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giovedì 12 luglio 2012

This must be the place






Un film di Paolo Sorrentino
Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Dean Stanton, Joyce Van Patten
Genere: Drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Michèle Petin, Laurent Petin, Ed Guiney, Andrew Lowe
Produttore esecutivo: Ronald M. Bozman, Viola Prestieri
Casa di produzione: Medusa Film, Indigo Film, Lucky Red, Element Pictures, ARP Sélection
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: David Byrne, Will Oldham
Scenografia: Stefania Cella
Costumi: Karen Patch
Italia, Francia, Irlanda 2011


di Chiara Roggino



Cheyenne è una rockstar “in disuso”: vent’anni lo separano dal grande ritiro. L’uomo abbandona le scene e dall’America si trasferisce nell’europea Dublino. Qui vive insieme alla moglie Jane, donna forte che riesce a contenere le sue apatie, depressioni grandi e piccole. Quando il padre, ebreo di New York, muore di vecchiaia, Cheyenne è costretto a fare ritorno alla casa della sua infanzia. Il cugino gli rivela che l’anziano genitore, ex prigioniero ad Auschwitz , da tempo si era mobilitato nell’ossessiva ricerca del suo antico carceriere, un certo Aloise Lange, criminale nazista. Il figlio raccoglierà l’eredità del padre. Il “ diversivo” on the road di Cheyenne sarà viaggio, percorso introspettivo e occasione d’incontro con strani e singolari individui. (sinossi)



Un film che si muove su binari di estrema semplicità”. Paolo Sorrentino, regista, sceneggiatore, scrittore, parla della sua ultima fatica, “This must be the place”. L’investimento di trenta milioni di dollari e un divo di Hollywood per protagonista non sono garanti di una resa che livelli sforzi produttivi a un risultato decoroso. Abile investitore, grande artista, favorito della dea fortuna, chiamatelo come più vi aggrada. Di certo c’è solo un esito che si allinea ad un meritato successo. Ossigeno insolito per il cinema italiano: una ventata d’aria buona che lascia ben sperare nell’avvento di una nuova generazione di cineasti alla larga da provincialismo, sciatteria e male abitudini.
Sorrentino insiste nel rimarcare la semplicità del suo film. I critici, afferma l’autore, i detrattori in special modo , ne hanno dato una lettura complessa, troppo “pensata”.
Parola d’ordine: semplicità. Sorrentino strappa la maschera al suo Cheyenne rivelando un’anima nuda e vulnerabile. Il tutto con estrema limpidezza: le parole, il monologo in questo caso, sono il mezzo più semplice per arrivare al dunque.Col cazzo che è lo stesso, David…col cazzo che è lo stesso. Io ero una popstar del cazzo e scrivevo canzonette lugubri perché erano di moda e ci si faceva un sacco di soldi e testi deprimenti per ragazzetti depressi e due di loro, più deboli di tutti gli altri, ci sono rimasti sotto: questo è stato il risultato. E adesso io vado al cimitero tutte le settimane per alleviare il senso di colpa, ma col cazzo che lo allevio, così peggiora solamente. E allora mia moglie mi dice ‘Ma perché non torni a suonare?’ e io penso che è una stupida oppure penso che magari mi ama fin troppo e allora è stupida uguale perché come fa a non rendersi conto del disastro che si trova davanti?!” 





 Cheyenne-Penn si fa fiume di parole in piena, sfogandosi alla presenza dell’amico ed ex collega David Byrne. “Sorrentino è un grande narratore” dirà Sean Penn in un’intervista rilasciata dopo la lavorazione del film. Noi gli facciamo eco.
Tra i leitmotifs che animano la pellicola, un insistente punto di domanda : cos’è un artista? Qual è il significato di questa parola così grande? Sorrentino azzarda un’ipotesi. Un artista è chi ha dei pensieri precisi, delle idee che riesce a realizzare. Artista è chi tramite le sue idee riesce a meravigliare il suo pubblico. In una società malata di show business, dove tutto è spunto per inscenare pubblicità, in cui media e tivvù sono sovrani erogatori di leggi, la parola “arte” è sdoganata al pari di un qualsiasi prodotto di marketing. Oggi c’è sempre meno gente che lavora, commenta Cheyenne, giacché tutti si occupano in un modo o nell’altro di qualcosa di “artistico”. Quella di Sorrentino si fa satira feroce di una collettività, quella americana, e del suo ottuso consumismo.
Forse non riusciremo mai a formulare una risposta provvista di senso e l’artista continuerà ad essere l’enigmatico latore di un imprecisato sapere, tuttavia chi ha assistito a “This must be the place” potrà arrogarsi il diritto a una certezza. Che Sean Penn è un grande interprete. Che questo attore ci ha regalato la performance più generosa e stupefacente della sua carriera. Che quando un attore è così grande, non so voi, ma io lo chiamo artista.
L’inizio è un primo piano continuo, dettaglio dopo dettaglio: smalto nero alle unghie dei piedi, un pendente aggiustato all’orecchio, rossetto acceso sulle labbra, mani che abbottonano una camicia scura, kajal a sottolineare lo sguardo. Gli occhi sono stupefatti, di un azzurro attonito. Una nube di lacca a fissare l’acconciatura. Profilo di Cheyenne, mezzo primo piano di Cheyenne allo specchio. L’uomo pare annoiato per lo più, apatico. Penn regala al suo protagonista un’andatura curva per una camminata sbilenca, a gambe storte. Il passo è incerto, l’equilibrio precario abbisogna di un ulteriore punto d’appoggio: che sia un carrello della spesa o un trolley, è lo stesso.
La voce sembra provenire da un universo lontano o da un pianeta estinto: flebile, cantilenante, vagamente effemminata. Davanti a noi una maschera: uno stralunato Pierrot o un personaggio del cinema muto. Cheyenne ha smesso di suonare da vent’anni, rinnegando un passato di cui è rimasto prigioniero. Oltre il cerone, la matita e il rossetto, un numero imprecisato di anni, un lasso di tempo indefinito. Il tempo: una vettura che si muove d’inesorabile lentezza. Il movimento è costante, accumula giorni, anni. “Lo sai qual è il vero problema? Che passiamo senza farci caso dall’età in cui dici ‘un giorno farò così’, all’età in cui si dice ‘è andata così’”. C’è un tempo per avere quindici anni e truccarsi gli occhi come una rockstar. C’è un tempo in cui tutto porta a pensare che nostro padre ci odi, che ci abbia in disistima per questo motivo. C’è un tempo per accorgersi che un padre non può fare a meno di amare suo figlio. Ed è troppo tardi per recuperare ( “Tardi è tardi!”).
Sorrentino ci regala un film raro: immagini e dialoghi sono un tutt’uno di commovente bellezza. Ci si chiede se il cinema italiano necessiti di trasferirsi oltre oceano per conseguire una nascita nuova. In questo caso non posso che concordare con il giornalista Vittorio Zucconi: ben vengano registi che consegnino all’estero un’immagine positiva di questo nostro, al momento, disastrato paese. Ne abbiamo bisogno.