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venerdì 13 luglio 2012

Harry Potter e i doni della morte – Parte II






Un film di David Yates
Con Daniel Radcliffe, Emma Watson, Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Rupert Grint, Maggie Smith, Alan Rickman, Ralph Fiennes, John Hurt, Jim Broadment, David Thewlis
Durata: 130 min.
Genere: Fantasy, azione
Soggetto: J.K. Rowling (romanzo)
Sceneggiatura: Steve Kloves
Produzione: David Barron, David Heyman, J.K. Rowling
Casa di produzione: Warner Bros, Heyday Films
Fotografia: Eduardo Serra
Montaggio: Mark Day
Musiche: John Williams
Scenografia: Stuart Craig
Costumi: Jany Temime
Trucco: Amanda Burns, Mark Coulier, Katy Fray, Shaune Harrison, Beth John, Jenna Wyatt
Regno Unito 2011


di Chiara Roggino


Mentre i fan più agguerriti sgomitano all’apertura dei ‘cancelli’ virtuali di POTTERMORE, proseguono le gesta del mago più celebre d’Inghilterra. Con “Harry Potter and the Deathly Hallows: Part II” si chiude il cerchio del progetto su grande schermo ideato per seguire, dall’infanzia alla maturità, le orme dell’eroe partorito dall’immaginazione di un’instancabile levatrice: Katherine Rowling. L’avventura iniziò a concretarsi nel 2001, quando Chris Columbus fu chiamato a dirigere il primo capitolo della saga: “Harry Potter e la pietra filosofale”. Il progetto fu supervisionato dalla stessa Rowling che dettò legge intorno al casting e alla scelta dei ruoli principali. Gli attori, per una dittatura campanilista sui generis, dal primo all’ultimo, saranno tutti rigorosamente inglesi.
Avevamo lasciato un Voldemort esultante presso la tomba di Silente, novello padrone della bacchetta di sambuco. Così si concludeva il primo capitolo di “Harry Potter e i doni della morte”. Harry Potter, il prescelto, leader indiscusso della resistenza dei giovani ad Howgarts, dovrà affrontare se stesso, immolandosi per la salvezza del mondo magico. Al suo fianco Ron e Hermione, instancabili aiutanti, amici di sempre.
Nella lotta tra bene e male nulla è come sembra. Così lo spettatore non sarà testimone delle gesta di personaggi granitici, in positivo o in negativo. Davanti ai suoi occhi si dispiegheranno ampie zone grigie dove bene e male sono mescolati indissolubilmente.
Per l’ultima grande battaglia viene richiamato ad animare le truppe il britannicissimo David Yates . Se Yates fosse o meno in grado di portare a termine la sua missione, a quest’interrogativo che pressava colossi quali la Heyday Films e la Warner Bros, siamo riusciti a dare una risposta in questi ultimi mesi. Sì, Yates è riuscito nell’impresa. Il film c’è ed è un solido prodotto commerciale che non darà grattacapi per passività d’introiti nella guerra ai botteghini. 


 
In “Harry Potter e i doni della morte – parte II” nulla possiamo rimproverare alla confezione stilistica: la carta e il fiocco sono d’eccellente qualità.
Quello su cui ci preme insistere è la distanza che intercorre tra la dimensione visiva (ciò che cattura lo sguardo, per intenderci) e quella che concerne la narrazione pura.
Mai come in questi ultimi anni e soprattutto in seguito all’avvento del 3D, il cinema si è trasformato in luogo dove a spadroneggiare è la forza dell’immagine. I nostri sensi sono interamente catalizzati a catturar luci, forme, colori. E quando una scena si è conclusa siamo immediatamente proiettati nella successiva coll’eccitazione del bambino che si chiede “cosa accadrà adesso?”. Direttore della fotografia è il portoghese pluricandidato all’oscar Eduardo Serra. Il film si apre con una scena visivamente forte, pur senza abuso di effetti speciali. Schiere di alunni in uniforme scura marciano nella corte di Hogwarts: la prevaricazione del male e di Chi Non Può Essere Nominato non è che agli inizi. L’impatto visivo possiede un’efficace forza evocativa: nell’organizzazione della marcia dei giovani di Hogwarts non facciamo fatica a riconoscere la maniacale efficienza prodigata all’educazione giovanile ai tempi del Terzo Reich. Non sono uomini e donne, pur giovani, ma truppe di soldati che marciano seguendo gli ordini dei loro superiori. Serra riesce a concertare un’ atmosfera funebre su cui dominano toni scuri e grigi spenti. Più tardi, tetre sagome si staglieranno su sfondi cupi alternandosi ad inquadrature in cui filtri blu spadroneggiano sulla cromaticità dell’immagine creando fotogrammi d’atmosfere febbrili e inquietanti.
L’ultima battaglia vedrà i guerrieri di pietra protettori di Howgarts discendere dai piedistalli per passare all’azione. Quella concertata nella scuola di magia, assume i tratti di una resistenza partigiana contro l’orrore di un novello regime nazista, pronto a riproporre le nefandezze e i crimini di un secondo olocausto.
In una dimensione dominata dalla potenza dell’immagine, là dove lo strumento narrativo ( spesso debole, fiacco, smorzato da improbabili tagli di eventi e dialoghi necessari all’evoluzione della storia) è subalterno al fenomeno visivo, prende vita un coro di molteplici interpreti, attori di consolidata esperienza, alcuni, altri più giovani, più goffi e impacciati ( Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson).
Una su tutte è necessario ricordare la superba prova drammatica fornitaci da John Hurt, Olivander. Già nel primo capitolo, diretto da Columbus, Hurt riuscì a ritagliarsi ben più di una semplice apparizione all’interno di un film che faticava a prendere il volo. Un breve aggrottar di sopracciglia, una piega alla bocca, quella minimale seppur studiata gestualità, rendono Hurt-Olivander vivo e pulsante di vita agli occhi dello spettatore. Maggy Smith, con il suo temperamento tutto britannico, domina la scena, così Alan Rikman renderà credibili le incertezze e le sfaccettature che rendono la nera sagoma di Severus Piton ben più di un semplice simulacro di realtà. La sua maschera opaca incorniciata da untuosi capelli neri sarà in grado di sorprenderci, fino alla fine. Ugualmente non sentiamo di sprecarci in elogi esaltando l’impeccabile performance fornitaci da Jim Broadbent- Horace Lumacorno. Nelle rare pose che lo vedono protagonista l’attore, coadiuvato da un’infallibile talento espressivo, riuscirà a rendere palpabile l’angoscia della catastrofe imminente. I visi di questi grandi interpreti assurgono ad opere d’arte: quadri animati da una stupefacente forza narrativa.
Il discorso assumerà una piega diametralmente opposta accingendoci a valutare la prova di un Lord Voldemort non degno di assurgere a personificazione di signore del male, metà oscura del protagonista. Ore di trucco e un mascherone rettiliano non sono sufficienti ad incutere timore. Lo sa bene Ralph Fiennes che qui si prodiga in una recitazione affettata su toni soffiati, tutta sorrisi che vorrebbero apparire ghigni diabolici. Fiennes si dibatte, ma l’unica cosa che riesce ad offrirci è la risibile caricatura di un male non troppo spaventoso.



giovedì 12 luglio 2012

Marilyn







Un film di Simon Curtis
Con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Julia Ormond, Kenneth Branagh, Geraldine Somerville, Emma Watson, Judi Dench, Derek Jacobi
Titolo originale: My week with Marilyn
Genere: Commedia drammatica
Durata: 99 min.
Soggetto: Colin Clark
Sceneggiatura: Adrian Hodges
Produzione: David Parfitt
Produttore esecutivo: Bob Weinstein, Harvey Weinstein
Casa di produzione: The Weinstein Company, Lypsinc Productions, Trademark Films, Uk Film Council
Fotografia: Ben Smithard
Montaggio: Adam Recht
Scenografia: Donal Woods
Regno Unito 2011



di Chiara Roggino



Il giovane Clark, conseguita la laurea a Eton, decide di tentare l'avventura buttandosi a capofitto nel rutilante mondo dello spettacolo. Colin è la pecora nera della famiglia. Figlio dello storico d'arte di fama mondiale Kenneth Clark e fratello minore di un uomo politico, disattese le speranze di un genitore che avrebbe auspicato per il rampollo un futuro di alti incarichi nell'ambito di una professione 'patriarcale' tramandata da generazioni.
E' il 1957 e la Marilyn Monroe Productions (in collaborazione con la società cinematografica di Laurence Olivier) è in procinto di iniziare le riprese di un nuovo film: “Il principe e la ballerina”, tratto da una commedia di Terence Rattingam. A dirigere la pellicola, lo stesso Olivier. La testardaggine di Colin verrà premiata con la promozione a terzo assistente alla regia. Un'esperienza straordinaria per un sognatore incallito. Clark avrà modo di avvicinare e conoscere Marilyn, intrattenendo con la star hollywoodiana una breve relazione: una settimana soltanto. Abbastanza per innamorarsi della donna Norma Jeane, sufficiente per intuirne la disperazione, per tentare di salvarla da quella gabbia dorata che l'avrebbe condotta, anni dopo, alla morte. (sinossi)



Una donna in vestaglia raggomitolata a terra, in fondo alle scale: Norma Jeane Baker, per tutti Marilyn Monroe. Un blocco di appunti stretto tra le mani, lineamenti stravolti. Lacrime a solcarle il viso mentre un ragazzo magro la osserva in silenzio.
Il giovane è Colin Clark ( Eddie Redmayne) , allora ventitreenne, regista specializzato in film per il cinema e la televisione. Nel 1987 si ritirò dal mondo dello spettacolo per dedicarsi alla scrittura. Suoi due diari dal titolo “ The prince, the showgirl and me” e un libro di memorie “ My week with Marilyn”.

Simon Curtis, cinquant'anni, è uomo di teatro. I suoi esordi di carriera sono segnati da una stretta collaborazione in qualità di assistente alla regia presso il Royal Theatre di Londra. In seguito intrattiene un proficuo rapporto con la BBC, curando come produttore esecutivo più di cinquanta film che vedono in qualità di protagonisti numerose stelle del firmamento britannico: Alec Guinness, Kenneth Branagh, Maggie Smith, Ian McKellen, Judi Dench e Michael Gambon.
My week with Marilyn” (tratto dall'omonimo libro di Colin Clark), esordio alla regia sul grande schermo, assorbe e rivela pregi e difetti del teatro televisivo. Il film è assimilabile a una fiction di qualità media; unici punti di forza gli interpreti, tutti rigorosamente inglesi a esclusione della protagonista, Michelle Williams, giovane attrice americana.
Riportare in vita la donna-diva Monroe non è un'impresa da poco.
Il “mito Marilyn” fu un'operazione commerciale costruita ad hoc da parte di quella Hollywood Babilonia pronta a creare e distruggere feticci a proprio piacimento (“La tengono impasticcata. Temono che la loro mucca da mungere possa scomparire”).
Come ricreare sul grande schermo il volto e la leggenda di un'icona irripetibile? Scritturare una sosia non sarebbe stato sufficiente.
Curtis intraprende la ricerca di un'attrice di talento, quell'attrice che possieda il quid necessario per rendere palpabile e vera l'immagine di una donna sola, travagliata, estremamente insicura. Mai Norma Jeane Baker, solo Marilyn. “Non si può lasciare Marilyn da sola. Non ce la fa. E' convinta che prima o poi tutti l'abbandoneranno”.
La Williams, pur non rispecchiando i canoni estetici della diva che fu, offre una prova d'attrice più che convincente: misurata, mai sopra le righe.
Il suo sguardo perso nel vuoto è la disperazione di una donna che desidera una cosa soltanto: essere amata come un qualsiasi essere umano (“Chiedo solo di essere amata come una qualunque”).
Se a cinquant'anni Olivier rappresentava la tradizione britannica sul viale del tramonto, Marilyn, a trenta, incarnava lo spirito della nuova America: uno scontro culturale tra due icone.
Olivier ( uno splendido Kenneth Branagh) era una prima donna. Dalla sua una recitazione esteriore ed istrionica. Sapeva come incantare il suo pubblico e ottenere quel che voleva. Se questo si realizzava sulle tavole del palcoscenico, altra cosa avveniva nella vita reale. Lontano dai riflettori l'attore era l'ombra di se stesso.
Alla fine degli anni cinquanta Marilyn è devota discepola del metodo Strasberg. Era evidente che la sua inquietudine d'attrice fosse alla ricerca non di un insegnamento specifico, ma dell'insegnamento in quanto tale. Tra la diva Monroe e Strasberg si instaura così un rapporto di dipendenza e sudditanza. Paula Strasberg (Geraldine Somerville), moglie di Lee e sua actor coach, rappresentava l'urgenza di avere costantemente a fianco una figura di riferimento, un “guru” protettivo che la rassicurasse sulle proprie doti di performer. Secondo Paula il compito di un'attrice era quello di “trovare nel proprio passato un'esperienza simile per ricreare la giusta emozione”. Cercare a tutti i costi la verità dell'emozione. Se il prezzo da pagare era la follia o una recitazione in cui non sussisteva distanza tra attore e personaggio, poco importava. Olivier non potrà fare a meno di manifestarsi contrariato (“Stanislavskij e il Metodo vanno bene per le prove, ma non sono adatti per questo film. I tempi sono troppo stretti”).
I continui ritardi sul set della diva americana faranno andare il regista su tutte le furie. Ma alla fine, nonostante i numerosi litigi che rallenteranno la lavorazione di un film difficile da condurre a termine, l'attore dovrà riconoscere la grandezza di Marilyn. “Nessuna preparazione, né studio. Nessun trucco, tutto puro istinto. E' stupefacente. Probabilmente è questo che la rende così magnifica e così profondamente infelice. Ho fatto del mio meglio per cambiarla. Ma lei è rimasta favolosa nonostante me”.