa
di produzione: Medusa Film, Indigo Film, Lucky Red, Element Pictures,
ARP Sélection
Fotografia:
Luca Bigazzi
Montaggio:
Cristiano Travaglioli
Musiche:
David Byrne, Will Oldham
Scenografia:
Stefania Cella
Costumi:
Karen Patch
Italia,
Francia, Irlanda 2011
di
Chiara Roggino
Cheyenne è una rockstar “in disuso”: vent’anni lo separano dal grande ritiro. L’uomo abbandona le scene e dall’America si trasferisce nell’europea Dublino. Qui vive insieme alla moglie Jane, donna forte che riesce a contenere le sue apatie, depressioni grandi e piccole. Quando il padre, ebreo di New York, muore di vecchiaia, Cheyenne è costretto a fare ritorno alla casa della sua infanzia. Il cugino gli rivela che l’anziano genitore, ex prigioniero ad Auschwitz , da tempo si era mobilitato nell’ossessiva ricerca del suo antico carceriere, un certo Aloise Lange, criminale nazista. Il figlio raccoglierà l’eredità del padre. Il “ diversivo” on the road di Cheyenne sarà viaggio, percorso introspettivo e occasione d’incontro con strani e singolari individui. (sinossi)
“Un film
che si muove su binari di estrema semplicità”. Paolo Sorrentino,
regista, sceneggiatore, scrittore, parla della sua ultima fatica,
“This must be the place”. L’investimento di trenta milioni di
dollari e un divo di Hollywood per protagonista non sono garanti di
una resa che livelli sforzi produttivi a un risultato decoroso. Abile
investitore, grande artista, favorito della dea fortuna, chiamatelo
come più vi aggrada. Di certo c’è solo un esito che si allinea ad
un meritato successo. Ossigeno insolito per il cinema italiano: una
ventata d’aria buona che lascia ben sperare nell’avvento di una
nuova generazione di cineasti alla larga da provincialismo,
sciatteria e male abitudini.
Sorrentino
insiste nel rimarcare la semplicità del suo film. I critici, afferma
l’autore, i detrattori in special modo , ne hanno dato una lettura
complessa, troppo “pensata”.
Parola
d’ordine: semplicità. Sorrentino strappa la maschera al suo
Cheyenne rivelando un’anima nuda e vulnerabile. Il tutto con
estrema limpidezza: le parole, il monologo in questo caso, sono il
mezzo più semplice per arrivare al dunque.
“Col
cazzo che è lo stesso, David…col cazzo che è lo stesso. Io ero
una popstar del cazzo e scrivevo canzonette lugubri perché erano di
moda e ci si faceva un sacco di soldi e testi deprimenti per
ragazzetti depressi e due di loro, più deboli di tutti gli altri, ci
sono rimasti sotto: questo è stato il risultato. E adesso io vado al
cimitero tutte le settimane per alleviare il senso di colpa, ma col
cazzo che lo allevio, così peggiora solamente. E allora mia moglie
mi dice ‘Ma perché non torni a suonare?’ e io penso che è una
stupida oppure penso che magari mi ama fin troppo e allora è stupida
uguale perché come fa a non rendersi conto del disastro che si trova
davanti?!”
Cheyenne-Penn si fa fiume di parole in piena, sfogandosi alla presenza dell’amico ed ex collega David Byrne. “Sorrentino è un grande narratore” dirà Sean Penn in un’intervista rilasciata dopo la lavorazione del film. Noi gli facciamo eco.
Cheyenne-Penn si fa fiume di parole in piena, sfogandosi alla presenza dell’amico ed ex collega David Byrne. “Sorrentino è un grande narratore” dirà Sean Penn in un’intervista rilasciata dopo la lavorazione del film. Noi gli facciamo eco.
Tra i
leitmotifs che animano la pellicola, un insistente punto di domanda :
cos’è un artista? Qual è il significato di questa parola così
grande? Sorrentino azzarda un’ipotesi. Un artista è chi ha dei
pensieri precisi, delle idee che riesce a realizzare. Artista è chi
tramite le sue idee riesce a meravigliare il suo pubblico. In una
società malata di show business, dove tutto è spunto per inscenare
pubblicità, in cui media e tivvù sono sovrani erogatori di leggi,
la parola “arte” è sdoganata al pari di un qualsiasi prodotto di
marketing. Oggi c’è sempre meno gente che lavora, commenta
Cheyenne, giacché tutti si occupano in un modo o nell’altro di
qualcosa di “artistico”. Quella di Sorrentino si fa satira feroce
di una collettività, quella americana, e del suo ottuso consumismo.
Forse non
riusciremo mai a formulare una risposta provvista di senso e
l’artista continuerà ad essere l’enigmatico latore di un
imprecisato sapere, tuttavia chi ha assistito a “This must be the
place” potrà arrogarsi il diritto a una certezza. Che Sean Penn è
un grande interprete. Che questo attore ci ha regalato la performance
più generosa e stupefacente della sua carriera. Che quando un attore
è così grande, non so voi, ma io lo chiamo artista.
L’inizio
è un primo piano continuo, dettaglio dopo dettaglio: smalto nero
alle unghie dei piedi, un pendente aggiustato all’orecchio,
rossetto acceso sulle labbra, mani che abbottonano una camicia scura,
kajal a sottolineare lo sguardo. Gli occhi sono stupefatti, di un
azzurro attonito. Una nube di lacca a fissare l’acconciatura.
Profilo di Cheyenne, mezzo primo piano di Cheyenne allo specchio.
L’uomo pare annoiato per lo più, apatico. Penn regala al suo
protagonista un’andatura curva per una camminata sbilenca, a gambe
storte. Il passo è incerto, l’equilibrio precario abbisogna di un
ulteriore punto d’appoggio: che sia un carrello della spesa o un
trolley, è lo stesso.
La voce
sembra provenire da un universo lontano o da un pianeta estinto:
flebile, cantilenante, vagamente effemminata. Davanti a noi una
maschera: uno stralunato Pierrot o un personaggio del cinema muto.
Cheyenne ha smesso di suonare da vent’anni, rinnegando un passato
di cui è rimasto prigioniero. Oltre il cerone, la matita e il
rossetto, un numero imprecisato di anni, un lasso di tempo
indefinito. Il tempo: una vettura che si muove d’inesorabile
lentezza. Il movimento è costante, accumula giorni, anni. “Lo
sai qual è il vero problema? Che passiamo senza farci caso dall’età
in cui dici ‘un giorno farò così’, all’età in cui si dice ‘è
andata così’”.
C’è un tempo per avere quindici anni e truccarsi gli occhi come
una rockstar. C’è un tempo in cui tutto porta a pensare che nostro
padre ci odi, che ci abbia in disistima per questo motivo. C’è un
tempo per accorgersi che un padre non può fare a meno di amare suo
figlio. Ed è troppo tardi per recuperare ( “Tardi
è tardi!”).
Sorrentino
ci regala un film raro: immagini e dialoghi sono un tutt’uno di
commovente bellezza. Ci si chiede se il cinema italiano necessiti di
trasferirsi oltre oceano per conseguire una nascita nuova. In questo
caso non posso che concordare con il giornalista Vittorio Zucconi:
ben vengano registi che consegnino all’estero un’immagine
positiva di questo nostro, al momento, disastrato paese. Ne abbiamo
bisogno.
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