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venerdì 13 luglio 2012

Magnifica presenza






Un film di Ferzan Ozpetek
Con: Elio Germano, Paola Minaccioni, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Cem Ymaz, Claudia Potenza, Andrea Bosca, Ambrogio Maestri, Matteo Savino, Alessandro Roja, Anna Proclemer
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Federica Pontremoli
Produttore: Domenico Procacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Walter Fasano
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Andrea Crisanti
Durata: 105 minuti
Italia 2012


Dalla Sicilia a Roma. Pietro Pontechievello (Elio Germano), giovane pasticcere omosessuale, aspirante attore, si trasferisce nella capitale in cerca di fortuna. La dea bendata sembra rispondere da subito alle sue richieste. Una grande casa tutta per sé, lontano dalla cugina Maria (Paola Minaccioni), nevrotica e affettuosa ai limiti dell’invadenza. L’affitto è conveniente e la padrona di casa richiede da subito il pagamento anticipato di quattro mensilità. Ma tanta fortuna conosce un inquietante rovescio della medaglia. La casa è già abitata da singolari personaggi… (sinossi)


Una linea nera per sottolineare lo sguardo, gioco di chiaroscuri sfumati a illuminare le palpebre. L’occhio prende vita. Il grande spettacolo ha inizio mentre il sipario freme d’impazienza, avido di mostrare la scena e i suoi inquilini: gli attori. Rapidi scorrono i titoli di testa e già lo spettatore respira aria d’altri tempi, altri abiti, altre acconciature. Un colpo di rivoltella. Il dramma dei personaggi ha inizio. Chi sono, da dove provengono “questi fantasmi”? Al suo nono film, Ozpetek si riconferma osservatore acuto e vivace. Un’attrazione tutta umana la sua: indagare universi altri popolati da vigili presenze. A ben vedere l’ultima scena di “Mine vaganti” si concludeva già con un ballo favolistico a conciliare presente e passato, i vivi e quelli che non sono più ma che pur sono, in altri luoghi, vitali e manifesti. Per Ferzan Ozpetek l’incontro con Elio Germano è fondamentale. Allo scorrere dei titoli di coda il volto del protagonista campeggia a lungo sullo schermo. I suoi occhi sono specchio fedele e trasparente così che pare quasi di vederlo: lo spettacolo della compagnia Apollonio. A film concluso, lo spettatore non potrà staccarsi dalla poltrona tanto presto. Fino al completo dissolvimento dei lineamenti dell’attore. Germano inchioda il pubblico in sala, reggendo uno splendido primo piano prolungato. Non è sufficiente essere belli o esteticamente accattivanti per bucare lo schermo. L’interprete romano bello non è, ma perfettamente in grado di emanare quella “magnifica presenza” che lo rende protagonista assoluto del gioco tutto teatrale architettato da Ozpetek.
Pietro è un sognatore, un solitario, un “solo” che vive in una dimensione aliena tra ideali d’altri tempi e romanticismo démodé. Le presenze che popolano l’appartamento se ne accorgono da subito. Egli appartiene all’oggi, ma è più che mai prossimo al loro mondo. Così gli attori della compagnia decidono di fargli visita: “personalmente”. Non più brusii o porte che sbattono senza un perché, ma personaggi veri, ansiosi di conoscere il loro passato per compiere il proprio destino. Ozpetek trae ispirazione dal palcoscenico vivo nonché da un grande della letteratura e del teatro quale Luigi Pirandello. Un evento di tale portata non stupirà gli afecionados di un cinema intessuto tra atmosfere esotiche, sanguigne, cariche di spezie e tavole conviviali. Un fare cinema che vede l’attore ascendere al gradino più alto: perno e artefice primo per la buona riuscita di un film. “Sei personaggi in cerca di autore” è il punto di partenza, spunto narrativo da cui si dipanano verso il proprio epilogo le vicende e le vite dei Personaggi della compagnia Apollonio. Avidi di rivivere il proprio dramma, disposti a tutto pur di prendere coscienza della verità. Pietro è il loro ideale intermediario: colui che ne garantirà l’evasione, rendendoli liberi. L’aspirante attore vive e si appassiona alle vite dei Personaggi fino ad affezionarsi sinceramente a ognuno di loro. I singolari coinquilini, dapprima tanto temuti, saranno per lui amici, complici, confidenti, persino maestri nell’arte della recitazione. La casa a Monteverde diviene luogo di convivialità sincera. Ozpetek strizza l’occhio alle dive del passato. Lea Marni (Margerita Buy), abbigliata come Marlene Dietrich e pettinata come Jane Harlow, è portatrice di una singolare lezione di storia del cinema. Viene così evocata la divina Greta Garbo, colei che diventò una star eliminando la gestualità drammatica del muto e il sorriso.







giovedì 12 luglio 2012

Diaz - Non pulire questo sangue


 

 



Un film di Daniele Vicari
Con Claudio Santamaria, Elio Germano, Jennifer Ulrich, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Rolando Ravello
Genere: Drammatico
Sceneggiatura: Daniele Vicari, Laura Paolucci
Produttore esecutivo: Domenico Procacci
Casa di produzione: Fandango, Le Pacte, Mandragora Movie
Distribuzione italiana: Fandango
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Benni Atria
Musica: Teho Teardo
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Roberta Vecchi, Francesca Vecchi
Italia- Francia-Romania 2012



di Chiara Roggino



Frammenti di vetro come pioggia: cascata di cocci, mine impazzite. Poi il rewind: le schegge riacquistano forma originaria, la bottiglia torna sui suoi passi per ricomporsi in volo. Era ancora giorno, quel ventun luglio del 2001. Davanti alla scuola Diaz una volante della polizia viene presa d’assalto dai no-globals: gioventù multietnica, pacifici manifestanti; anticapitalismo contro il vertice G8 di Genova. La folla si riversa contro la vettura al grido “Assassini! Assassini!”. Era ancora giorno quando Carlo Giuliani perse la vita in Piazza Alimonda. Aveva ventitré anni. Un poliziotto gli sparò alla testa.
Il regista Daniele Vicari realizza un racconto corale basato su testimonianze e resoconti dei processi inerenti all’intervento militaristico ad opera del VII Reparto mobile della polizia di Stato (da “macelleria messicana”, come lo definì il vicequestore Michelangelo Fournier) avvenuto nella notte tra il ventuno e il ventidue luglio 2001 presso le scuole Diaz, Pertini e Pascoli (centro di coordinamento del Genoa Social Forum).



Un film o un documentario? Una pellicola ibrida quella diretta da Vicari. L’autore decide di alternare due tipi di linguaggio: racconto tradizionale e documentazione tramite camera a mano; quest’ultima programmata a concretare un maggior impatto-effetto di realtà , quasi si trattasse di una presa diretta. Nel 2011 Carlo Augusto Bachschmidt realizza il documentario “Black Block”. Testimonianze reali di alcuni tra i manifestanti al G8 di Genova, presenti alla carneficina Diaz. Quando un racconto orale, privo di immagini sature di violenza, rende con forse maggior efficacia la realtà dei fatti che furono. La ‘colpa’ di Vicari, se così vogliamo definirla, non risiede in una presa di posizione di parte. La scelta di inscenare un racconto corale per dar vita ai fatti del 2001 è in sé un’idea felice, prodiga di aspettative. Tuttavia ci si chiede se tale scelta si stata programmata efficacemente ( e consapevolmente) in fase di stesura del plot, durante la costruzione di una sceneggiatura portante.
Il risultato porta a sviluppare caratteri tagliati con l’accetta, sine spessore psicologico. Posso approvare un simile atteggiamento se inserito nel giusto contesto: quello di un documentario ‘puro’ in cui a contare siano i fatti e non le personalità dei protagonisti. Ma se mi presenti un personaggio e siamo all’interno di un film (ibrido fin che vuoi), allora io pretendo: non di sapere tutto, non uno scavo psicologico approfondito, ma qualcosa di più della realizzazione di semplici macchiette. Unico, grande interprete, in grado di delineare in poche battute il proprio ruolo (e la propria umanità) all’interno della vicenda, Renato Scarpa.
Diaz”, nella sua comprensibile ansia di presentare i fatti così come realmente accaddero, si riduce a un perpetuo pestaggio, a un lago di sangue. E’ sufficiente assistere ad una carneficina per ricordare e imprimere nella memoria l’indignazione riguardo ad avvenimenti che urlano di defunta democrazia?
Una follia collettiva che portò ad una strage programmata nei minimi dettagli. La strage non fu condotta come conseguenza all’assalto della volante quel pomeriggio del 2001. Vicari sembra insistere sull’evidenza di tale movente tramite l’uso ripetuto di flashback, inutile quanto fastidioso: un montaggio che ostacola il dipanarsi degli eventi. I macellai che capitanarono l’operazione avevano dalla loro uno scopo preciso: ripristinare l’autorità della polizia, incapace, durante quei giorni d’inferno, di frenare gli attacchi ad opera dei black block. Una rivincita delle forze dell’ordine. Chi furono i capri espiatori, chi gli architetti del blitz? Il film li esclude dal campo d’azione, accennando volti indefiniti, dialoghi banali. Risultato: confusione e pressapochismo. Eppure i nomi noi li conosciamo. Ma a Vicari questo non sembra interessare. Nel finale quattro ragazzi francesi assunti dall’autore come i veri ricercati dalla polizia, ritornano sul luogo del massacro. “E’ stata colpa nostra”. I manifestanti violenti giunti a Genova dall’estero durante il G8 erano all’incirca duemila. Il responso dell’autore, tramite le parole dei suoi personaggi, risulta quanto meno facilone e inverosimile. Peccato. Cinematograficamente parlando, la memoria dei fatti presso la scuola Diaz meritava di più.