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giovedì 20 settembre 2012

Anton's right here






Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia


Un film di Lyubov Arkus
Titolo originale: Anton tut ryadom
Con Anton Kharitonov, Rinata Kharitonova, Vladimir Kharitonov
Genere: documentario
Durata:120 min.
Sceneggiatura: Lyubov Arkus
Fotografia: Alisher Khamidkhodzaev
Montaggio: Georgij Ermolenko
Produzione: Kinokompaniya CTB, Masterskaya Seance
Russia 2011


di Chiara Roggino


Cappello a visiera calcato sul capo, Anton scrive sulla sabbia, osserva il mare: piccole onde lambiscono i piedi del ragazzo. L'emozione è palpabile, pieno il contatto con la natura.
"Anton è qui accanto". Tutte le mattine l'identica domanda: "Chi sono io?". "Questa storia ha inizio quattro anni fa", racconta il giovane membro dell'organizzazione di volontariato ucraina che opera per la rivista gestita dalla casa editrice Séanse. Egli sarà voce narrante, fil rouge del racconto documentaristico intessuto da Lyubov Arkus. Nata a Leopoli nel 1960, si laurea presso l'università statale pan-russa di cinematografia (VGIK) con una tesi in scenografia e studi cinematografici. Lavora in seguito collaborando con Viktor Sklovskij in veste di segretaria letteraria e revisore di sceneggiature presso gli studi Lenfilm. Nel 1993 crea e diventa caporedattrice della casa editrice Séanse. Creatrice e compilatrice di un'enciclopedia del cinema in sette volumi, Arkus viene insignita di numerosi riconoscimenti professionali.
Una lenta carrellata a seguire il protagonista che cammina a passo lento, imprimendo orme nella neve. Anton è un ragazzo autistico, la Colonia Omega un istituto psichiatrico che accoglie malati affetti dal medesimo handicap. I giovani di Séanse riprendono con la telecamera i suoi primi spostamenti all'interno della struttura. "Anton reagirà con disperazione alla notizia della nostra partenza". Diviso in capitoli,
Anton's Right Here è "la storia di come una persona si è riconosciuta nell'altra". La madre del giovane è stata colpita da un male incurabile ("Lui non ha nessuno tranne noi"). "Che fare di lui? Onestamente non lo so", dirà il padre. Questo è il vero inferno, un calvario che si prolunga e dilata in un lento percorso di stagioni diverse: clinica dopo clinica, istituto dopo istituto. Un primissimo piano viene a mostrarci il viso di Anton: occhi nell'oscurità, due buchi neri. "C'è una gran massa di gente, ma nessuna presenza".
Qual è il problema prioritario, quello che richiede una soluzione immediata? Fare in modo che il giovane si integri nella società, imparando un mestiere. Per Anton, la cosa pare impossibile. Dirà il genitore di uno degli "internati" nella casa di cura del Villaggio Svetlana: "Queste persone hanno un bisogno struggente d'essere amate". E ancora: "Francamente, io non so che fare". Renata, madre di Anton, muore quando "la cinepresa si è spenta". I suoi ultimi giorni di vita saranno la perpetua richiesta di "premere il tasto
play" per vedere e rivedere all'infinito le riprese di quel figlio che non è mai riuscita a conoscere fino in fondo. I volontari di Séanse, iniziato il percorso di "accudimento" di Anton, affidano al ragazzo un tema: "La gente". "La gente sopporta. La gente non sopporta". Anton ha imparato a sopportare.



 



martedì 18 settembre 2012

La cinquième saison





Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia



Un film di Peter Brosens e Jessica Woodworth
Con Sam Louwyck, Aurélia Poirier, Django Schrevens, Gill Vancompernolle
Genere: drammatico
Durata: 93 min.
Sceneggiatura: Peter Brosens, Jessica Woodworth
Fotografia: Hans Bruch Jr.
Montaggio: Peter Brosens
Scenografia: Igor Gabriel
Costumi: Claudine Tychon
Musica: Michel Schöpping
Produzione: Entre Chien et Loup, Unlimited, Molenwiek Film BV, Bo Films
Belgio, Olanda, Francia 2012
di Chiara Roggino

"Dio inverno, ti accusiamo per i crimini che hai commesso durante l'anno".

Una tettoia di alberi, rami scheletrici incombono minacciosi mentre un corvo vi si addentra in volo: cupo presagio di una catastrofe vissuta al presente dagli abitanti di un piccolo villaggio perso nelle Fiandre. La ragazza dai lunghi capelli, primo piano per lineamenti smorti, spauriti, sguardo vacuo perduto nel nulla, invia al cielo un grido disperato: l'imitazione del canto d'un uccello a richiamare il cinguettante popolo migratore, assente ingiustificato da ormai troppo tempo.




 
La Cinquième saison, film diretto dal duo Jessica Woodworth-Peter Brosens è l'estremo capitolo di una trilogia dedicata al conflitto tra uomo e natura. Kahdak: tra le steppe della Mongolia un gregge di pecore è misteriosamente sterminato da una pestilenza. Altiplano: un altopiano delle Ande peruviane è contaminato dal mercurio. Questa volta, la location dell'ultima pagina messa a nudo dai due cineasti sono le Fiandre - regione natale di Brosens -, là dove a morire è tutto, non gli animali e gli alberi soltanto, ma anche l'uomo.
Il caos che precipita gli abitanti del villaggio in un vortice senza fondo si fa metamorfosi via via sempre più tangibile. Le mucche non producono più latte, i pesci periscono, cadaveri nel letto del fiume, le api si negano all'impollinazione ("Prima spariscono le api, poi il resto"), l'aratro si mette in moto senza alcun fine praticando nel terreno arido e brullo cerchi concentrici su un suolo infruttifero; neve, pioggia, cadono incessantemente dall'alto dei cieli per nuvole in viaggio, ombre scure e minacciose quando una civetta dagli occhi penetranti compare in primo piano, presagio di calamità e di morte. I popolani giungeranno ad aggregarsi in una setta: ognuno di loro indosserà una maschera dal naso adunco a celare e spersonalizzare identità e fattezze. L'estrema sconfitta dell'uomo: la deturpazione identitaria messa in atto dalla Natura. È quest'ultima a scarnificare nell'intimo, poco alla volta, il singolo individuo.




 Defraudati da un ambiente che li espelle con forza, agli uomini e alle donne "senza volto" non resta che annullare il proprio sé all'interno del gruppo per un pensiero che riecheggia all'unisono quasi si fosse propagata, a prevalere su quella personale, una malsana coscienza collettiva. Il percorso filmico è suddiviso in capitoli: autunno, primavera, estate. La quinta stagione cui il titolo allude invita lo spettatore a guardare oltre. Al di fuori delle classiche quattro, si cela una dimensione alternativa a fendere, quasi uno strappo, una realtà devastante. Nel paesino stravolto da neve e vento cova qualcosa. A livello inconscio, i suoi "inquilini" vivono influenzati da un tetro inafferrabile qualcosa.





 La cinquième saison si manifesta quale opera di linguaggio filmico purissimo; alimentato da quiete parvenze, pur di rovente inesausta fiamma: "Devi avere il caos dentro per generare un fuoco danzante". Quando padre e figlio "forestieri" (il primo saltimbanco-ciarlatano, il secondo disabile) si decidono ad abbandonare una realtà fisica che ignora l'aggettivo "umano", saranno inevitabilmente presi di mira da un "sabba di streghe": rapiti, legati, messi al rogo. La comune valligiana non conosce pietà, rifiutando senza distinzioni ogni esilio volontario. L'intera collettività di abitanti è sottoposta al vetro di una lente di ingrandimento. Così, la pellicola si paleserà quale profezia per un genere umano e una natura che sopravviveranno anche in un lontano domani. Permarranno forme di vita alternative, capaci di adattarsi a nuove misteriose circostanze. Animali, alieni o struzzi forse vedranno la luce di una quinta stagione.






venerdì 14 settembre 2012

Intervista ad Andrea Segre







Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

 


di Chiara Roggino


A un anno esatto di distanza dal successo di pubblico e critica di Io sono Li, abbiamo incontrato Andrea Segre, di ritorno a Venezia per "ripresentare" il suo lungometraggio, in lizza per il Premio Lux e all'uopo ospitato in uno dei segmenti "collaterali" delle Giornate degli Autori. Ecco il resoconto di questa breve chiacchierata in esclusiva.


Hai alle spalle un'ampia esperienza nell'ambito del cinema documentario. Come e perché è nata l'idea di dirigere il tuo primo film di fiction?Non ho mai studiato Storia del Cinema, né frequentato scuole di cinema. Ho cominciato la mia avventura registica in qualità di realizzatore di documentari. Dopo un intenso percorso in ambito documentaristico ho avvertito l'esigenza di testare le mie capacità di lavorare con veri attori, imboccando una strada alternativa. Nel frattempo avevo incontrato la vera Shun Li, barista presso l'Osteria Paradiso, location della realizzazione filmica. Si è presentata pertanto l'occasione ideale per raccontare una storia che partisse da un elemento reale e da un luogo reale per divenire in seguito e al medesimo tempo finzione, poesia, metafora. Così è nata questa mia ultima gratificante esperienza. Io sono Li è stata una conferma: è fattibile unire documentario e finzione trovando il giusto compromesso per creare un ponte tra due isole, due territori che si contaminano vicendevolmente divenendo complementari. È questo un terreno di gioco e di sfida culturale che mi ha dato grandi soddisfazioni.
Venezia, la realtà chioggiotta: è la tua terra. Come ti sei trovato a dirigere nella piccola cittadina lagunare?
È la città dove mia mamma è nata e in cui in parte sono cresciuto. Città che sento un po' come casa madre. Un produttore tempo fa mi diceva: "Tanto prima o poi ogni regista finisce per parlare di sua mamma". Così è capitato anche a me. È un luogo che amo molto, un territorio che ha una forte identità-capacità di intrattenere un rapporto tra identità sociale e territorio. È stato quindi un piacevole reimmergersi in alcuni ricordi e al tempo stesso una sfida nel riuscire a raccontare quel luogo così identitario e così mio anche tramite lo sguardo di una straniera, di una donna molto diversa, molto lontana da quella realtà.
Vi sono citazioni poetiche all'interno del percorso filmico di Io sono Li. Quali? Ce ne spiegheresti il significato?
È un film che "viaggia" molto tra realtà e metarealtà. Una pellicola che cerca di unire sguardo documentaristico a sguardo poetico. Ho affrontato la sfida del raccontare la storia di una donna semplice ma profondamente dignitosa e coraggiosa, protagonista che filtra la realtà circostante attraverso il suo sguardo poetico, quasi sublime. Io e il cosceneggiatore Marco Petrelli abbiamo ritenuto giusto inserire nel film delle citazioni poetiche. La frase che tu riportavi (
"Il mare è maschio, la laguna è femmina", n.d.r.) è tratta da Il vecchio e il mare di Hemingway. Vi è poi tutto un percorso che insegue la produzione poetica di Qu Yuan. Io credo che in fondo la poesia sia lo strumento letterario più coraggioso nel rapporto col tuo intimo. È quello che centra il bersaglio di quella parte di tensione emotiva che fa parte del raccontare noi stessi. La poesia e con la poesia la canzone giacché la canzone d'autore è anche poesia. Ho amato molto confrontarmi con questo strumento.






Gli attori hanno attraversato per tua volontà un lungo "periodo di addestramento" per integrarsi nella realtà chioggiotta. Come è stato messo in pratica questo procedimento di preparazione?
Se cerchi di costruire delle contaminazioni devi avere pazienza. Non puoi pensare di generarle in brevi periodi. Sì, certo, possono esserci dei momenti di grazia in cui il lavoro riesce a concretizzarsi in breve tempo. Tuttavia, là dove decidi di scavare in merito alla profondità di questi particolari incontri, allora hai bisogno di tempo e spazio. Abbiamo dunque invitato gli attori professionisti a recarsi a Chioggia prima del tempo per stare nei bar, per andare a pescare con i pescatori del luogo. Contemporaneamente, ho chiesto ai pescatori chioggiotti di imparare a conoscere il linguaggio cinematografico.
Parlaci del tuo rapporto di collaborazione con Luca Bigazzi.
Mi ha insegnato buona parte di ciò che è fotografia nel cinema. Non avendo mai frequentato scuole di cinema, né messo in pratica nulla a livello tecnico, ho sempre improvvisato il mio sguardo sulla realtà. Luca mi ha aiutato a dare a questa improvvisazione, a questa intuizione, uno spessore artigianale: sapere come si trasformano le intuizioni in scelte fotografiche consapevoli affrontando le motivazioni inerenti al cosa e al come si vuole affrontare un percorso narrativo tramite immagini.
Io sono Li è in lizza al Premio Lux in competizione con Tabù di Miguel Gomes. Come ti rapporti innanzi al conseguimento di questo nuovo traguardo?
Il Premio Lux è uno fra i premi più intelligenti che sussistano all'oggi. Traducendo i film in ventitré lingue dai un valido supporto alla distribuzione nei paesi europei: un aiuto e un sostegno concreto molto fattivo, pratico e attuativo. Allo stesso tempo è un premio che ha il coraggio di abbracciare quella che è la dimensione storicamente più complessa e più incerta dell'identità europea: il confronto tra differenze e tensioni.


Problemi a livello distributivo? Quando avremo il piacere di acquistare il tuo film in DVD?
Mi dicono che il DVD uscirà a novembre-dicembre. La distribuzione è stata complessa, così come per gran parte delle opere prime. Si continua ad avere a disposizione
budget minimi nel sistema produttivo e distributivo, ma è stata una sfida che abbiamo percorso insieme a Francesco Bonsembiante e Francesca Feder con la voglia di costruire un progetto insieme, avvertendolo in qualità di sfida culturale e non soltanto come progetto finanziario.
Quale l'accoglienza di Io sono Li in Francia?
Molto buona. Ha avuto un'ottima critica, ottime recensioni di stampa, raggiungendo anche un risultato molto positivo a livello di pubblico. Durante un regime distributivo di oltre un anno abbiamo convogliato nelle sale circa novantamila spettatori.







martedì 11 settembre 2012

Bella addormentata


Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia


Un film di Marco Bellocchio
Con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Isabelle Huppert, Roberto Herlitzka, Maya Sansa, Pier Giorgio Bellocchio, Gianmarco Tognazzi, Brenno Placido
Durata: 115 min.
Genere: drammatico
Soggetto: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli
Produttore esecutivo: Fabio Massimo Cacciatori, Franco Bevione
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Francesca Calvelli
Scenografia: Marco Dentici
Italia, Francia 2012


di Chiara Roggino


Come voterai?”

Non lo so”

Come non lo sai?”

E' una questione di vita e di morte...”

Uliano ( un Toni Servillo in stato di grazia) si aggira senza meta per le strade di Roma. E' ormai notte. Sguardo rivolto verso il basso, il protagonista parla ad alta voce tra sé e sé. Il suo, un sofferto soliloquio. Uomo, senatore, padre, marito. La moglie giace in un letto d'ospedale, malata di cancro all'ultimo stadio. “Amore mio, aiutami. Sono stanca. Ti prego”. Un gesto coraggioso, atto estremo di profondo affetto volto a graziare una non esistenza marchiata dal dolore, Uliano stacca i macchinari che tengono in vita la donna. Subito dopo, non resta che un abbraccio disperato. L'uomo afferra con forza la sua compagna di vita: ormai cadavere, ormai in pace. Alcuni atti d'amore si pagano a caro prezzo. Certi slanci di profonda empatia umana costano, si imprimono a fondo a tatuare pelle e anima assieme.




 

 

Bella addormentata, trentesima pellicola di Marco Bellocchio, si dipana, racconto corale, per un intrecciarsi di voci-sguardi molteplici. Non attendetevi una fedele narrazione del Caso Englaro, pur fondamenta della struttura narrativa del film. La pellicola, ispirata agli eventi riguardanti Eluana, fatti che segnarono nel profondo le coscienze politiche e civili italiane, è di esclusiva proprietà dell'autore, profondamente sua fino all'ultima sequenza. Una storia che affronta un tema difficile e rischioso progredendo in perfetto equilibrio per una regia intensa che tratteggia situazioni umane con estrema delicatezza.Mamma, mi hai sempre insegnato che io sono un guerriero. Ora tocca a te”. A parlare è Maria (Alba Rohrwacher), figlia di Uliano. La giovane donna ( il cui nome allude palesemente alla Vergine) coltiva una cristianità pura e profondamente intatta. Così come il padre, anche lei sale sul treno, dirigendosi verso la capitale. Ella intende partecipare alla pubblica manifestazione di comune cattolico dissenso nei confronti della scelta dei famigliari dell'Englaro. Scelta intrapresa in virtù del testamento biologico rilasciato dalla bella addormentata prima del suo eterno assopirsi.

 

 

 

 

Personaggi accomunati da comune dolore, tra scelte di vita e di morte, si susseguono internamente al percorso filmico tramite un uso magistrale di montaggio alternato. Tema oltremodo scomodo quello affrontato dal regista piacentino. Presto, fin dalle prime immagini offerte agli occhi dello spettatore, ci renderemo conto ( Che gradita riconferma!) di trovarci innanzi a un cineasta di consolidata professionalità, un abile mestierante che conosce il fatto suo. Tuttavia, non possiamo eludere, rimarcandole, alcune evidenti lacune a costellare la pellicola: macchie scure ad offuscare un film di forte impatto emotivo, un racconto per immagini che attanaglia le viscere aggredendo lo spettatore nell'intimo. Un surplus di dialoghi mal giocati, tortuosi, sovrabbondanti, annientano in parte una sceneggiatura intessuta con cura maniacale, quanto mai efficace. Così risulterà palese la discrepanza-netto distacco di prove attoriali non livellate. A personaggi interpretati con magistrale talento di performer ( uno fra tutti, il magistrale Toni Servillo) si alterneranno interpretazioni poco credibili, fuori luogo e fuori parte. Così risulterà forzato il pianto della Divina Madre ( Isabelle Huppert), attrice teatrale in “ritiro monastico” in seguito alla caduta in coma della giovane figlia.

 

 

 

 

La donna versa lacrime, giorno dopo giorno, pregando affinché il frutto del suo ventre torni alla vita. Evidente l'allusione dialogica dell'Huppert alla parabola del Vengelo di Luca: “ (…) Ma Gesù che aveva sentito disse al padre: Non temere, soltanto abbi fede e sarà salva. E, arrivato alla casa, non permise che alcuno vi entrasse con lui, salvo Pietro, Giacomo e Giovanni, il padre e la madre della bambina. Tutti piangevano e facevano lamento su di lei. Ma egli disse: Non piangete, non è morta, ma dorme. E ridevano di lui, sapendo che era morta. Ma egli la prese per mano e ad alta voce esclamò: Fanciulla, sorgi! Quella si rianimò e all'istante si rizzò in piedi. Gesù ordinò di darle da mangiare. I genitori furono sconvolti. Ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto”.

 

 

 


lunedì 10 settembre 2012

Sfiorando il muro






 

Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia



Un film di Silvia Giralucci e Luca Ricciardi
Con Guido Petter, Raul Franceschi, Antonio Romito, Pietro Calogero, Stefania Paternò, Silvia Giralucci
Durata: 51 min.
Genere: documentario
Sceneggiatura: Silvia Giralucci
Fotografia: Daniele Gastoldi, Marco Tassinari, Marco Zambrano
Montaggio: Enzo Pompeo
Musica: Stefano Lentini
Produzione: Doclab
Italia 2012


di Chiara Roggino 



Silvia Giralucci, padovana, laureata in lettere con Antonia Arsaln; giornalista, scrittrice, regista. Figlia di Graziano Giralucci, militante del Movimento Sociale Italiano, ucciso da un commando delle Brigate Rosse la mattina del 17 giugno 1974 insieme a Giuseppe Mazzola, portiere dello stabile sede dell'MSI di Padova. All'epoca, Silvia aveva solo tre anni. Le prime inquadrature del suo lavoro dedicato alla memoria del padre e alle circostanze che ne hanno determinato la morte, sono immagini sfocate. Giochi tra bambini: nascondino, capriole, acchiapparella. Radi ricordi confusi, dispersi nel passato. I giorni passano, corre veloce il tempo. A quarantuno anni, Silvia avverte l'urgenza di ricostruire i fatti che furono: per se stessa, per spiegare al figlio che "suo nonno è parte della Storia di questo paese", e che "Padova non è riuscita a fare i conti con la sua storia". Il cinema ha spesso raccontato l'escalation di violenza nel corso degli anni di piombo, specialmente attraverso la forma documentaristica. Luigi Perotti aveva già realizzato L'infame e suo fratello, docufilm in cui Roberta Peci, figlia di Roberto Peci e nipote di Patrizio Peci - il primo brigatista pentito -, indagava sulle motivazioni che condussero il padre a essere assassinato da Giovanni Senzani, capo della Colonna Romana.
Prodotto da Doclab, Sfiorando il muro - in cui Silvia Giralucci, qui alla sua opera prima, è affiancata dietro la macchina da presa da Luca Ricciardi - è un documentario di intenso taglio personale. Il bisogno di risposte a domande celate in un cassetto spinge l'autrice a un percorso di ricerca a ritroso: testimoni, persone che vissero sulla propria pelle il Sessantotto e il periodo immediatamente successivo. La necessità è quella di guardare oltre il muro per riconoscere l'umanità dell'avversario, quando la violenza può manifestarsi nelle forme più inaspettate ("Sapevo che in famiglia avevamo paura delle risposte, perciò evitavamo di fare domande"). Tra le numerose interviste interne al percorso sancito dal film, spicca quella rilasciata da Stefania Paternò, che definirà la violenza politica degli anni Settanta come "un brutto gioco da non ripetere mai più". Paternò era amica di Graziano Giralucci: militante missina negli anni di piombo, che definisce senza mezzi termini "una guerra civile", non dichiarata ma insinuante, fra bande giovanili opposte, una sorta di I ragazzi della Via Paal lordi di sangue alle prese con un gioco crudele più grande di loro. La sua consapevolezza conferisce un alone ancor più sinistro al reducismo di Toni Negri e dei membri dell'Autonomia Operaia, trent'anni dopo. Nel documentario, le riprese della celebrazione dei fatti del 7 aprile 1979 in una sala comunale, con il professor Negri che firma autografi e stringe le mani dei suoi sostenitori equiparando la violenza di allora a "quattro schiaffi a un professore", rimanda ai capolavori della "lingua di legno": ci sarà sempre una motivazione contestualizzabile nella misura in cui si giunge a concretare il lavacro di ogni responsabilità, assolvendo ogni colpa. Ha fatto più danni la "lingua di legno" del comunismo di quanto non si sia disposti ad ammettere a oggi. Tuttora si evita di sfogliare, pagina dopo pagina, "l'album di famiglia" della violenza: lo squadrismo e il manganello appartengono sempre al fronte avverso.
Intervistato da Giralucci, Guido Petter: deceduto poco dopo il termine delle riprese. Nato a Luino, partigiano in Val D'Ossola durante il secondo conflitto mondiale e poi maestro elementare, verso la metà degli anni cinquanta si aggiudicò il concorso per la cattedra di Psicologia dello Sviluppo presso l'università di Trieste. Successivamente, fu chiamato a ricoprire la cattedra di Psicologia dell'Età Evolutiva presso la Facoltà di Magistero (Corso di Laurea in Pedagogia). Oppostosi alle violenze degli esponenti padovani di Autonomia Operaia all'interno della Facoltà di Magistero, il 14 marzo del 1979 fu vittima di una brutale aggressione sotto casa. A lui fu accollata la colpa di voler cambiare democraticamente le istituzioni. Giralucci guarda ai giorni che furono con sguardo distaccato. Questo il punto di forza della sua opera, proiettata tra gli eventi speciali del Fuori concorso della 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia. Una ragionata ricerca delle motivazioni della violenza politica, lungi da ogni condizionamento di parte.






Cherchez Hortance




Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia


Un film di Pascal Bonitzer
Con Kristin Scott Thomas, Isabelle Carré, Claude Rich, Jean-Pierre Bacri
Durata: 110 min.
Sceneggiatura: Pascal Bonitzer
Fotografia: Romain Winding
Montaggio: Elise Fievet
Scenografia: Emmanuel De Chauvigny
Musica: Aleksej Aigi
Produzione: SBS Productions
Francia 2012


di Chiara Roggino


Prove in corso in teatro. Sulle tavole del palcoscenico si allestisce Il monaco nero di Anton Čechov. Seduta in prima fila, in platea, una donna discute a mezza voce con quello che pare essere il suo assistente: Iva, regista, melodrammatica nella vita e nell'arte. La donna ha un marito, Damien (Jean-Pierre Bacri), docente universitario di Storia Cinese. Tutte le mattine il medesimo rituale. L'uomo, il capo poggiato sul guanciale, spegne la sveglia. Poi allunga il braccio verso l'altra metà del letto a trovare il corpo caldo e complice di una compagna, di una moglie. Inutile tentativo: lei non c'è. L'appartamento dove vive pare vuoto, non vissuto. Damien si aggira solo per le stanze. È lui a badare alla casa e al figlioletto Noé, ragazzino sveglio, occhialuto, spesso crudele e cinico per via di un rapporto ambivalente con il padre, amato e disprezzato a un tempo. Damien è il pilastro fondante della famiglia, Iva, quasi accessoria. 

Pascal Bonitzer è sceneggiatore e regista di Cherchez Hortense, sua opera numero sei dietro alla macchina da presa. Bonitzer si è occupato di critica cinematografica per vent'anni (dal 1969 al 1989), collaborando a tempo pieno per i prestigiosi «Cahiers du Cinéma», anche dopo il suo debutto come sceneggiatore (prima) e regista (dopo). Sceneggiatore cerebrale a sprazzi, ha raggiunto l'apice di autentica ispirazione confrontandosi con il talento di Jacques Rivette per cui scrive La bella scontrosa e i due episodi del "kolossal d'autore" Giovanna D'Arco. In qualità di cineasta opera fondendo la pellicola d'autore in opere sofisticate, quali Rien sur Robert (1999) e Petites coupures (2002), mai distribuiti in Italia, collaborando con attori del calibro di Daniel Auteuil, Emanuelle Devos, Ludivine Seigner e Pierre Arditi. In Cherchez Hortense viene a consolidarsi il rapporto professionale con Kristin Scott Thomas, già diretta in Petites coupures.

Chi è Hortense? Non una donna, ma un uomo politico, personaggio influente che risponde al nome di Henri (Hortance). Quando il fratello di Iva si prodiga presso lei per venire incontro a un'amica della nuova compagna, Damien viene caricato di una pesante zavorra: chiedere aiuto al padre, celebre funzionario di stato, per venire incontro a Zorica (Aurore), giovane serbo-montenegrina che vive in clandestinità nella capitale francese. Un rapporto più che conflittuale quello tra padre e figlio: il ritrovarsi condurrà il protagonista allo sbaraglio, risucchiato in un vortice senza fondo.

 

 

 

 

Bonitzer rivela doti da cineasta di prima classe. Cherchez Hortense è un'opera girata sul filo del trapezio, perennemente in bilico tra dramma e commedia brillante. Dialoghi efficaci, scritti con cura: praticamente perfetti gli scambi di battute tra Damien e Iva all'interno dell'appartamento domestico, sorta di teatro da camera in interni in cui la regista in carriera (una strepitosa Scott Thomas) si rivela pervasa di egoismo. Donna che vive in un mondo impenetrabile, e che rifiuta di condividere con il marito ("Il teatro è il mio spazio, il mio mondo").

 

 

 

 

Eccellente la prova d'attore di Jean-Pierre Bacri, per una volta in franchigia dal cinema della compagna di vita e di set Agnès Jaoui. Cammineremo passo passo a fianco di un protagonista attanagliato dal tormento, perennemente abbigliato di un cappotto nero, lugubre. La scoperta dell'esistenza di Zorica e il successivo innamoramento per la giovane spalancheranno all'uomo un raggio di luce inaspettato. Foglie gialle mosse dal vento, alberi d'autunno. Una fermata ferroviaria sperduta nella campagna francese. La coppia si avvia lenta lontano dai binari. Da lontano un uomo cinese osserva la scena con attenzione mentre nubi di fumo fuoriescono dalla sigaretta che trattiene tra le labbra.

 

 

 

domenica 9 settembre 2012

Pieta

 

Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

 

Un fil di Kim Ki-Duk
Con Lee Jung-jin, Jo Min-su
Genere: drammatico
Durata: 104 min
Sceneggiatura: Kim Ki-duk
Fotografia: Jo Yeong-jik
Scenografia: Jean Sung-ho
Costumi: Ji Ji-yeon
Musiche: Park In-young
Produzione: Kim Ki-duk Productions
Corea del Sud 2012

di Chiara Roggino


"Il mio cinema è un dialogo fatto d'immagini, come per la pittura".
Un negozio di ferramenta in disuso oltre l'inferriata: location per l'incipit di Pieta, diciottesima pellicola del cineasta coreano Kim Ki-Duk. Al centro del "palcoscenico" una sedia a rotelle quando una catena di metallo pesante precipita dal soffitto. Alla sua estremità un gancio adunco, inusuale patibolo, cappio dell'impiccato. Una sola certezza: la fine è imminente, questione di secondi. E ancora un palazzone fatiscente, sperduto in periferia: intrico di scale, labirinto senza vie di fuga. Ambientazione claustrofobica di angoscianti prospettive paiono scaturire da una tela di Escher. Non luogo tra cielo e terra, erba riarsa dal sole. Qui il primo dialogo tra "madre" e "figlio". Fresco il viso di donna, troppo giovane l'esile figura, labbra carminie, veste rosso acceso. Troppo giovane per aver dato alla luce un figlio trent'anni addietro. Lee Kang-do scruta con morbosa attenzione gli occhi scuri della silenziosa interlocutrice: "Tu non puoi essere mia madre". Lei non ha dubbi: è lui suo figlio. Chiede perdono inginocchiandosi. Ampie zone d'ombra, lineamenti scolpiti da chiaroscuri a sottolineare l'ambiguità dei protagonisti, si alternano magistralmente per una fotografia che gioca alternando filtri color dell'oro a tonalità grigio-azzurre. L'appartamento di Lee Kang-do è habitat asettico, privo di vita. Il pavimento del bagno è lordo di sangue: interiora d'animali, sembra. Appeso a una parete un quadro. Nudo di donna incastonato di coltello. La lama penetra nella tela a sfregiare le parvenze fragili ed esposte del soggetto rappresentato. Il protagonista è galoppino a servizio di un usuraio che non conosce pietà. Il suo lavoro? Massacrare i debitori, sfregiarli, storpiarli sì da incassarne l'assicurazione. Violenza e sadismo sono perpetrati senza rimorso, con non celata soddisfazione.
È labile il confine tra amore e odio, ponte di contaminazione strutturato magistralmente a opera di uno dei registi contemporanei più controversi. L'autore affresca ritratti di violenza mai gratuiti scavando a piene mani nelle viscere dell'animo umano. "L'odio di cui parlo non è rivolto specificatamente contro nessuno, è quella sensazione che provo quando vivo la mia vita e vedo cose che non riesco a capire. Per questo faccio film: tentare di comprendere l'incomprensibile". È il 2008: sul set di Dream, opera dichiaratamente autobiografica, l'autore coreano assiste a un incidente che quasi provoca la morte di un'attrice. L'evento lo segnerà nel profondo spingendolo a rifugiarsi in una casa abbandonata in seguito a una forte depressione. Pieta trae origine e spunto narrativo dal male oscuro che tanto segnò il cineasta. Un'incessante richiesta di pietas e di perdono invadono la pellicola per una rivisitazione tutta contemporanea della Pietà michelangiolesca. Il figlio straziato tra le braccia della madre, una costante richiesta d'affetto avvertito come urgente necessità per quel buco nero di assenza e forzato distacco dalla donna che lo generò. Lee Kang-do, inizialmente diffidente nei confronti di una figura femminile misteriosa e schiva, prodiga di attenzioni nei suoi confronti, si legherà morbosamente a lei ("Ho paura che tu possa sparire all'improvviso"). Topica la scena che ritrae un estremo contatto fisico: il ritorno al ventre materno tramite una penetrazione perpetrata con la forza. Kim Ki-duk, sguardo partecipe e coinvolto nel dirigere tramite immagini, non concede tregua allo spettatore: nulla è lasciato al fuori campo. La scena dell'incesto è dipinta con crudezza quando il volto di donna agonizza durante il coito, volto rigato di lacrime incessanti. Kim riprende i volti dei suoi protagonisti per un continuo gioco di sguardi quando una nenia cantata al telefono è sufficiente ad accendere la struggente tenerezza di un rapporto fuori da ogni schema.
"Che cos'è il denaro?", domanda Lee ad alta voce. "È' la fine delle cose", gli risponde la madre. Un "olocausto" che tende inesorabilmente verso la conclusione di pellicola, tratteggiata a tinte fosche. Dice il regista: "Il denaro mette inevitabilmente alla prova chi vive in una società capitalistica dove tutti sono convinti che esso possa risolvere ogni cosa. Il denaro farà domande tristi fino a quando tutti quelli che vivono in questa epoca moriranno. Finiremo per diventare denaro agli occhi degli altri, schiacciati sull'asfalto. Piango ancora rivolto al cielo con scarsa fede. Dio, abbi pietà di noi". Così sarà inesorabile la mutazione architettonica della cittadina, sfondo delle vicende narrate. Fuochi fatui, luci al neon color sangue, pulsano nella notte scura. Sorprendente l'uso delle ambientazioni che paiono scaturire da Address Unknown. Difficili da dimenticare i pianti esausti e ricolmi di strazio di una donna aggredita nell'intimo, così come quell'albero, quel maglione a righe e l'estrema richiesta di una degna sepoltura ("Ho un favore da chiederti. Pianta un albero per me").