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venerdì 13 luglio 2012

Ruggine


 


Un film di Daniele Giaglianone
Con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastrandrea, Valeria Solarino
Genere: Drammatico
Durata: 109 min.
Soggetto: Stefano Massaron
Sceneggiatura: Daniele Giaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa
Produttore: Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto
Casa di produzione: Fandango, Zaroff, in collaborazione con Rai Cinema
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Enrico Giovannone
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Luca Fucà, Francesca Tessari
Italia 2011

di Chiara Roggino


L’Associazione Italiana Editori è in allarme: “Vendite di libri pericolosamente in calo negli ultimi mesi”. Pare altrimenti che le sale cinematografiche conservino ancora il privilegio di allettare una consistente cerchia di estimatori, frequentatori occasionali, piccoli e grandi habitués. E’ stato un percorso d’associazioni fin troppo semplice. Mi rivolgo a te, spettatore, che mi domandi perché andare a vedere “Ruggine” di Daniele Giaglianone. Primo: perché è un film italiano e in Italia (a meno di passare per beceri esterofili, colpevoli sabotatori della patria) il campanilismo cinefilo è un obbligo morale. Secondo: nel caso di eventuale insoddisfazione a uscita di sala, non temere. Esiste un modo per placare tanta amarezza. Basta recarsi in libreria, una qualsiasi, e acquistare “Ruggine” di Stefano Massaron. Potrebbe essere una piacevole sorpresa. In questo modo darai il tuo contributo, piccolo ma prezioso, al rinvigorimento dell’editoria nazionale.
Dietro il sarcasmo permane la verità dei fatti, il piccolo parere di un’instancabile habitué di una sedia davanti a un grande schermo. Nonostante l’abbondanza di spunti narrativi, storie ancora in fasce, potenzialmente accattivanti e cariche d’attrattiva, il cinema italiano continua ad annaspare. L’opera si districa a fatica per una struttura formale e narrativa lacunosa, costellata di incastri mal giocati: frammenti di un rompicapo approssimativo faticano a trovare il giusto compromesso per un vicendevole accordo. Se Massaron individua Milano come palcoscenico ideale per una tragedia percepita e vissuta dagli occhi e sulla carne dell’infanzia, Giaglianone corregge di poco il tiro: sfondo a personaggi e vicende saranno le “rovine” desolate della Torino operaia di fine anni settanta. I giochi di guerra della banda degli Alveari, asserragliata oltre i bastioni del “Castello”, non conoscono miglior habitat delle aspre dune di periferia, anomale distese d’erba assetata tra discariche di rottami e vecchie auto in rovina. E’ un’infanzia immigrata quella di Giaglianone. Figli di migranti dal profondo sud, la progenie dell’”esodo” trastulla la propria quotidianità appresso a un pallone, in prevaricazioni tra bande rivali, giochi da grandi a simulare coiti immaginari sui cofani incandescenti di un’estate che non si dimenticherà facilmente. L’arrivo dell’uomo nero profanerà le speranze, ultime superstiti di un’infanzia clandestina, quando i sogni odorano di marcio e non resta che aspettare. Sa accumulare bene il tempo: lordura su lordura, putrido su putrido, ruggine su ruggine. Giaglianone gioca così le sue carte migliori: attimi-frammenti di pura grazia, primi piani a tratteggiare un’ingenuità d’ansie e sogni ancora vivi, movimenti di macchina a pedinare i giochi di un’età difficile a riacciuffarsi.





 

“Ruggine” è un’opera che non rivela sorprese. E’ sufficiente lasciare scorrere le prime immagini per entrare nell’ottica di chi ha tentato di costruire una storia che cerca di dipanarsi su due piani temporali diversi nel loro parallelismo: il film si fa scorrere incessante tra il presente e il passato dei protagonisti, traumi vissuti e rivissuti sulla propria pelle.
Il tempo non è galantuomo. Non concede tregue, il tempo. I tre protagonisti si ritroveranno, adulti, ad abitare indumenti troppo grandi. Cristallizzati nelle minutezze di un’età spaesata tra passato e futuro, Carmine, Sandro e Cinzia vivono di esistenze in punta di piedi. Per non lasciare traccia. Perché nessuno legga la vergogna e con essa la paura dipinta sui loro volti.
A Venezia, “Quando la notte” di Cristina Comencini aveva suscitato un considerevole imbarazzo e per la qualità dell’opera e per l’approssimatezza interpretativa di un Timi monocorde e perennemente imbronciato. “Ruggine” sembrava l’occasione perfetta per un dignitoso riscatto attoriale.
Mai azzardare pronostici.
Il dottor Boldrini emerge dal corso degli eventi quasi dal nulla: un uomo vestito di scuro che apre la portiera della sua autovettura su una strada sterrata. Inquadrato inizialmente di profilo se non di nuca, per un’illuminazione del viso di contrastati chiaroscuri a sottolinearne pedestremente l’ambiguità, il personaggio del dottore, così come filtrato dall’impulsività infantile, dovrebbe teoricamente rappresentare l’orrore d’un orco da fiaba.
Timi, in un’escalation di “prodezze“ e “virtuosismi“ che sfiorano il ridicolo, suscita qualsivoglia emozione, paura esclusa. Pertanto assisteremo, in un crescendo di impotente rammarico, al rapido susseguirsi di quadri assai poco d’autore, momenti in cui la sceneggiatura e il dialogo sono vistosamente correi di un’interpretazione manierata, intessuta di stereotipi forzati. Il fantomatico dottor Boldrini, occhi da ossesso, perennemente spiritati, si aggirerà così in mutande, a passo marziale, rimpiangendo le “prodezze” di Hitler o, in alternativa, gorgheggiando arie d’opera.
Da sottolineare, per quel che riguarda il tempo che vede protagonista una sempre più “espressiva” Valeria Solarino, la totale assenza di professionalità (seguendo un discorso meramente performativo) degli “attori” comprimari, professori astanti al consiglio di classe. Dialoghi banali uniti ad un target attoriale inesistente, riducono tali momenti d’esperienza filmica allo stato di soap opera malriuscita.
Peccato. Giaglianone aveva dalla sua ogni presupposto per la realizzazione di una pellicola di livello medio-alto. Sarà per la prossima volta.