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venerdì 21 dicembre 2012

Moonrise Kingdom - Una fuga d'amore







Un film di Wes Anderson
Con Bruce Willis, Edward Norton, Bill Murray, Frances McDormand, Tilda Swinton, Jared Gilman, Kara Hayward, Harvey Keitel
Titolo originale: Moonrise Kingdom
Genere: Commedia drammatica
Durata: 94 min.
Soggetto: Wes Anderson
Sceneggiatura: Wes Anderson, Roman Coppola
Produzione: Steven M. Ravens, Scott Rudin, Wes Anderson, Jeremy Dawson
Fotografia: Robert Yeoman
Montaggio: Andrew Weisblum
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Adam Stockhausen
Usa 2012


di Chiara Roggino



Forbici da mancino, il disegno incorniciato di un'abitazione bianca e rossa e una cartella appesi alla parete. Un mangiadischi azzurro disposto su una mensola. Lento si avvia, stanza dopo stanza, arrampicandosi su e giù per le scale della magione Bishop, un lento, lungo piano sequenza orchestrato con la minuzia di una sonda sottomarina. Tre marmocchi ascoltano il disco di Benjamin Britten, Guida del giovane per l'Orchestra, passaggio in cui i vari strumenti sono separati e identificati. Nel mentre una ragazzina, sguardo severo-occhi bistrati d'azzurro, binocolo alla mano, osserva il mondo esterno da una finestra, quasi attendesse l'arrivo di qualcuno o qualcosa.
Il signor Bishop se ne sta in panciolle sul divano, sguardo vacuo, perso nel vuoto. La padrona di casa, sciatta alla pari dei vestiti che indossa, aspira avidamente da una sigaretta preparando la cena, tentando di comunicare con i membri della famiglia tramite l'uso di un megafono.
Ambientato su un'isola al largo della costa del New Ingland nell'estate inoltrata del 1965, Moonrise Kingdom (ottava pellicola del texano Wes Anderson) è la storia dolce e malinconica di due dodicenni: Sam (Jared Gilman) e Suzy (Kara Hayward). Entrambi si innamorano pianificando una fuga alla larga da genitori menefreghisti, scouts pronti ad emarginare indifesi e diversi, orfanatrofi e famiglie affidatarie su cui fare scarso affidamento.







A far da corifeo alla storia narrata, uno stravagante meteorologo, cartografo e storico (Bob Balaban). Cappello da marinaio calcato sul capo e occhiali spessi così, appare dal nulla quasi una versione sui generis di Steve Zissou ( Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Wes Anderson, 2004). E' lui in persona a predirre l'imminente tempesta pronta ad abbattersi sull'isola nel lasso di pochi giorni, uragano volto a stravolgere le già complicate vicissitudini di inseguitori e inseguiti. Anderson intesse con delicatezza da fiaba carica di spunti autobiografici la realtà di due preadolescenze emarginate da adulti e coetanei. Suzy e Sam bramano fuggire a gambe levate da un mondo per loro incomprensibile, avido di derubarli d'innocenza e fantasia. Suzy si estranea dal mondo circostante tuffandosi a capofitto nella lettura di libri derubati dalla biblioteca le cui protagoniste possiedono poteri magici e misteriosi. Tutte, dalla prima all'ultima, sono rigorosamente orfane. ( “ Io ho sempre desiderato essere orfana. I miei personaggi preferiti lo sono. Credo che abbiate vite più speciali”, “Io ti amo, ma tu non sai quello che dici”.).






Sam, orfano sballottato da istituto a istituto, così come la sua compagna di viaggio, ha la nomea di disadattato. Il loro viaggio verso un luogo vergine, tutto per loro, è null'altro che il disperato tentativo di mantenere intatti i sogni per un futuro migliore.
Così il tuffo nella baia parrà il prosieguo mancato di un'antica istantanea in bianco e nero: quella di Antoine Doinel ( I quattrocento colpi, Truffaut). Ma allora la perdita della poesia e dell'infanzia era un miraggio lontano da inseguire perseverando in una corsa senza fiato.
L'isola dipinta ad acquerello da Anderson appare una via di mezzo tra la dimora di Prospero (popolata da venti e creature aeree) e L'isola che non c'è. Così, quasi rileggendo le pagine di Barrie, svelta apparrà l'immagine di Suzy, cantastorie di fiabe e mamma adottiva per i ragazzi sperduti.
Di contrasto alla realtà plasmata su misura dai due protagonisti, quella residenziale popolata dagli adulti dell'isola, tutti consapevolmente identificati con le loro mansioni ufficiali. Un poliziotto perennemente in divisa che assicura o quantomeno dovrebbe assicurare l'ordine. Una donna dura e zelante che porta il nome di Servizi Sociali e ricopre nell'ambito della narrazione il ruolo di cattiva per eccellenza: perfetta matrigna calzata e vestita. I coniugi Bishop ( Bill Murray e Frances McDormand), avvocati e consiglieri, discorrono di casi legali in corso a letto, prima di coricarsi mentre il primo capo scout ( Edward Norton), fumatore incallito e bevitore di whisky, considera la sua professione precaria quale fondamentale ( “Io sono prima un capo scout e poi un professore di matematica”). A sfidare quest'universo ordinato, due dodicenni. Il loro amore ha la purezza di un mitico lontano passato cavalleresco, suggerito dal nome della base scout ( Ivanohe Camp). Una storia esilarante e riflessiva tra sprazzi di pura poesia che lacera la comunità protagonista per poi ricompattarla saldamente.





giovedì 12 luglio 2012

This must be the place






Un film di Paolo Sorrentino
Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Dean Stanton, Joyce Van Patten
Genere: Drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Michèle Petin, Laurent Petin, Ed Guiney, Andrew Lowe
Produttore esecutivo: Ronald M. Bozman, Viola Prestieri
Casa di produzione: Medusa Film, Indigo Film, Lucky Red, Element Pictures, ARP Sélection
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: David Byrne, Will Oldham
Scenografia: Stefania Cella
Costumi: Karen Patch
Italia, Francia, Irlanda 2011


di Chiara Roggino



Cheyenne è una rockstar “in disuso”: vent’anni lo separano dal grande ritiro. L’uomo abbandona le scene e dall’America si trasferisce nell’europea Dublino. Qui vive insieme alla moglie Jane, donna forte che riesce a contenere le sue apatie, depressioni grandi e piccole. Quando il padre, ebreo di New York, muore di vecchiaia, Cheyenne è costretto a fare ritorno alla casa della sua infanzia. Il cugino gli rivela che l’anziano genitore, ex prigioniero ad Auschwitz , da tempo si era mobilitato nell’ossessiva ricerca del suo antico carceriere, un certo Aloise Lange, criminale nazista. Il figlio raccoglierà l’eredità del padre. Il “ diversivo” on the road di Cheyenne sarà viaggio, percorso introspettivo e occasione d’incontro con strani e singolari individui. (sinossi)



Un film che si muove su binari di estrema semplicità”. Paolo Sorrentino, regista, sceneggiatore, scrittore, parla della sua ultima fatica, “This must be the place”. L’investimento di trenta milioni di dollari e un divo di Hollywood per protagonista non sono garanti di una resa che livelli sforzi produttivi a un risultato decoroso. Abile investitore, grande artista, favorito della dea fortuna, chiamatelo come più vi aggrada. Di certo c’è solo un esito che si allinea ad un meritato successo. Ossigeno insolito per il cinema italiano: una ventata d’aria buona che lascia ben sperare nell’avvento di una nuova generazione di cineasti alla larga da provincialismo, sciatteria e male abitudini.
Sorrentino insiste nel rimarcare la semplicità del suo film. I critici, afferma l’autore, i detrattori in special modo , ne hanno dato una lettura complessa, troppo “pensata”.
Parola d’ordine: semplicità. Sorrentino strappa la maschera al suo Cheyenne rivelando un’anima nuda e vulnerabile. Il tutto con estrema limpidezza: le parole, il monologo in questo caso, sono il mezzo più semplice per arrivare al dunque.Col cazzo che è lo stesso, David…col cazzo che è lo stesso. Io ero una popstar del cazzo e scrivevo canzonette lugubri perché erano di moda e ci si faceva un sacco di soldi e testi deprimenti per ragazzetti depressi e due di loro, più deboli di tutti gli altri, ci sono rimasti sotto: questo è stato il risultato. E adesso io vado al cimitero tutte le settimane per alleviare il senso di colpa, ma col cazzo che lo allevio, così peggiora solamente. E allora mia moglie mi dice ‘Ma perché non torni a suonare?’ e io penso che è una stupida oppure penso che magari mi ama fin troppo e allora è stupida uguale perché come fa a non rendersi conto del disastro che si trova davanti?!” 





 Cheyenne-Penn si fa fiume di parole in piena, sfogandosi alla presenza dell’amico ed ex collega David Byrne. “Sorrentino è un grande narratore” dirà Sean Penn in un’intervista rilasciata dopo la lavorazione del film. Noi gli facciamo eco.
Tra i leitmotifs che animano la pellicola, un insistente punto di domanda : cos’è un artista? Qual è il significato di questa parola così grande? Sorrentino azzarda un’ipotesi. Un artista è chi ha dei pensieri precisi, delle idee che riesce a realizzare. Artista è chi tramite le sue idee riesce a meravigliare il suo pubblico. In una società malata di show business, dove tutto è spunto per inscenare pubblicità, in cui media e tivvù sono sovrani erogatori di leggi, la parola “arte” è sdoganata al pari di un qualsiasi prodotto di marketing. Oggi c’è sempre meno gente che lavora, commenta Cheyenne, giacché tutti si occupano in un modo o nell’altro di qualcosa di “artistico”. Quella di Sorrentino si fa satira feroce di una collettività, quella americana, e del suo ottuso consumismo.
Forse non riusciremo mai a formulare una risposta provvista di senso e l’artista continuerà ad essere l’enigmatico latore di un imprecisato sapere, tuttavia chi ha assistito a “This must be the place” potrà arrogarsi il diritto a una certezza. Che Sean Penn è un grande interprete. Che questo attore ci ha regalato la performance più generosa e stupefacente della sua carriera. Che quando un attore è così grande, non so voi, ma io lo chiamo artista.
L’inizio è un primo piano continuo, dettaglio dopo dettaglio: smalto nero alle unghie dei piedi, un pendente aggiustato all’orecchio, rossetto acceso sulle labbra, mani che abbottonano una camicia scura, kajal a sottolineare lo sguardo. Gli occhi sono stupefatti, di un azzurro attonito. Una nube di lacca a fissare l’acconciatura. Profilo di Cheyenne, mezzo primo piano di Cheyenne allo specchio. L’uomo pare annoiato per lo più, apatico. Penn regala al suo protagonista un’andatura curva per una camminata sbilenca, a gambe storte. Il passo è incerto, l’equilibrio precario abbisogna di un ulteriore punto d’appoggio: che sia un carrello della spesa o un trolley, è lo stesso.
La voce sembra provenire da un universo lontano o da un pianeta estinto: flebile, cantilenante, vagamente effemminata. Davanti a noi una maschera: uno stralunato Pierrot o un personaggio del cinema muto. Cheyenne ha smesso di suonare da vent’anni, rinnegando un passato di cui è rimasto prigioniero. Oltre il cerone, la matita e il rossetto, un numero imprecisato di anni, un lasso di tempo indefinito. Il tempo: una vettura che si muove d’inesorabile lentezza. Il movimento è costante, accumula giorni, anni. “Lo sai qual è il vero problema? Che passiamo senza farci caso dall’età in cui dici ‘un giorno farò così’, all’età in cui si dice ‘è andata così’”. C’è un tempo per avere quindici anni e truccarsi gli occhi come una rockstar. C’è un tempo in cui tutto porta a pensare che nostro padre ci odi, che ci abbia in disistima per questo motivo. C’è un tempo per accorgersi che un padre non può fare a meno di amare suo figlio. Ed è troppo tardi per recuperare ( “Tardi è tardi!”).
Sorrentino ci regala un film raro: immagini e dialoghi sono un tutt’uno di commovente bellezza. Ci si chiede se il cinema italiano necessiti di trasferirsi oltre oceano per conseguire una nascita nuova. In questo caso non posso che concordare con il giornalista Vittorio Zucconi: ben vengano registi che consegnino all’estero un’immagine positiva di questo nostro, al momento, disastrato paese. Ne abbiamo bisogno.