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giovedì 12 luglio 2012

Hugo Cabret






Un film di Martin Scorsese
Con Asa Butterfield, Cloe Moretz, Ben Kingsley, Sacha Baron Coen, Jude Law, Cristopher Lee
Titolo originale: Hugo
Genere: Avventura, fantasy
Soggetto: Brian Selznick
Sceneggiatura: John Logan
Produzione: Martin Scorsese, Johnny Depp, Tim Headington, Graham King
Casa di produzione: GK Film, Infinitum Nihil
Montaggio: Thelma Shoonmaker
Effetti speciali: Simon Cockren
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Dante Ferretti, Francesca Lo Schiavo
Costumi: Sandy Powell, Fola Solanke


di Chiara Roggino



Anni trenta. L’orfano Hugo Cabret vive clandestinamente tra le mura della stazione di Montparnasse. A fargli da casa un un labirinto di buie segrete, reticolo di stanze sospese a mezz’aria. Unico ricordo del padre, orologiaio da cui il piccolo ha appreso il mestiere, uno strano automa che, riparato a dovere, dovrebbe essere in grado di scrivere. Nell’impresa volta a recuperare i pezzi mancanti per risanare l’uomo meccanico, Hugo conoscerà la giovane Isabelle e il suo padrino: un eccentrico giocattolaio dai modi bruschi che nasconde un segreto. Egli è in realtà Georges Méliès, uno dei più grandi tra i padri fondatori del cinema muto. (sinossi)




Ascolta. Un treno in lontananza. E’ questione di pochi secondi e alla voce della macchina si sovrappone un fischio: il capostazione chiama a raduno l’imponente gregge metallico. Ed ecco un nuovo suono a distrarre l’attenzione. Il ticchettio di un ingranaggio. Il rumore fuori campo si fa improvvisamente immagine: un corpo metallico danzante e il grande orologio prende vita. Vedi il perno intorno a cui tutto gira? Ora non è più macchina, ma la sagoma dell’Arc de Triomphe. Parigi, meccanismo di strade illuminate: la Ville Lumière è rompicapo d’ingranaggi. Ogni tassello ha il suo compagno combaciante. L’occhio meccanico rivela il grande treno che si avvia a destinazione: Paris Montparnasse. Un carrello frenetico segue il brulicare dei clienti, il chiacchiericcio costante di habitués e commessi viaggiatori. Lo sguardo cambia bruscamente prospettiva. La cinepresa si solleva fino a inquadrare un grande orologio a cipolla. C’è una finestra anomala al “numero quattro”. Niente di meglio per spiare l’andirivieni degli indigeni di laggiù. Dall’alto, un occhio perfettamente azzurro controlla la situazione. L’occhio di Hugo. Secondo il bibliotecario Labisse ( un superbo Christopher Lee) ogni libro conosce la sua giusta ubicazione: la dimora che gli è più consona per questo o quel motivo. Ragioni di somma importanza, intendiamoci. E’ stato forse un ineluttabile e magico destino a sospingere tra le mani di Martin Scorsese le pagine di Brian Selznick e del suo “The invention of Hugo Cabret”? La fiaba del bambino che ripara orologi e , cosa ben più importante, lenisce gli affanni delle persone che incontra, rientra in un territorio lontano anni luce dagli scenari abituali cui il grande maestro ci ha avvezzati, fin dai suoi primissimi film.
A settant’anni, Scorsese scopre il piacere del gioco nella sua espressione più pura, si appassiona al 3D, fino ad ottenere l’impensabile: un omaggio alla settima arte che conosce l’ampio respiro di uno spirito visionario fanciullo. Da una scatola ruzzola fuori una pioggia di schizzi su carta quando fantasmi d’onirica sostanza prendono il volo: un mondo lontano popolato da trucchi magici, creature bizzarre che appaiono e scompaiono a loro piacimento. Da segnalare l’ottima prova degli scenografi Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo. Oscar meritato, il loro, per aver allestito una Parigi che conosce la polvere e lo smalto dei vecchi set cinematografici anni trenta: volutamente artefatta e viva nel medesimo tempo. Il film, nella sua prima metà, scorre senza intoppi, incanta e affascina così da concretare le ottime intenzioni di un maestro che dietro all’occhio della cinepresa non teme rivali. Ma, in questo divertissement di slanci e corse pazze a omaggiare il mondo dei sogni, Scorsese conosce un brusco arresto. Il bambino che è in lui si lascia trasportare dal gioco e a cavallo di un gioco sfrenato, si sa, specie senza redini, quel che si rischia è una brutta caduta. L’autore pare aver dimenticato che una buona storia, per appassionare, non può procedere esclusivamente per immagini. Ci vuole quel qualcosa in più. Un racconto ben strutturato, innanzitutto. Personaggi sfaccettati e credibili, non monolitici sembianti che ben poco hanno da narrare ed esprimere. Non si può chiedere l’impossibile a un attore del calibro di Ben Kingsley. Se a difettare è la storia, se le situazioni sono rare quando del tutto assenti, il carisma dell’attore, il suo istrionismo nell’annullarsi in un carattere, potranno servire a poco. Forse Méliès meritava di più. E una parte del pubblico non si accontenterà di assistere alla ricostruzione delle performances nello studio-serra di Montreuil o di testimoniare delle pellicole originali del geniale cineasta francese. Quel che manca è una storia, delle motivazioni solide per far progredire il personaggio nel suo excursus di maturazione emotiva: dalla rabbia, al dolore, alla catarsi. Scorsese offre rare argomentazioni così che i suoi personaggi perdono sostanza e svaniscono nel nulla. Come in un gioco di prestigio riuscito alla perfezione.