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giovedì 12 luglio 2012

Paradiso amaro









Un film di Alexander Payne
con George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Beau Bridges,
Robert Foster, Judy Greer
Titolo originale: The descendants
Genere: Commedia drammatica
Soggetto: Kaui Hart Hemmings (romanzo)
Sceneggiatura: Alexander Payne, Nat Faxon, Jim Rush
Produzione: Jim Burke, George Parra, Alexander Payne, Jim Taylor
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Kevint Tent
Scenografia: Jane Ann Stewart
Durata: 110 min.
Distribuzione: 20th Century Fox
Usa 2011


Di Chiara Roggino



Oahu, quartiere di villette a schiera. L'uomo che piange sosta su un ponte. Vegetazione lussureggiante tutt'intorno. Un corso d'acqua mormora sommesso e gli uccelli non hanno smesso di cantare. Campo medio: l'uomo è ripreso di spalle. Ne avvertiamo distintamente i singhiozzi. Un brusco risveglio per Matt King (George Clooney), discendente di una facoltosa famiglia hawaiana, avvocato tutto ufficio e etica del lavoro irreprensibile, genitore di riserva e marito precario. La moglie Elisabeth entra in coma in seguito a un incidente nautico. La prognosi è amara e definitiva: la donna non si sveglierà più. Matt, spalle al muro, dovrà rimettere in discussione la propria esistenza tentando di arginare il disgregarsi di un fragile nucleo familiare: due figlie (le giovani e promettenti Shailene Woodley e Amara Miller), dieci e diciassette anni, due caratteri difficili. Quando l'uomo scopre che la moglie aveva un amante le cose si complicano ulteriormente...





Sette anni ci separano da “Sideways” (dall'omonimo romanzo di Rex Pickett): quando l'umana solitudine nascosta in fondo a un calice di pinot nero diventa occasione e spunto per parlare d'amicizia. Sullo sfondo, la zona vinicola di Santa Ynez Valley.
Alexander Payne, cineasta classe 1961, è un instancabile ricercatore di storie per nuovi racconti su grande schermo. Non importa da dove essi provengano. Per “The descendants” il regista si affida alla penna della scrittrice hawaiana Kaui Hart Hemmings, autrice di “Eredi di un mondo sbagliato”. Parlando del suo nuovo protagonista, Payne non fa misteri: “La verità è che ho sempre voluto lavorare con lui. Anzi, in un primo momento avevo pensato a George per il ruolo del coprotagonista in “Sideways”, ma poi ho reputato il personaggio non adatto alle sue doti. Così, appena ho iniziato ad adattare il romanzo, George è stata l'unica scelta possibile”. Immergersi nella visione di “The descendants” è il modo migliore per capire che sì. La scelta di Payne non è stata un semplice azzardo. Che l'attore di Lexington era l'unico interprete in grado di annullarsi completamente per essere davvero Mattew King. zo 2012]
Quella di Clooney, alle prese con un ruolo atipico rispetto ai personaggi che interpreta solitamente, è una vera e propria rinascita dal punto di vista emotivo. Ne prendiamo coscienza fin dall'esordio della pellicola. Payne si dichiara regista visivo: ama agire sui volti, sui grandi spazi. Poche parole, dialoghi radi per inquadrature sature e intense, spesso grandangolari: i personaggi sono visibili in primo piano, ma c'è sempre qualcosa che accade sullo sfondo. Sulle note di un ukulele, cullati da una melodia di tipico intercalare hawaiano, l'autore ci introduce alla storia dei King. E' una voce fuori campo, quella di Matt, a raccontare gli ultimi avvenimenti che hanno segnato la sua famiglia. La macchina da presa indugia per le strade di Honolulu: barboni, malati, abitanti di bidonvilles, umanità ai margini, disperata. Qui non siamo in paradiso, non si balla né si sorseggia Mai Tais tutto il santo giorno (“Paradiso? Il paradiso può andare a farsi fottere”). Un lento piano sequenza ci introduce dall'esterno (edifici industriali tra ampie macchie di verde) all'interno della camera ospedaliera di Elisabeth. L'occhio elettronico entra dalla finestra. Matt è seduto a un tavolo, ma la macchina non si arresta sulla sua figura, passa oltre. Avanti, ancora avanti, fino al letto della donna in coma. Un altro passo: ora il volto di Elisabeth è in primo piano. Stacco. La camera ritorna indietro per inquadrare Matt, consumato dalla preoccupazione.
La parola risveglio emotivo sta ad indicare qualcosa di preciso: un avvenimento-snodo cruciale nella vita del protagonista, un improvviso (e quanto efficace!) mutamento di prospettiva a modificare l'approccio performativo di un attore hollywoodiano di talento. Ad accompagnare personaggio e performer sulla strada di una nuova presa di coscienza di sé e degli altri, si muove, preciso e instancabile, lo sguardo di Payne. A seguire Mattew King e i suoi illusori progetti di vita nuova (“farò”, “recupererò”), a distanza, dall'alto, in questo caso. La visuale è straniante. Intravediamo la sagoma dell'uomo che sale lentamente i gradini dell'ospedale. In primo piano l'immagine della scala rovesciata: una struttura labirintica in cui Matt sembra smarrirsi e perdere l'orientamento. Fuori campo la voce del medico di famiglia non dà buone notizie.
Abbiamo parlato di Payne come di artista visivo. Il cineasta si diverte a sperimentare: giocando con le immagini. A volte sarà per evadere dai canoni di un convenzionale montaggio alternato. Un gioco da ragazzi tramite l'uso dello spleet screen (quando più inquadrature sono montate contemporaneamente sullo schermo). E' il caso di “Sydeways” e del racconto per tasselli compresenti di un viaggio on the road tra i vigneti californiani. Payne ama intrattenersi di dissolvenza incrociata in dissolvenza. A volte l'immagine di partenza non si eclissa completamente. Allora rimangono così, due personaggi sovrapposti sullo schermo, due entità fantasmatiche: ad aggiungere intensità al narrato, a motivare diegeticamente, in questo caso, la sbronza di Miles (Paul Giamatti) che, disperato, improvvisa una pietosa conversazione telefonica con l'ex moglie.
E' difficile arginare la filmografia di Payne, incasellarla in un genere specifico. I suoi film non sono commedie, ma fanno anche ridere. Non sono drammi, ma danno da pensare e spesso commuovono. E' impossibile standardizzare un lavoro che rifiuta di suo argini e categorie. La performance di Clooney conosce i toni brillanti della commedia alla Cary Grant, ma offre momenti di drammatica riflessione e attimi di inarrivabile dolcezza. Due scene. La corsa di Matt King che, riconosciuto l'amante della moglie nell'apparentemente innocuo compagno di jogging mattutino, lo segue a distanza, mimetizzandosi tra i cespugli e spiandone furtivo i movimenti. Due: l'addio di Matt alla moglie Elisabeth. E qui non importa l'essere più o meno romantici o di lacrima facile: Clooney respira e recita supportato da un'onestà sincera. La corazza si frantuma e restano i sentimenti nudi. A rabbia, frustrazione e gelosia seguono le sole parole utilizzabili da un uomo che non ha mai smesso di amare la propria compagna.