Un
film di Lars Von Trier
Con
Kirsten
Dunst, Charlotte Gainsbourg, Charlotte Rampling, Kiefer Sutherland,
Alexander Skarsgård, Udo Kier, John Hurt, Brady Corbet
Genere:
Drammatico, fantascienza, sentimentale, catastrofico
Soggetto:
Lars Von Trier
Sceneggiatura:
Lars Von Trier
Durata:
130 min.
Casa
di produzione: Zentropa Entertainments
Fotografia:
Manuel Alberto Claro
Montaggio:
Morten Højbjerg, Molly Marlene Stensgaard
Effetti
speciali: Dansk Speciel Effekt Service, Filmgate
Scenografia:
Jette Lehmann
Danimarca,
Francia, Svezia, Italia, Germania 2011
Justine (
una strepitosa Kristen Dunst, premio a Cannes per la migliore
interpretazione femminile), bella e rampante copywrither, e Michael,
novelli marito e moglie, si avviano al loro ricevimento nuziale.
L’evento è stato organizzato con dovizia di cure dalla sorella
della sposa, Claire ( Charlotte Gainsbourg) e dal di lei marito, John
(Kiefer Sutherland). La festa procederebbe secondo copione, se non
fosse per gli sbalzi umorali della sposa. Per Justine ogni occasione
è buona per assentarsi dal rituale in corso. Un malessere sordo
attanaglia la donna impedendole di vivere il suo giorno. Michael
passerà la prima notte di nozze in bianco e il matrimonio sarà un
fallimento. Tempo dopo, Justine
precipita in un grave stato depressivo. Non riuscendo più a
provvedere a se stessa, viene invitata da Claire a trasferirsi presso
di sé. Le due sorelle, così diverse tra loro, ignorano di essere
accomunate da un unico destino: il pianeta Melancholia è in rotta di
collisione con la terra, minacciandone la sopravvivenza. (sinossi)
“Nessuno
sa di preciso per quali motivi si cada in depressione, ma io ho una
mia teoria. Sono anni che combatto contro alcune fobie e credo che
quando le fobie diventano intollerabili, il corpo cerchi in un certo
senso di prendersi una pausa, e in questa situazione si cade in
depressione. L’intensità della depressione può variare, e alcune
persone vogliono gettarsi giù da un ponte. Ma nel mio caso non è
stato così. Anche se forse alcuni critici cinematografici l’hanno
sperato”. E’ il 2006 quando Lars Von Trier accusa i primi sintomi
del male
oscuro.
Nel 2009 esce nelle sale Antichrist,
progetto
autoterapeutico
volto a sollevare l’autore da uno stato di grave prostrazione
depressiva. “Con questo film ho cercato di reagire, di riprendermi
rispetto a quando me ne stavo sdraiato a letto a fissare il muro per
giorni. L’ho fatto per due mesi, ininterrottamente, senza avere
l’energia di fare altro. È stata un’esperienza molto difficile”.
Due anni dopo, l’avvento dell’”Armageddon-Melancholia”.
Alla base del procedimento creativo, sintomi pressapoco identici. A
dar retta a Nils Thorsen, giornalista e autore di “The genius –
Lars Von Trier’s life, films and phobias”, “…Il film non era
l’obiettivo principale. L’obiettivo principale era il suo
benessere emotivo…”.
L’uomo
(Willem
Dafoe) sopravvive agli inferi di Antichrist.
La sua ultima soggettiva sul pianeta terra è un pendio di montagna
popolato da schiere d’ombre, donne, tutte senza volto. La forza
immaginativa dell’autore offre istantanee fuori dal tempo,
onirisimi allucinatori di rara suggestione. L’estetica vontrieriana
è tipica di una morale-visione del mondo senza via di scampo.
L’essere umano è condannato alla sofferenza. Tale sofferenza è
distribuita a piene mani da una natura matrigna che non conosce
pietà. Natura è donna, colei che vincola l’uomo con promesse di
carattere sessuale. Se in Antichrist
, del dittico uomo-donna,
è il primo a sopravvivere, a vivere l’ultimo atto di Melancholia
saranno due donne e un bambino. L’uomo, colui che cerca di dominare
gli eventi con la forza della ragione, è escluso in partenza. Il
marito di Claire, appurato l’ineluttabile, troverà rifugio nel
suicidio.
Strutturalmente
parlando, Melancholia asseconda l’organismo della tragedia
classica. Un prologo e due atti o capitoli ( Justine
e Claire)
scandiscono l’ordine narrativo dell’opera. Tanta critica, più o
meno colta e preparata, si è sbizzarrita nell’interpretazione di
un un film duro, indubbiamente difficile, portavoce di un nichilismo
che non concede vie di scampo. Tra gli spettatori usciti di sala, a
pellicola terminata, il sostantivo più ricorrente è “devastazione”.
Questo
film mi ha devastato.
Al cineasta
di Copenaghen non interessano i fuori copione. Il materiale è tratto
dal medesimo substrato umorale: un retroterra dove le fobie e le
depressioni dell’autore si scatenano a briglia sciolta. E’ questa
forse l’autoterapia descritta da Thorsen e confessata più volte
dallo stesso Von Trier? Tirare le somme è più semplice del
previsto. L’artista che si ostina a rappresentare se stesso e
l’esistenza umana attingendo da una gamma tanto ridotta di
emozioni, ha vita breve. Il rischio di precipitare nel cliché è
dietro l’angolo. Queste, in sintesi, le accuse dei delatori. Von
Trier se ne frega: del parere degli altri, dei critici, dei
giornalisti. Il prologo sinfonico di Melancholia
si fa esempio di un cinema sinestetico in cui tutti i sensi
convergono per condurre lo spettatore a nutrirsi della bellezza
rappresentata. Sulle note del Tristan
und Isolde
di Richard Wagner si dipana il sogno
premonitore
di Justine. Un volto di donna, cinereo, i lineamenti stravolti. Alle
sue spalle ucceli scuri, esanimi, precipitano dal cielo come pioggia
di cenere. Un cavallo sfiancato si abbatte al suolo. Due pianeti, la
terra e quello che si suppone essere Melancholia, portano a termine
la loro danza di morte. Tra tutte, domina la figura di Justine: sposa
annegata (quasi un’Ofelia di Everett Millais), entità
sovrannaturale, ammaestratrice di creature alate. Davanti ai nostri
occhi un sunto tramite istantanee della storia a venire.
Rappresentato ad arte, il prologo svela la bellezza algida e patinata di una campagna pubblicitaria che attende paziente il suo slogan, la parola magica che lo condurrà alla vita rendendolo prodotto di consumo. E’ un pianeta al capolinea quello narrato da Von Trier: corrotto prima dell’inevitabile epilogo. Una società pronta a vendersi per vendere, una natura contaminata perché l’uomo l’ha contaminata. L’autore, solitamente misogino, sceglie una donna e ne fa il suo alterego: Justine, colei che ha paura di vivere e di essere felice, colei che si nega alla vita rifiutando il matrimonio e i rigidi rituali che esso comporta. “La malinconia di Justine”, spiega von Trier, “ non è solo nostalgia. E’ desiderio di un valore reale. E i veri valori comportano sofferenza. Tutto sommato tendiamo a vedere la malinconia come qualcosa di più sincero. Noi preferiamo la musica e l’arte di contenere un goccio di malinconia. Così la malinconia di per sé è un valore…”
Rappresentato ad arte, il prologo svela la bellezza algida e patinata di una campagna pubblicitaria che attende paziente il suo slogan, la parola magica che lo condurrà alla vita rendendolo prodotto di consumo. E’ un pianeta al capolinea quello narrato da Von Trier: corrotto prima dell’inevitabile epilogo. Una società pronta a vendersi per vendere, una natura contaminata perché l’uomo l’ha contaminata. L’autore, solitamente misogino, sceglie una donna e ne fa il suo alterego: Justine, colei che ha paura di vivere e di essere felice, colei che si nega alla vita rifiutando il matrimonio e i rigidi rituali che esso comporta. “La malinconia di Justine”, spiega von Trier, “ non è solo nostalgia. E’ desiderio di un valore reale. E i veri valori comportano sofferenza. Tutto sommato tendiamo a vedere la malinconia come qualcosa di più sincero. Noi preferiamo la musica e l’arte di contenere un goccio di malinconia. Così la malinconia di per sé è un valore…”
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