Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia
Un fil di Kim Ki-Duk
Con
Lee Jung-jin, Jo Min-su
Genere:
drammatico
Durata:
104 min
Sceneggiatura:
Kim Ki-duk
Fotografia:
Jo Yeong-jik
Scenografia:
Jean Sung-ho
Costumi:
Ji Ji-yeon
Musiche:
Park In-young
Produzione:
Kim Ki-duk Productions
Corea
del Sud 2012
di Chiara Roggino
"Il mio cinema è un dialogo fatto d'immagini, come per la
pittura".
Un negozio di ferramenta in disuso oltre l'inferriata: location per l'incipit di Pieta, diciottesima pellicola del cineasta coreano Kim Ki-Duk. Al centro del "palcoscenico" una sedia a rotelle quando una catena di metallo pesante precipita dal soffitto. Alla sua estremità un gancio adunco, inusuale patibolo, cappio dell'impiccato. Una sola certezza: la fine è imminente, questione di secondi. E ancora un palazzone fatiscente, sperduto in periferia: intrico di scale, labirinto senza vie di fuga. Ambientazione claustrofobica di angoscianti prospettive paiono scaturire da una tela di Escher. Non luogo tra cielo e terra, erba riarsa dal sole. Qui il primo dialogo tra "madre" e "figlio". Fresco il viso di donna, troppo giovane l'esile figura, labbra carminie, veste rosso acceso. Troppo giovane per aver dato alla luce un figlio trent'anni addietro. Lee Kang-do scruta con morbosa attenzione gli occhi scuri della silenziosa interlocutrice: "Tu non puoi essere mia madre". Lei non ha dubbi: è lui suo figlio. Chiede perdono inginocchiandosi. Ampie zone d'ombra, lineamenti scolpiti da chiaroscuri a sottolineare l'ambiguità dei protagonisti, si alternano magistralmente per una fotografia che gioca alternando filtri color dell'oro a tonalità grigio-azzurre. L'appartamento di Lee Kang-do è habitat asettico, privo di vita. Il pavimento del bagno è lordo di sangue: interiora d'animali, sembra. Appeso a una parete un quadro. Nudo di donna incastonato di coltello. La lama penetra nella tela a sfregiare le parvenze fragili ed esposte del soggetto rappresentato. Il protagonista è galoppino a servizio di un usuraio che non conosce pietà. Il suo lavoro? Massacrare i debitori, sfregiarli, storpiarli sì da incassarne l'assicurazione. Violenza e sadismo sono perpetrati senza rimorso, con non celata soddisfazione.
È labile il confine tra amore e odio, ponte di contaminazione strutturato magistralmente a opera di uno dei registi contemporanei più controversi. L'autore affresca ritratti di violenza mai gratuiti scavando a piene mani nelle viscere dell'animo umano. "L'odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l'incomprensibile". È il 2008: sul set di Dream, opera dichiaratamente autobiografica, l'autore coreano assiste a un incidente che quasi provoca la morte di un'attrice. L'evento lo segnerà nel profondo spingendolo a rifugiarsi in una casa abbandonata in seguito a una forte depressione. Pieta trae origine e spunto narrativo dal male oscuro che tanto segnò il cineasta. Un'incessante richiesta di pietas e di perdono invadono la pellicola per una rivisitazione tutta contemporanea della Pietà michelangiolesca. Il figlio straziato tra le braccia della madre, una costante richiesta d'affetto avvertito come urgente necessità per quel buco nero di assenza e forzato distacco dalla donna che lo generò. Lee Kang-do, inizialmente diffidente nei confronti di una figura femminile misteriosa e schiva, prodiga di attenzioni nei suoi confronti, si legherà morbosamente a lei ("Ho paura che tu possa sparire all'improvviso"). Topica la scena che ritrae un estremo contatto fisico: il ritorno al ventre materno tramite una penetrazione perpetrata con la forza. Kim Ki-duk, sguardo partecipe e coinvolto nel dirigere tramite immagini, non concede tregua allo spettatore: nulla è lasciato al fuori campo. La scena dell'incesto è dipinta con crudezza quando il volto di donna agonizza durante il coito, volto rigato di lacrime incessanti. Kim riprende i volti dei suoi protagonisti per un continuo gioco di sguardi quando una nenia cantata al telefono è sufficiente ad accendere la struggente tenerezza di un rapporto fuori da ogni schema.
"Che cos'è il denaro?", domanda Lee ad alta voce. "È' la fine delle cose", gli risponde la madre. Un "olocausto" che tende inesorabilmente verso la conclusione di pellicola, tratteggiata a tinte fosche. Dice il regista: "Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa. Il denaro farà domande tristi fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull'asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi". Così sarà inesorabile la mutazione architettonica della cittadina, sfondo delle vicende narrate. Fuochi fatui, luci al neon color sangue, pulsano nella notte scura. Sorprendente l'uso delle ambientazioni che paiono scaturire da Address Unknown. Difficili da dimenticare i pianti esausti e ricolmi di strazio di una donna aggredita nell'intimo, così come quell'albero, quel maglione a righe e l'estrema richiesta di una degna sepoltura ("Ho un favore da chiederti. Pianta un albero per me").
Un negozio di ferramenta in disuso oltre l'inferriata: location per l'incipit di Pieta, diciottesima pellicola del cineasta coreano Kim Ki-Duk. Al centro del "palcoscenico" una sedia a rotelle quando una catena di metallo pesante precipita dal soffitto. Alla sua estremità un gancio adunco, inusuale patibolo, cappio dell'impiccato. Una sola certezza: la fine è imminente, questione di secondi. E ancora un palazzone fatiscente, sperduto in periferia: intrico di scale, labirinto senza vie di fuga. Ambientazione claustrofobica di angoscianti prospettive paiono scaturire da una tela di Escher. Non luogo tra cielo e terra, erba riarsa dal sole. Qui il primo dialogo tra "madre" e "figlio". Fresco il viso di donna, troppo giovane l'esile figura, labbra carminie, veste rosso acceso. Troppo giovane per aver dato alla luce un figlio trent'anni addietro. Lee Kang-do scruta con morbosa attenzione gli occhi scuri della silenziosa interlocutrice: "Tu non puoi essere mia madre". Lei non ha dubbi: è lui suo figlio. Chiede perdono inginocchiandosi. Ampie zone d'ombra, lineamenti scolpiti da chiaroscuri a sottolineare l'ambiguità dei protagonisti, si alternano magistralmente per una fotografia che gioca alternando filtri color dell'oro a tonalità grigio-azzurre. L'appartamento di Lee Kang-do è habitat asettico, privo di vita. Il pavimento del bagno è lordo di sangue: interiora d'animali, sembra. Appeso a una parete un quadro. Nudo di donna incastonato di coltello. La lama penetra nella tela a sfregiare le parvenze fragili ed esposte del soggetto rappresentato. Il protagonista è galoppino a servizio di un usuraio che non conosce pietà. Il suo lavoro? Massacrare i debitori, sfregiarli, storpiarli sì da incassarne l'assicurazione. Violenza e sadismo sono perpetrati senza rimorso, con non celata soddisfazione.
È labile il confine tra amore e odio, ponte di contaminazione strutturato magistralmente a opera di uno dei registi contemporanei più controversi. L'autore affresca ritratti di violenza mai gratuiti scavando a piene mani nelle viscere dell'animo umano. "L'odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l'incomprensibile". È il 2008: sul set di Dream, opera dichiaratamente autobiografica, l'autore coreano assiste a un incidente che quasi provoca la morte di un'attrice. L'evento lo segnerà nel profondo spingendolo a rifugiarsi in una casa abbandonata in seguito a una forte depressione. Pieta trae origine e spunto narrativo dal male oscuro che tanto segnò il cineasta. Un'incessante richiesta di pietas e di perdono invadono la pellicola per una rivisitazione tutta contemporanea della Pietà michelangiolesca. Il figlio straziato tra le braccia della madre, una costante richiesta d'affetto avvertito come urgente necessità per quel buco nero di assenza e forzato distacco dalla donna che lo generò. Lee Kang-do, inizialmente diffidente nei confronti di una figura femminile misteriosa e schiva, prodiga di attenzioni nei suoi confronti, si legherà morbosamente a lei ("Ho paura che tu possa sparire all'improvviso"). Topica la scena che ritrae un estremo contatto fisico: il ritorno al ventre materno tramite una penetrazione perpetrata con la forza. Kim Ki-duk, sguardo partecipe e coinvolto nel dirigere tramite immagini, non concede tregua allo spettatore: nulla è lasciato al fuori campo. La scena dell'incesto è dipinta con crudezza quando il volto di donna agonizza durante il coito, volto rigato di lacrime incessanti. Kim riprende i volti dei suoi protagonisti per un continuo gioco di sguardi quando una nenia cantata al telefono è sufficiente ad accendere la struggente tenerezza di un rapporto fuori da ogni schema.
"Che cos'è il denaro?", domanda Lee ad alta voce. "È' la fine delle cose", gli risponde la madre. Un "olocausto" che tende inesorabilmente verso la conclusione di pellicola, tratteggiata a tinte fosche. Dice il regista: "Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa. Il denaro farà domande tristi fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull'asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi". Così sarà inesorabile la mutazione architettonica della cittadina, sfondo delle vicende narrate. Fuochi fatui, luci al neon color sangue, pulsano nella notte scura. Sorprendente l'uso delle ambientazioni che paiono scaturire da Address Unknown. Difficili da dimenticare i pianti esausti e ricolmi di strazio di una donna aggredita nell'intimo, così come quell'albero, quel maglione a righe e l'estrema richiesta di una degna sepoltura ("Ho un favore da chiederti. Pianta un albero per me").