Un film di Elia Kazan
Con Marlon Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter, Carl Malden
Titolo originale: A Streetcar Named Desire
Durata: 122 min.
Fotografia: Harry Stradling
Montaggio: David Weisbart
Musiche: Alex North
Scenografia: Richard Day, George James Hopkins
Usa 1951
di Chiara Roggino
La
prima immagine è campo statico, fotografia in bianco e nero a
presentarci una dimora fatiscente per una rampa di scale che conduce
al secondo piano. A lato, in disparte, un lampione acceso a
illuminare il quadro. Una scritta sovraimpressa sul grande schermo:
New
Orleans.
Un lungo treno fa il suo ingresso in stazione. A far da sfondo, il
traffico cittadino, il porto, taxi, rumore di autovetture in corsa.
Tra nubi di vapore, sperduta tra la folla, si fa largo una donna
bionda ed esile. Cappello e veletta, abito leggero, un fiore
appuntato al petto. Nel mentre, una folla festosa insegue una coppia
di sposi in partenza per la luna di miele.
1947:
anno di svolta per il teatro americano, spartiacque di quel lungo
procedimento di elaborazione subito dal metodo Stanislavskij negli
Stati Uniti. E' il 3 dicembre quando all'Ethel Barrymore Theatre
di New York va in scena “A streetcar named desire” di Tennessee
Williams. La regia è affidata ad Elia Kazan e tra gli attori fa la
sua entrata in scena un giovanissimo Marlon Brando. Kazan, formatosi
presso il Group Theatre, era il miglior regista della sua
generazione, dotato di una qualità rara: sapersi muovere con
disinvoltura tra cinema e teatro. Williams e Kazan riuscirono in
un'impresa non da poco: rappresentare lo smarrimento di una nazione
vincitrice pervasa da profonde inquietudini. Sesso, violenza,
malattia, patologia sono ritratti a tinte fosche, seppur all'interno
vi si scorga la possibilità di rappresentare e rendere 'poetici' i
propri mali, le disillusioni, le lacerazioni di strutture umane e
sociali in disfacimento. Tra i numerosi volti a rappresentare gli
anni cinquanta, emerge dalla massa lo Stanley Kowalski di Brando: non
più assimilabile alle star degli anni '30 e '40, ma uomo scalfito,
inquieto, dominato dagli istinti. Per questo più vicino alla vita.
In seguito alla rivelazione-Brando, l'America eleggerà ad eroe un
uomo con forti difficoltà a livello comunicativo, balbuziente,
dotato tuttavia di una sensualità esplicita e conturbante, di
un'inquietudine che trasuda attraverso gesti e sguardi. Parlando
della messinscena cinematografica del 'Tram', Kazan affermò di
essersi limitato a riprendere lo spettacolo. Ma basta riflettere,
rileggendo le pagine di André Bazin sul rapporto tra cinema e
teatro, per comprendere quanto l'elaborazione filmica messa in atto da Kazan mostri nell'immediato tutta la sua complessità.
Dal punto di vista registico, passando dalle tavole del palcoscenico
al set, il cineasta potrà interferire in modo più diretto sulla
recitazione. E' lui a pilotare lo sguardo dello spettatore, a dar
rilievo o meno a un gesto, uno sguardo, un'espressione del volto. E'
lui a a stabilire rapporti e dinamiche tra protagonisti. Il film
verrà girato quasi esclusivamente in studio. Le dimensioni della
location dove hanno luogo le scene principali verranno ridotte poco
alla volta per rendere sempre più claustrofobico lo spazio
dell'azione, il dramma di Blanche. Ogni scena verrà dissezionata e
provata in un 'falso set', costruito a fianco di quello reale. Le
prove saranno dunque il momento in cui la collaborazione tra regista
e performers potrà dare i suoi frutti migliori. Il film debutta
nelle sale: è il 1951.
Kazan
sfrutta il bianco e nero ad ottenere un gioco contrastato di
drammatici chiaroscuri. I personaggi, tutti, sono immersi nelle
tenebre: luogo e ambientazione ideale in cui si consumano i drammi
personali dei protagonisti. Volti in primissimi piani, buio a celarne
in parte i lineamenti, a tratteggiarne l'ambiguità esistenziale.
Tennessee
Williams è tra i drammaturghi americani affermatisi con maggior
successo sul piano internazionale. Nasce a Clombus, Mississipi, nel
1914. Opera d'esordio,“Battle of angels”: clamoroso insuccesso.
Successivamente si trasferirà ad Hollywood in veste di
sceneggiatore, senza riuscire a farsi un nome. Tuttavia qui stese l'opera che lo rese celebre: “The glass managerie”. A prescindere
dalla resa artistica delle sue commedie, al loro interno, fil rouge,
si ritrovano sincere e costanti tematiche. Così in “Un tram che si
chiama desiderio”. New Orleans è l'ambientazione del dramma per
quel Sud tanto caro all'autore. Temi fondanti: il sesso e la
violenza. Una protagonista alcolizzata, ninfomane fino alla pazzia.
Il
Sud favolistico di Williams dà vita a giovani segnati da
irrequietezza e forte malessere personale, luogo surreale in cui
l'uomo di ieri e di oggi celebra la sua decadenza e la sua caduta.
Sono pagine marchiate di insanabile disperazione, da leggere ed
elaborare nel tono d'amara elegia del disfacimento umano.
Scritturata
per interpretare Blanche Du Bois, Vievien Leigh ( premio Oscar e
altri prestigiosi riconoscimenti alle spalle), attrice britannica di
solida formazione teatrale, instaurerà un ottimo rapporto
umano-professionale con Brando. Avrà invece non pochi dissapori e
innumerevoli incomprensioni con il maestro Kazan tanto che egli
riconoscerà il suo talento d'interprete solo a riprese ultimate. In
“A streetcar named desire” la Leigh si adeguerà al Metodo e a
quanto esso comporta. Un assoluto annullamento di sé per penetrare
nei meandri interiori del personaggio, per viverne la vita autentica.
Ciò porterà ad una totale compenetrazione dell'attrice con l'eroina
dipinta da Williams: Blanche, donna sola, abbandonata a se stessa,
contaminata da un profondo malessere interiore che la condurrà
lentamente alla follia. La protagonista vive aggrappata a un passato
di amore puro, innocente, assoluto. Ella rimarrà ancorata, mente e
corpo a quella sera: un colpo di rivoltella a
infrangere sogni e speranze. La donna, in una disperata fame di
affetto e comprensione umana, giungerà a concedersi a chiunque,
quale mera prostituta, in un alberguccio di quart'ordine.
Forte,
immortale nella storia nel cinema, si imprimerà negli occhi e nella
mente dello spettatore la scena che vede protagonista il cosiddetto
“monologo della Varsouviana”. "Un ragazzo, un bambino, ed io
ero giovane giovane. Quando avevo sedici anni, mi innamorai di un
ragazzo. Ma così, di colpo, e in un modo così pieno, totale! Come
un faro acceso nella penombra all'improvviso, così si trasformò il
mondo per me! Ma ero sfortunata. Fu un inganno. Lui aveva qualcosa di
diverso, una sensibilità, una mollezza, delicatezza, che non era da
uomo... Lui cercò aiuto da me. Ma io non sapevo...Io non capii
niente... Sapevo solo di volergli un bene immenso...Poi, poco dopo il
matrimonio, scoprii tutto. Nel modo più tremendo. Entrando in una
stanza che credevo vuota... c'erano due persone a letto... il ragazzo
che avevo sposato e un uomo più anziano che da anni era il suo
amico... il suo amante. Dopo di che, facemmo finta di niente. Tutti
e tre, quella sera stessa, andammo fuori a divertirci, a ballare, e
per tutta la sera giù a ridere, a bere, a ballare, a ballare.
Ballammo la Varsouviana! Poi ad un certo punto, nel mezzo del ballo,
senza potermi frenare, mi era scappato detto 'Ho visto, ho visto
tutto... mi fai schifo!'. Allora il giovane che avevo sposato si
staccò da me e scappò via. Qualche momento dopo, uno sparo! Corsi
fuori, tutti corsero fuori, gridavano 'Alan! Alan! Il giovane Grey!'…
S'era infilato la rivoltella in bocca, e sparato, tanto che il cranio
gli era schizzato via!... E allora il faro che s'era acceso sul
mondo, si spense di nuovo e mai più per un solo istante da allora,
ha brillato...".
Blanche racconta a Mitch (Carl Malden) il suo
passato e l'antico amore che ne ha segnato il percorso. La figura eterea di donna si slancia
verso il pontile davanti al mare. Poco alla volta, un'antica nenia
proveniente da chissà dove, si anima il valzer a far da tappeto
sonoro alle parole di lei. La Leigh si volta verso il suo
interlocutore. Un movimento leggero, da farfalla, quasi un passo di
danza: perfetto, fugace, da immortalare con la macchina da presa
all'istante a rimarcare le straordinarie doti di un'attrice fuori classe, fuori dagli schemi.
Contrariamente
al pensiero di Kazan e Williams, Brando si considerò sempre e
totalmente inadatto al ruolo affidatogli. Il problema lo riguardava
sia professionalmente che dal punto di vista personale. Nel corso
degli anni, il divo si portò appresso, quasi un'ombra, il ruolo di
un uomo rozzo, violento e infantile. Brando e Kowalski divennero così
un unicum imprescindibile, per il pubblico e per lo stesso
interprete. L'attore americano tenne sempre a sottolineare quanto
egli fosse un uomo migliore del meccanico polacco scaturito dalla
penna di Williams.
All'attore
va comunque riconosciuta un'indiscussa abilità di performer nel
proporre al pubblico un personaggio sfaccettato e irripetibile,
protagonista negativo dotato di un fisico prorompente e di un volto
regolare e bello, d'una sensualità tutta nuova. Brando
regala al suo protagonista una voce biascicante e stentata, forse
monotona a tratti, riuscendo a renderla credibile sul grande schermo
tramite irruzioni di rabbia repentina che ne accentuano il volume. Il
personaggio-Kowalski, ottuso e violento, diviene così un carattere
permeato di maggiore umanità, più ambiguo e contraddittorio di
quanto Williams avesse pensato agli esordi.
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