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venerdì 13 luglio 2012

La pelle che abito






Un film di Pedro Almodovar
Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet
Titolo originale: La piel que habito
Durata: 120 min.
Genere: Drammatico
Soggetto: Thierry Jonquet (romanzo)
Sceneggiatura: Pedro Almodovar, Augustìn Almodovar
Produzione: Augustìn Almodovar, Esther Garcia
Casa di produzione: El Deseo
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: José Salcedo
Musiche: Alberto Iglesias
Scenografia: Antxòn Gomez
Costumi: Paco Delgado, Jean-Paul Gaultier
Spagna 2011

 

di Chiara Roggino.

 



Si può detestare o amare incondizionatamente . Il cinema di Almodovar è cucito ad hoc per uno spettatore che non conosce mezze misure. Il suo ultimo film, “La pelle che abito”, è distribuito nelle sale italiane dal 23 settembre.





Un nuovo film comporta un nuovo “percorso” per un territorio ancora incontaminato, tutto da esplorare. Ci si aggira per le stanze, senza fretta. Il più piccolo dettaglio potrebbe essere fondamentale. Si salgono scale, gradino dopo gradino. Strana mobilia, quadri appesi alle pareti, nudi di donna. Quale sarà il primo colpo di scena? Mentre si muove per le stanze osservando, assorbendo poco a poco l’ambiente che lo circonda, lo spettatore pregusta la manifestazione di quei “segni”: inconfondibili marchi d’autore sparpagliati per vezzo da Almodovar, instancabile "pollicino", ovunque, tra le pagine di una storia ancora tutta a venire. C’è un cartello da leggere, un cancello. Oltre il cancello una strada sterrata. Alla fine della strada una casa e una finestra chiusa dall’esterno. La camera ci mostra per la prima volta il corpo di Vera ( Elena Anaya: bella di una recitazione “tutta occhi”), inguainato in una tuta color carne, teso ad arco, in posizione yoga. L’immagine è sufficiente per innescare un flashback di altri corpi in movimento, donne a scontrarsi come cieche su un palcoscenico. Quando il tempo sembra fermarsi ad accompagnare la rivelazione della bellezza più pura. Era “Café Muller” e c’era un’indimenticabile Pina Bausch. Impossibile allora non commuoversi, insieme a Dario Grandinetti ( Parla con lei, 2002).
Giunti all’ingresso di una sala operatoria, non esiteremo, entrandovi a passo spedito. Ne abbiamo visti tanti: ospedali, sale operatorie, sale di rianimazione. L’ambiente, pallido e sterile, era sempre vivificato dalla presenza di una donna. Quante donne straordinarie!
La clinica che ci apprestiamo a visitare è gestita dal chirurgo estetico Robert Ledgard (Antonio Banderas) e dalla sua équipe. Gli occhi si abituano facilmente all’habitat spettrale illuminato da luci fredde. E’ ora di assistere all’”esperimento”.
Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non bisogna essere tirchi perché una è tanto più autentica tanto più somiglia all’idea che ha di se stessa.” ( Tutto su mia madre, 1999 ) I personaggi di Almodovar gridano fame di coerenza quando l’intervento chirurgico diventa l’ultima spiaggia per salvare la donna che si strazia in un corpo che non le appartiene.
Vicente vive serenamente la sua mascolinità. Tuttavia è qui: giace profondamente addormentato in attesa di una vaginoplastica. L’incontro sbagliato al momento sbagliato. Era ad una festa, ricorda. Aveva preso qualche pasticca di troppo e quella ragazza era così carina. Il ragazzo è ancora all’oscuro: il corpo di cui sta abusando appartiene a Norma, figlia del dottor Ledgard. Quella stessa Norma che, in seguito allo stupro, si ucciderà. La vendetta del padre sarà implacabile.
Tratto dal romanzo “Tarantola” di Thierry Jonquet , “La pelle che abito” segna l’incontro tra Almodovar e il noir. Pensato inizialmente per una resa cromatica in bianco e nero, l’ultima fatica del cineasta castigliano si avvantaggia di una vividità di colori accesi, pennellate decise, congeniali alle “esplosioni” emotive dei protagonisti.
Il rosso: color del fuoco, della pazzia. Rosso come rosso è il sangue. José Luis Alcaine dirige una fotografia di primi piani arroventati: filtri sanguigni campeggiano sui volti a stravolgerne i lineamenti assoggettando l’immagine a un’imperante follia senza rimedio che assorbe uomini e cose indistintamente.
Il nero: è una matita da trucco quando non sottolinea lo sguardo ma diviene unico appiglio per scrivere e ricordare. Un diario su una parete della “cella”: fatto di cifre, segni, strane e multiformi sembianze. Per non impazzire, per mantenere in vita il vero sé al di là delle apparenze, oltre l’”estranea” riflessa allo specchio.
Di tanti segni visivi e visivamente affascinanti, rimane impressa una particolare dissolvenza incrociata. Robert e Vera giacciono nello stesso letto dandosi le spalle. Il regista insiste sui singoli primi piani ravvicinati per enunciare un doppio flashback: quello del dottore, poi quello della ragazza. Entrambi rammentano l’evento che cambiò le loro vite: il ricevimento di nozze di donna Casiva. E’ il turno di Vera e per un attimo il cuscino nero perde consistenza. I colori sfumano per ricomporsi in un’immagine nuova. Ora un altro volto giace accanto a quello di Vera. E’ quello di Vicente. Per un attimo due facce della medesima identità riposano mollemente sul guanciale. Poi, lentamente, il volto di Vera svanisce per lasciar posto allo sfondo della festa.