Un
film di Alexander Payne
con
George Clooney, Shailene Woodley, Amara Miller, Beau Bridges,
Robert
Foster, Judy Greer
Titolo
originale: The descendants
Genere:
Commedia drammatica
Soggetto:
Kaui Hart Hemmings (romanzo)
Sceneggiatura:
Alexander Payne, Nat Faxon, Jim Rush
Produzione:
Jim Burke, George Parra, Alexander Payne, Jim Taylor
Fotografia:
Phedon Papamichael
Montaggio:
Kevint Tent
Scenografia:
Jane Ann Stewart
Durata:
110 min.
Distribuzione:
20th Century Fox
Usa
2011
Di
Chiara
Roggino
Oahu,
quartiere di villette a schiera. L'uomo che piange sosta su un ponte.
Vegetazione lussureggiante tutt'intorno. Un corso d'acqua mormora
sommesso e gli uccelli non hanno smesso di cantare. Campo medio:
l'uomo è ripreso di spalle. Ne avvertiamo distintamente i
singhiozzi. Un brusco risveglio per Matt King (George
Clooney),
discendente di una facoltosa famiglia hawaiana, avvocato tutto
ufficio e etica del lavoro irreprensibile, genitore di riserva e
marito precario. La moglie Elisabeth entra in coma in seguito a un
incidente nautico. La prognosi è amara e definitiva: la donna non si
sveglierà più. Matt, spalle al muro, dovrà rimettere in
discussione la propria esistenza tentando di arginare il disgregarsi
di un fragile nucleo familiare: due figlie (le giovani e promettenti
Shailene
Woodley e
Amara
Miller),
dieci e diciassette anni, due caratteri difficili. Quando l'uomo
scopre che la moglie aveva un amante le cose si complicano
ulteriormente...
Sette
anni ci separano da “Sideways”
(dall'omonimo
romanzo di Rex Pickett): quando l'umana solitudine nascosta in fondo
a un calice di pinot nero diventa occasione e spunto per parlare
d'amicizia. Sullo sfondo, la zona vinicola di Santa Ynez Valley.
Alexander
Payne,
cineasta classe 1961, è un instancabile ricercatore di storie per
nuovi racconti su grande schermo. Non importa da dove essi
provengano. Per “The descendants” il regista si affida alla penna
della scrittrice hawaiana Kaui Hart Hemmings, autrice di “Eredi di
un mondo sbagliato”. Parlando del suo nuovo protagonista, Payne non
fa misteri: “La verità è che ho sempre voluto lavorare con lui.
Anzi, in un primo momento avevo pensato a George per il ruolo del
coprotagonista in “Sideways”, ma poi ho reputato il personaggio
non adatto alle sue doti. Così, appena ho iniziato ad adattare il
romanzo, George è stata l'unica scelta possibile”. Immergersi
nella visione di “The descendants” è il modo migliore per capire
che sì. La scelta di Payne non è stata un semplice azzardo. Che
l'attore di Lexington era l'unico interprete in grado di
annullarsi completamente per essere davvero Mattew King. zo
2012]
Quella
di Clooney, alle prese con un ruolo atipico rispetto ai personaggi
che interpreta solitamente, è una vera e propria rinascita dal punto
di vista emotivo. Ne prendiamo coscienza fin dall'esordio della
pellicola. Payne si dichiara regista visivo: ama agire sui volti, sui
grandi spazi. Poche parole, dialoghi radi per inquadrature sature e
intense, spesso grandangolari: i personaggi sono visibili in primo
piano, ma c'è sempre qualcosa che accade sullo sfondo. Sulle note di
un ukulele, cullati da una melodia di tipico intercalare hawaiano,
l'autore ci introduce alla storia dei King. E' una voce fuori campo,
quella di Matt, a raccontare gli ultimi avvenimenti che hanno segnato
la sua famiglia. La macchina da presa indugia per le strade di
Honolulu: barboni, malati, abitanti di bidonvilles, umanità ai
margini, disperata. Qui non siamo in paradiso, non si balla né si
sorseggia Mai Tais tutto il santo giorno (“Paradiso? Il paradiso
può andare a farsi fottere”). Un lento piano sequenza ci introduce
dall'esterno (edifici industriali tra ampie macchie di verde)
all'interno della camera ospedaliera di Elisabeth. L'occhio
elettronico entra dalla finestra. Matt è seduto a un tavolo, ma la
macchina non si arresta sulla sua figura, passa oltre. Avanti, ancora
avanti, fino al letto della donna in coma. Un altro passo: ora il
volto di Elisabeth è in primo piano. Stacco. La camera ritorna
indietro per inquadrare Matt, consumato dalla preoccupazione.
La
parola risveglio emotivo sta ad indicare qualcosa di preciso: un
avvenimento-snodo cruciale nella vita del protagonista, un improvviso
(e quanto efficace!) mutamento di prospettiva a modificare
l'approccio performativo di un attore hollywoodiano di talento. Ad
accompagnare personaggio e performer sulla strada di una nuova presa
di coscienza di sé e degli altri, si muove, preciso e instancabile,
lo sguardo di Payne. A seguire Mattew King e i suoi illusori progetti
di vita nuova (“farò”, “recupererò”), a distanza,
dall'alto, in questo caso. La visuale è straniante. Intravediamo la
sagoma dell'uomo che sale lentamente i gradini dell'ospedale. In
primo piano l'immagine della scala rovesciata: una struttura
labirintica in cui Matt sembra smarrirsi e perdere l'orientamento.
Fuori campo la voce del medico di famiglia non dà buone notizie.
Abbiamo
parlato di Payne come di artista visivo. Il cineasta si diverte a
sperimentare: giocando con le immagini. A volte sarà per evadere dai
canoni di un convenzionale montaggio alternato. Un gioco da ragazzi
tramite l'uso dello spleet screen (quando più inquadrature sono
montate contemporaneamente sullo schermo). E' il caso di “Sydeways”
e del racconto per tasselli compresenti di un viaggio on the road tra
i vigneti californiani. Payne ama intrattenersi di dissolvenza
incrociata in dissolvenza. A volte l'immagine di partenza non si
eclissa completamente. Allora rimangono così, due personaggi
sovrapposti sullo schermo, due entità fantasmatiche: ad aggiungere
intensità al narrato, a motivare diegeticamente, in questo caso, la
sbronza di Miles (Paul Giamatti) che, disperato, improvvisa una
pietosa conversazione telefonica con l'ex moglie.
E'
difficile arginare la filmografia di Payne, incasellarla in un genere
specifico. I suoi film non sono commedie, ma fanno anche ridere. Non
sono drammi, ma danno da pensare e spesso commuovono. E' impossibile
standardizzare un lavoro che rifiuta di suo argini e categorie. La
performance di Clooney conosce i toni brillanti della commedia alla
Cary Grant, ma offre momenti di drammatica riflessione e attimi di
inarrivabile dolcezza. Due scene. La corsa di Matt King che,
riconosciuto l'amante della moglie nell'apparentemente innocuo
compagno di jogging mattutino, lo segue a distanza, mimetizzandosi
tra i cespugli e spiandone furtivo i movimenti. Due: l'addio di Matt
alla moglie Elisabeth. E qui non importa l'essere più o meno
romantici o di lacrima facile: Clooney respira e recita supportato da
un'onestà sincera. La corazza si frantuma e restano i sentimenti
nudi. A rabbia, frustrazione e gelosia seguono le sole parole
utilizzabili da un uomo che non ha mai smesso di amare la propria
compagna.