giovedì 12 luglio 2012

Melancholia







Un film di Lars Von Trier
Con Kirsten Dunst, Charlotte Gainsbourg, Charlotte Rampling, Kiefer Sutherland, Alexander Skarsgård, Udo Kier, John Hurt, Brady Corbet
Genere: Drammatico, fantascienza, sentimentale, catastrofico
Soggetto: Lars Von Trier
Sceneggiatura: Lars Von Trier
Durata: 130 min.
Casa di produzione: Zentropa Entertainments
Fotografia: Manuel Alberto Claro
Montaggio: Morten Højbjerg, Molly Marlene Stensgaard
Effetti speciali: Dansk Speciel Effekt Service, Filmgate
Scenografia: Jette Lehmann
Danimarca, Francia, Svezia, Italia, Germania 2011


di Chiara Roggino















Justine ( una strepitosa Kristen Dunst, premio a Cannes per la migliore interpretazione femminile), bella e rampante copywrither, e Michael, novelli marito e moglie, si avviano al loro ricevimento nuziale. L’evento è stato organizzato con dovizia di cure dalla sorella della sposa, Claire ( Charlotte Gainsbourg) e dal di lei marito, John (Kiefer Sutherland). La festa procederebbe secondo copione, se non fosse per gli sbalzi umorali della sposa. Per Justine ogni occasione è buona per assentarsi dal rituale in corso. Un malessere sordo attanaglia la donna impedendole di vivere il suo giorno. Michael passerà la prima notte di nozze in bianco e il matrimonio sarà un fallimento. Tempo dopo, Justine precipita in un grave stato depressivo. Non riuscendo più a provvedere a se stessa, viene invitata da Claire a trasferirsi presso di sé. Le due sorelle, così diverse tra loro, ignorano di essere accomunate da un unico destino: il pianeta Melancholia è in rotta di collisione con la terra, minacciandone la sopravvivenza. (sinossi)
Nessuno sa di preciso per quali motivi si cada in depressione, ma io ho una mia teoria. Sono anni che combatto contro alcune fobie e credo che quando le fobie diventano intollerabili, il corpo cerchi in un certo senso di prendersi una pausa, e in questa situazione si cade in depressione. L’intensità della depressione può variare, e alcune persone vogliono gettarsi giù da un ponte. Ma nel mio caso non è stato così. Anche se forse alcuni critici cinematografici l’hanno sperato”. E’ il 2006 quando Lars Von Trier accusa i primi sintomi del male oscuro. Nel 2009 esce nelle sale Antichrist, progetto autoterapeutico volto a sollevare l’autore da uno stato di grave prostrazione depressiva. “Con questo film ho cercato di reagire, di riprendermi rispetto a quando me ne stavo sdraiato a letto a fissare il muro per giorni. L’ho fatto per due mesi, ininterrottamente, senza avere l’energia di fare altro. È stata un’esperienza molto difficile”. Due anni dopo, l’avvento dell’”Armageddon-Melancholia”. Alla base del procedimento creativo, sintomi pressapoco identici. A dar retta a Nils Thorsen, giornalista e autore di “The genius – Lars Von Trier’s life, films and phobias”, “…Il film non era l’obiettivo principale. L’obiettivo principale era il suo benessere emotivo…”.
L’uomo (Willem Dafoe) sopravvive agli inferi di Antichrist. La sua ultima soggettiva sul pianeta terra è un pendio di montagna popolato da schiere d’ombre, donne, tutte senza volto. La forza immaginativa dell’autore offre istantanee fuori dal tempo, onirisimi allucinatori di rara suggestione. L’estetica vontrieriana è tipica di una morale-visione del mondo senza via di scampo. L’essere umano è condannato alla sofferenza. Tale sofferenza è distribuita a piene mani da una natura matrigna che non conosce pietà. Natura è donna, colei che vincola l’uomo con promesse di carattere sessuale. Se in Antichrist , del dittico uomo-donna, è il primo a sopravvivere, a vivere l’ultimo atto di Melancholia saranno due donne e un bambino. L’uomo, colui che cerca di dominare gli eventi con la forza della ragione, è escluso in partenza. Il marito di Claire, appurato l’ineluttabile, troverà rifugio nel suicidio.
Strutturalmente parlando, Melancholia asseconda l’organismo della tragedia classica. Un prologo e due atti o capitoli ( Justine e Claire) scandiscono l’ordine narrativo dell’opera. Tanta critica, più o meno colta e preparata, si è sbizzarrita nell’interpretazione di un un film duro, indubbiamente difficile, portavoce di un nichilismo che non concede vie di scampo. Tra gli spettatori usciti di sala, a pellicola terminata, il sostantivo più ricorrente è “devastazione”. Questo film mi ha devastato.
Al cineasta di Copenaghen non interessano i fuori copione. Il materiale è tratto dal medesimo substrato umorale: un retroterra dove le fobie e le depressioni dell’autore si scatenano a briglia sciolta. E’ questa forse l’autoterapia descritta da Thorsen e confessata più volte dallo stesso Von Trier? Tirare le somme è più semplice del previsto. L’artista che si ostina a rappresentare se stesso e l’esistenza umana attingendo da una gamma tanto ridotta di emozioni, ha vita breve. Il rischio di precipitare nel cliché è dietro l’angolo. Queste, in sintesi, le accuse dei delatori. Von Trier se ne frega: del parere degli altri, dei critici, dei giornalisti. Il prologo sinfonico di Melancholia si fa esempio di un cinema sinestetico in cui tutti i sensi convergono per condurre lo spettatore a nutrirsi della bellezza rappresentata. Sulle note del Tristan und Isolde di Richard Wagner si dipana il sogno premonitore di Justine. Un volto di donna, cinereo, i lineamenti stravolti. Alle sue spalle ucceli scuri, esanimi, precipitano dal cielo come pioggia di cenere. Un cavallo sfiancato si abbatte al suolo. Due pianeti, la terra e quello che si suppone essere Melancholia, portano a termine la loro danza di morte. Tra tutte, domina la figura di Justine: sposa annegata (quasi un’Ofelia di Everett Millais), entità sovrannaturale, ammaestratrice di creature alate. Davanti ai nostri occhi un sunto tramite istantanee della storia a venire.





Rappresentato ad arte, il prologo svela la bellezza algida e patinata di una campagna pubblicitaria che attende paziente il suo slogan, la parola magica che lo condurrà alla vita rendendolo prodotto di consumo. E’ un pianeta al capolinea quello narrato da Von Trier: corrotto prima dell’inevitabile epilogo. Una società pronta a vendersi per vendere, una natura contaminata perché l’uomo l’ha contaminata. L’autore, solitamente misogino, sceglie una donna e ne fa il suo alterego: Justine, colei che ha paura di vivere e di essere felice, colei che si nega alla vita rifiutando il matrimonio e i rigidi rituali che esso comporta. “La malinconia di Justine”, spiega von Trier, “ non è solo nostalgia. E’ desiderio di un valore reale. E i veri valori comportano sofferenza. Tutto sommato tendiamo a vedere la malinconia come qualcosa di più sincero. Noi preferiamo la musica e l’arte di contenere un goccio di malinconia. Così la malinconia di per sé è un valore…”




 




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