venerdì 7 dicembre 2012

Il servo di scena - The dresser










Un film di Peter Yates
Titolo originale: The dresser
Con Albert Finney, Tom Courtney, Edward Fox, Eileeen Atkins, Zena Walker
Genere: drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Ronald Hardwood
Sceneggiatura: Ronald Hardwood, Peter Yates
Fotografia: Kelvin Pike
Montaggio: Ray Lovejoy
Musiche: James Horner
Scenografia: Stephen B. Grimes, Colin Grimes, Josie McAvin
Regno Unito 1983


di Chiara Roggino



Carmen la sarta mi spoglia, mi striglia,
mi infila il manto, mi calza il cappello,
mi spinge in scena, passa l'intervallo
ad asciugarmi e cambiarmi la maglia.

Torno sul palco, esalo la parte,
mi succhia il ruolo, riesco consunto,
e lei mi sveste del manto trapunto,
la calzamaglia mi sfila con arte.

Poggia i panni sul muro in sartoria,
dice: “A domani”, non a me, al Personaggio.
Io sbuco in strada di sottopassaggio:
un uomo vuoto che non si sa chi sia”.

Vittorio Gassman



Solo la maschera”. Il camerino e la sua nicchia protetta. Al suo interno, sera dopo sera, replica dopo replica, prende vita l'estrema spersonalizzazione: il sé di ogni giorno perde corpo e sostanza a sostenere la nascita di un essere nuovo. Necessario è spogliarsi degli abiti ordinari, portati a spasso per via, alla luce del sole, per coprirsi di nuove vesti sì che la linfa vitale del personaggio penetri poco a poco nelle membra. Successivamente, il rito del trucco. Il volto e le mani. Quest'ultime, lentamente, scrupolosamente, dipingono i lineamenti, uno ad uno. In tal modo soltanto la trasformazione può adempiersi sì da concedere all'attore il privilegio di calcare passo passo le assi di scena.
Un uomo abbigliato di sola veste da camera è ora seduto davanti allo specchio. Il viso segnato dagli anni e dalla fatica di interminabili tournées: avanti e indietro senza un attimo di sosta perché “un attore deve essere pronto a sacrificare ogni cosa”. Lo osserviamo mentre, sgomento, tenta di raccapezzarsi rovistando maldestramente tra colla e ceroni di varia cromatura distribuiti in bella vista sul tavolo. Da dove iniziare? “Questa è la duecentoventisettesima replica di Re Lear e io non mi ricordo le prime battute”. Ma Sir, antico leone, mattatore indiscusso del teatro shakesperiano, non ha perso le battute soltanto. A mancargli sono ora i fondamentali. Come indossare la maschera? Da dove iniziare? Quale colore impugnare per accingersi alla trasfigurazione del volto? Fortuna vuole che in certi casi ci sia sempre qualcuno pronto a correre in soccorso per riparare l'irreparabile. Così sarà Norman, servo di scena, balia e terapeuta mancato a prestare aiuto al suo padrone.





Classe 1929, il cineasta e produttore britannico Peter Yates è prima di ogni altra cosa uomo di teatro. Diplomatosi all'Accademia d'Arte Drammatica, tra 1948 e il 1962 opera presso alcune compagnie di prosa. I suoi esordi, all'inizio degli anni sessanta, sono strettamente legati alla realtà di palcoscenico. Successiva la decisione di cimentarsi nella settima arte. Una filmografia, la sua, per un accumulo complessivo di ventidue pellicole, poche degne di memoria. Yates, regista della grazia, mancato nel 2011 all'età di ottantun anni, passerà ai posteri quale autore di Bullit (1968), poliziesco tratto dall'opera letteraria di Robert Pike, pellicola incentrata attorno alla figura di un tenente della squadra omicidi di San Francisco (Steve McQueen). Pochi sono coloro che si rammentano di un piccolo film, gioiello d'inestimabile valore datato 1983. Eppure Il servo di scena ( The dresser) rientra a diritto nell'opera omnia del cineasta britannico. Un film per un ritorno a casa. The dresser affonda le sue radici nella nostalgia legata ad un mondo effimero, fedele a chi lo popola, incostante come l'aria. Habitat strutturato di tre pareti tra quinte brulicanti tecnici e direttori di scena, ferma dimora di un personaggio incomprensibile, stravagante, solo: l'attore. Lo screenplay è allestito a quattro mani, tra Yates e Ronald Hardwood. E' quest'ultimo a gettare le basi per la sceneggiatura del film: una trama che avanza passo passo , pagina dopo pagina, sulle righe della sua omonima commedia. Nato a Città Del Capo nel 1951, a diciassette anni si trasferisce in quel di Londra arrabattandosi in ogni modo pur di divenire attore. Presto inizierà un lungo apprendistato: assistente a servizio dell'istrione Sir Donald Wolfit. Dopo una lunga esperienza sulle tavole di palcoscenico si dedicherà alla stesura di opere teatrali.
Per apprestarci ad un'analisi accurata dell'opera di Yates è essenziale sgomitolare la matassa a partire da un nodo cruciale: il titolo. Chi è the dresser (alla lettera, colui che veste l'attore)? Masolino D'Amico, nel tradurre in italiano l'opera di Hardwood, volse il sostantivo originale a servo di scena. Per i francesi the dresser è L'Habilleur, per gli spagnoli Las ombra del actor ( forse, pensando all'opera nel suo complesso e ai suoi molteplici significati, la più efficace tra le traduzioni). Fatto sta che il the dresser di Yates è nient'altro che un uomo, Norman (Tom Courtney), omosessuale dall'oscuro passato: dei suoi precedenti prima dell'arruolamento presso la compagnia shakespeariana diretta da Sir nulla sappiamo. E' un servitore, un tuttofare, l'altra metà, impacciata e affidabile al tempo stesso, di un imponente istrione dai modi burberi e dispotici ( lampante il riferimento autobiografico di Hardwood in merito all'esperienza di balia tuttofare comandata a bacchetta da Sir Wolfit).





Seconda guerra mondiale. Se Londra è straziata da bombardamenti incessanti,una compagnia shakespeariana itinerante persevera nel rappresentare le opere del Bardo: teatro dopo teatro, provincia dopo provincia. Il suo giocatore di punta è un capitano sui generis, istrione e prima donna d'ingombrante personalità: Sir (Albert Finney). Yates affresca le prime pagine della storia immergendo lo spettatore in quell'utero protetto denso di sogni atto a smemorare il pubblico in sala dalla cruda realtà del mondo esterno: il teatro e i suoi abitanti, gli attori. Fugace ripresa del pubblico accomodato nei palchi laterali, rapido stacco di montaggio-ponte funzionale a condurre lo sguardo sul campo di battaglia: l'ultima scena, le ultime battute di Otello. Il quadro non è ripreso frontalmente, l'angolazione è nettamente laterale. Il cineasta regala così una realtà spiata da dietro le quinte. In un angolo, celato all'occhio dello spettatore, il fedele Norman, bicchiere di brandy tra le mani, attende paziente. Il servo di scena è pronto a confortare l'esausto capocomico a rappresentazione ultimata. Consumate le ultime battute, palcoscenico protetto al calar di sipario, Sir non tarda a manifestare il suo temperamento burbero e intollerante. Rimbrotti ed aspri rimproveri vengono distribuiti a piene mani agli attori della compagnia, nessuno escluso.
Il giorno successivo la troupe è in viaggio verso un nuovo approdo e un nuovo spettacolo. Meta: il teatro Alhambra di Bradford, prima rappresentazione: King Lear. Subito si manifestano i primi imprevisti. Sir, antica gloria del teatro anglosassone, è un vecchio attore sulla via del tramonto. L'uomo lotta e sopravvive, rappresentazione dopo rappresentazione, beandosi di fama riflessa. Le sue performances sono ormai il vago ricordo di quelle di un tempo sì che l'interprete, onde mantenere intatto un certo grado di autorità, rimedia maldestramente alle proprie lacune spingendo esageratamente di diaframma tra birignao e intonazioni svizzere ed altisonanti. All'approssimarsi della rappresentazione King Lear l'attore è ormai esaurito, incapace di dar vita alla follia del sovrano-creatura del grande Shakespeare. Ricoverato in ospedale , si dimetterà, ostinato a portare a termine la sua ultima fatica. Lo spettacolo avrà seguito solo grazie al sostegno terapeutico dell'assistente di vecchia data, il tuttofare Norman. L'uomo, a servizio presso Sir da anni, conosce a memoria i pregi e gli innumerevoli difetti dell'irritabile datore di lavoro. Sa come adularlo per infondergli quel briciolo di forza necessaria a calcare ancora le scene. Ma il servitore ignora o non vuole vedere. Il suo padrone è irrimediabilmente affetto da demenza senile, incapace del tutto di distinguere fantasia e realtà, imprigionato tra miriadi di personaggi portati in scena nel corso degli anni. Così come Lear, Sir ha perduto il senno. Solo nei rari momenti di lucidità irrompe in lui, nitida, la consapevolezza di non poter dare più nulla al mondo del teatro. Del tutto sfinito, l'uomo desidererebbe una tranquilla vecchiaia.





Albert Finney si trasforma in una delle migliori performance della sua carriera. L'esistenza di Sir rispecchia in parallelo la tragica vita di Lear, l'egocentrico monarca che si isola con il suo orgoglio e le sue richieste arbitrarie. Come Lear, Finney realizza tardi che la vita, così come la vecchiaia, è traboccante di dolore. Ma lo spettacolo deve andare avanti ed è Norman soltanto a infondergli il coraggio di perseverare. Norman, servo di scena, vassallo, si fa in quattro per Sir: aiutandolo nell'indossare le vesti di scena temprandolo contro la paura del pubblico e l'angoscia del fallimento. Egli è come il giullare di Lear: attento uditore e consulente di prima categoria, mette in guardia il suo padrone, talvolta provocandone l'ira. Sir ha bisogno di Norman e Norman ha bisogno di Sir: un rapporto biunivoco per un reciproco rispecchiamento di caratteri.
Alla resa dei conti, The dresser è una gara di bravura tra due giganti delle scene. E se Finney, pur non avendo mai rappresentato il suo personaggio nei teatri, sbalordisce per l'umana fragilità di un'interpretazione pulsante vita, Tom Courtney ( dopo aver ricoperto il ruolo di Norman nel West End e a Brodway) è altrettanto brillante nella parte del maggiordomo gay la cui devozione a Sir è così completa da cancellare la propria personalità.




sabato 10 novembre 2012

Amour








Un film di Michael Haneke
Con Jean-Louis Trintignant, Emanuelle Riva, Isabelle Huppert
Genere: Drammatico
Soggetto: Michael Haneke
Sceneggiatura: Michael Haneke
Produzione: Stefan Arndt, Margaret Ménégoz, Veit Heiduschka (co-produttore), Michael Katz (co-produttore)
Casa di produzione: Les Films du Losange, X-Filme Creatve Pool, Wega Film
Fotografia: Darius Khondji
Montaggio: Nadine Muse, Monika Willi
Scenografia: Jean-Vincent Puzos
Costumi: Céline Collobert

di Chiara Roggino


Salotto di un'ampia dimora borghese. Georges, uomo sull'ottantina, siede alla poltrona. Quasi ipnotizzato, osserva il pianoforte a mezzacoda presente nella stanza. Innanzi allo strumento, Anne: compagna per la vita, musicista, alla pari del marito. Elegante figura, sfiora i tasti bianco e neri a evocare note familiari di un improvviso schubertiano. Le pagine dello spartito s'involano, sfogliandosi una dopo l'altra, leste, senza pause: un preludio che vorrebbe sovvertire le leggi del tempo, costretto suo malgrado a chinare il capo innanzi alle regole della fuga. I giorni si susseguono per lasciar posto agli anni anche per una coppia accordata alla perfezione. Ora una vecchia bambina riposa mollemente su un guanciale di petali. A turbare la sua quiete, polizia e vigili del fuoco: indagano gli interni domestici, ipotizzano eventi alla ricerca del perché e del per come.
Il regista austriaco Michael Haneke è senz'altro il capo procuratore dei peccati dell'uomo moderno. La sua rappresentazione della disumanità insita in personaggi apparentemente intoccabili nella loro masquerade di civiltà ha sollevato strepiti al suono di parole aspre tali “sadismo cinematografico”. Nessuno, tuttavia, potrà contestare quella padronanza nel dirigere le scene di moderni psicodrammi tali La pianista (2001) e Caché (2005) fino all'epico Il nastro bianco (2009), pellicola che ritrae il collettivo senso di colpa in una città tedesca vent'anni anni prima della nascita di Hitler.
Amour ( Palma d'Oro al Festival di Cannes 2012) può constare di numerose pietre di paragone-retroterra dell'opera del cineasta: stile visivo austero e maestoso, una coppia al centro della storia, un ambiente chiuso al limite della claustrofobia che non consente via di fuga ai personaggi e ai loro demoni.
Georges (Jean-Louis Trintignant) e Anne (Emmanuelle Riva), sono una coppia ottuagenaria: insegnanti di musica in pensione. La prima scena del film li ritrae sperduti tra il pubblico in una grande sala. Haneke usufruisce di un piano fisso per cui spetterà all'occhio vigile dello spettatore farsi strada fra le tante e tante e tante facce per rintracciare i protagonisti. Sarà sufficiente un briciolo d'attenzione per vederli parlottare, seduti in terza fila, ansiosi di assistere al concerto di un allievo d'antica data di Anne. Di rientro a casa, la coppia si accorge di un tentato furto ai danni dell'appartamento. La serratura è stata evidentemente forzata. Quasi un presagio del poi, qualcuno o qualcosa ha cercato di introdursi nel nido protetto per guastarne la placidità, portando scompiglio. Da quel momento nulla sarà come prima. I segni di un silenzioso malessere si insidiano nelle membra di Anne sì da causarle prima una paresi al lato destro del corpo, poi la totale immobilità per una non vita di indifesa fanciullezza, d'impotente afasia. La donna diverrà peso morto, crisalide di dolore aggrappata a un letto.
Non solo le rughe dell'età, ma sgomento e paura incidono ora il volto di Trintignant: la persona che amava e ama sta iniziando a svanire davanti ai suoi occhi. Dopo aver promesso ad Anne di non riportarla mai più in ospedale, Georges è sottoposto alla crescente responsabilità di prendersi cura di lei personalmente. E tuttavia le scene più angoscianti del film sono le prime: piccoli indizi che Haneke sparge per via a inizio pellicola. Qualcosa non va. Anne si sveglia nel cuore della notte fissando il vuoto, attonita. Successivamente ella garantisce al marito che nulla è accaduto. E' lei a rassicurarlo: tutto va bene, l'uomo può tranquillamente scacciare i cattivi pensieri. Ma la mattina dopo, a colazione, la donna cambierà forma, assumendo le fattezze d'immobile simulacro. Quasi una statua, il suo bel volto mite riporterà i segni di una serenità mortuaria.




Da allora la casa sarà barricata, luogo d'assedio tra vita e morte. In tal modo le preoccupazioni degli altri (amici e parenti stretti) saranno mal accette e percepite come prive di significato.
Con il coraggio di chi teme di perdere il più prezioso dei beni, Georges si troverà suo malgrado solista di una danza macabra al fine di strappare Anne dalle tenebre per riabbracciarla così come era un tempo. Ma la luce della donna amata sta iniziando a svanire.
Haneke ci pone innanzi a quesiti di forse inarrivabile risposta. Cos'è l'amore e cosa accade quando la metà di una coppia si ritrova sola e spezzata? C'è un modo per far fronte a tutto questo? La vita è sempre degna di essere vissuta? Una luce invernale mescolata ad una palpabile sensazione di semioscurità pervade l'intera pellicola. Il dramma da camera si snoda tranquillamente sotto nuvole grigie. Non c'è tempesta, solo cambiamenti graduali: un giorno, una settimana, un mese, quello successivo. L'appartamento è altresì teatro per le storie dei protagonisti. In esso convivono passato, presente e futuro. In Haneke il mito della morte esplode con la violenza di un evento pubblico: qualcosa da condividere, attorno a cui radunarsi per partecipare di lacrime e agonia. L'autore affronta la realtà della malattia, ma la sua missione non è soltanto quella di mettere in mostra un ritratto realistico della fine (anche se questo fa parte del processo). Più di questo, egli brama esplorare le emozioni e gli istinti della coppia: l'orgoglio, la disperazione, la perdita imminente, l'empatia e i suoi limiti. Ci sono emozioni forti in gioco, ma anche un pragmatismo intenso. Georges ha fatto una promessa ad Anne (“Per favore non riportarmi in ospedale...Prometti...Promettimelo.”). Tra i suoi tanti significati e molteplici chiavi di lettura, Amour è anche un film sulla fedeltà e sulla forza di mantenere la parola data fino alla fine. 



 



mercoledì 24 ottobre 2012

Sleuth ( Gli insospettabili) - ll secondo articolo della nuova rubrica di CineClandestino sul punto d'incontro tra cinema e teatro rilegge per voi i due "Sleuth": l'originale "Gli insospettabili" di Joseph L. Mankiewicz del 1972 ed il remake diretto nel 2007 da Kenneth Branagh. Con Michael Caine a fare da trait d'union tra due epoche cinematografiche molto differenti













Titolo italiano: Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 1972
Durata: 138'
Regia: Joseph L. Mankiewicz
Interpreti: Laurence Olivier, Michael Caine, Alec Cawthorne
Fotografia: Oswald Morris
Montaggio: Richard Marden
Scenografia: Ken Adam
Colonna sonora: John Addison

Titolo italiano: Sleuth - Gli insospettabili
Titolo originale: Sleuth
Paese/anno: USA, UK / 2007
Durata: 86'
Regia: Kenneth Branagh
Interpreti: Michael Caine, Jude Law
Fotografia: Haris Zambarloukos
Montaggio: Neil Farrell
Scenografia: Tim Harvey
Colonna sonora: Patrick Doyle


di Chiara Roggino


Un'ombra a lato del proscenio. Sagoma buia, ne intravediamo appena le fattezze. Un uomo con cappello: detective St. John Lord Merridew. E ancora miniature, una dopo l'altra, microplastici di scenografie incorniciate da pesanti drappi,sipari scarlatti a spalancarsi sulle mirabolanti imprese del protagonista originato dalla fantasia di Andrew Wyke, scrittore di gialli rigorosamente ambientati in "location" aristocratiche (poiché “Il romanzo giallo è la ricreazione congegnale alle menti nobili”). E infine un trompe l'œil : la tela si solleva su uno scenario vivo, una villa immersa nella verde campagna inglese. E' sufficiente un rapido zoom per accostarci all'edificio e assistere all'incipit del “gioco”, sfiorando le mura, muovendosi fianco a fianco insieme al nuovo arrivato. Un certo Milo Tindle, si dice, parrucchiere per signora.





Un lento piano sequenza dall'alto ne segue i passi attraverso l'intricato labirinto di siepi. A guidarlo una voce in lontananza, stentorea, altisonante. Si suppone quella del padrone di casa.
Buio. Quindici anni dopo, un nuovo pubblico davanti al grande schermo. In principio è il ticchettio dei tasti di un computer: un complesso sistema di sorveglianza elettronica. Lo spettatore è così scaraventato a forza all'interno di un'esperienza metacinematografica sotto ogni aspetto: cinema nel cinema. Al di là dello schermo del vigile apparato di sicurezza prende vita un nuovo film. L'immagine ora è decolorata. Una macchina parcheggia davanti a un lussuoso maniero. Solo un braccio sporge dalla porta principale della magione. Quello del padrone di casa, si suppone. Il nuovo arrivato si presenta come Milo Tindle: attore disoccupato di professione, chaffeur part-time.





Sleuth (Gli insospettabili, 1972), ultima pellicola del cineasta Joseph L. Mankiewicz (Schiavo del passato, Eva contro Eva, Improvvisamente l'estate scorsa) è il fedele adattamento della pièce teatrale composta da Antony Shaffer, il quale per l'occasione operò in veste di sceneggiatore. Protagonisti d'eccezione Laurence Olivier e Michael Caine. Nel 2007 il britannicissimo Kenneth Branagh realizza (su sceneggiatura di Harold Pinter) un rifacimento della pellicola là dove lo stesso Caine ricoprirà il carattere allora interpretato da Olivier e Jude Law quello del giovane antagonista incarnato sul grande schermo dall'attore londinese. I ruoli si invertono, gli scenari mutano aspetto, le storie si aggrovigliano prendendo pieghe inaspettate, fino agli antipodi.




 
Fu Shaffer a dichiarare quanto la commedia avesse tratto in parte ispirazione da uno dei suoi più cari amici, Stephen Sondheim, il cui morboso interesse per i giochi e i divertissements rifletteva in parte il carattere dell'eccentrico Andrew Wike. La prima rappresentazione del dramma, interpretata da Anthony Quayle e Keith Baxter, debuttò al teatro Saint Martin di Londra.
Parlando con Mel Gussow del New York Times nel novembre del 1970, Shaffer dirà : "
I gialli di Agata Christie sono ormai anticaglia. Essi presentano il misterioso simulacro di un'Inghilterra defunta trent'anni or sono, una società fortemente strutturata per divisione in classi. La vittima, l'assassino e il detective erano tutti signori o signore dell'alta nobiltà". Continua a spiegare: "Il mistero ha bisogno di una nuova mano di vernice fresca per dare nuovo smalto a qualsivoglia intreccio di genere. Servono nuove idee. Sono perfettamente cosciente che esse potrebbero originare da un processo creativo di complessa e difficile attuazione”.
Discorrendo di sceneggiatori d'alta levatura, tra Aaron Sorkin, David Mamet e Ben Hecht, Antony Shaffer rientrerebbe a pieno diritto all'interno del mazzo. Se amate dialoghi incalzanti al limite della perfezione il prossimo film a cui dare la caccia è certamente
Sleuth ( Mankiewicz). Il set è la storia di un gioco a due, trastullo offensivo sfaccettato tra travestimenti e scambi di ruolo là dove il più forte prende il posto del più debole e viceversa. Lo spettatore riconoscerà subitamente l'ossessione per i travestimenti e le sciarade, peculiarità del personaggio Andrew Wykes (Olivier). I dettagli sparsi per la nobile magione non sono certo irrilevanti.
A partire dal grottesco Jack Molina, automa ad altezza umana di marinaio ubriacone in grado di ridere a comando, se sollecitato da un pulsante, l'occhio del pubblico potrà spaziare aggirandosi in libertà tra bambole che suonano il piano, bambole che danzano adornate di ghirlande floreali, statuette di mandarini che sorseggiano il the. Allo stesso modo anche il gusto arcaico per la musica d'altri tempi (Cole Porter in particolare) lascia subodorare l'ombra di un personaggio doppio, costretto a giocare un ruolo nella vita, sempre il medesimo, fino all'irreversibile finale.
Il gioco è peculiarità per una costante lotta al potere. Chi lo detiene, chi domina e chi ne è succube? Inizialmente sembra che Wike abbia Tindle in pugno, tanto da trasformare il giovane
latin lover in buffone con le carte in regola: Joy, clown calzato e vestito. Milo, viveur quasi libero dalla vergogna derivante da umili origini nonché da un pesante fallimento economico familiare, finisce per ritrovarsi, a suo modo, nelle vesti di un ladruncolo da quattro soldi. Se Laurence Olivier fu "materiale" di prima scelta per il ruolo del celebre autore di gialli Andrew Wyke, Michael Caine non fu il primo candidato per il parvenu Milo Tindle. Albert Finney fu precedentemente preso in considerazione per essere successivamente respinto (alcuni dicono perché in sovrappeso). Caine fu inizialmente intimidito al pensiero di lavorare con Olivier tanto da non sapere come rivolgersi al Sir del teatro anglosassone. Ma i due divennero presto amici, instaurando sul set un ottimo rapporto consequenziale ad un altrettanto strepitoso affiatamento tra performers.
Internamente ad un percorso critico che intenda mettere a confronto due pellicole di uguale origine ma di differente matrice (Mankiewicz da una parte, Branagh dall'altra) il gioco si fa duro. Apprestandoci ad un'analisi filmica che accosti due opere tanto diverse, semplificheremo l'approccio sfaccettato tra divergenze e punti in comune attraverso l'utilizzo di tre cardini ad assumere la fisionomia di tre parole chiave: luogo (qual è l'ambientazione del film?), caratteri e intreccio.
Mankiewicz ambienta le vicende dei suoi protagonisti all'interno di una villa padronale là dove dialoghi e azione avverranno quasi interamente entro le pareti domestiche: un salone arredato da bizzarre chincaglierie (automi, pupazzi, souvenirs d'ogni genere e provenienza), una scala che conduce al piano superiore, la camera da letto di Margherita (donna contesa dai due duellanti). La location è congegnale al dipanarsi della storia. Gli stravaganti arredi interni al maniero sono lo specchio fedele della psicologia-visione del mondo del giocatore Wike (personaggio rappresentato d'innumerevoli fratture-scarti caratteriali, puzzle carente di tasselli, rompicapo d'altri tempi, incarnazione perfetta di quella nobiltà compiaciuta di sé, sprezzante della
middle class e di tutti i suoi membri, indistintamente).
Da canto suo Branagh allestisce come sfondo alla lotta tra Caine e Law un'altrettanto nobile dimora, arredata alla foggia di un immenso salone di bizzarra arte contemporanea.
Tromps l'oeils ancora in bella vista, un ascensore al centro della scena, complessi apparati di luci al neon attivabili tramite telecomando: emananti talora luce fredda, glaciale, talora spunto per una fotografia in cui predominano filtri blu, adatti ad accrescere l'atmosfera del gioco.
Sir Laurence Olivier è perfettamente a suo agio nelle vesti del celebre e spocchioso scrittore di gialli. Fin dalle prime inquadrature lo vedremo camminare avanti e indietro con passo austero e nobile cipiglio: l'uomo e l'artista simulano il monologo finale del detective St. John Lord Merridew. Il divo del teatro shakespeariano non potrebbe essere più a suo agio. La voce risuona stentorea mentre ampi gesti accompagnano la declamazione del fatale verdetto. Da parte sua Caine, internamente al percorso filmico allestito da Branagh, sguazzerà come un pesce nell'acqua.





Già nel 1972, diretto da Mankiewicz, egli affermerà di prediligere , tra i due, il carattere affidato a Olivier. Una recitazione, la sua, al limite della gigioneria e della "macchietta", pur efficace a suo modo, specie nella prima parte del film. Per quel che concerne il personaggio-Milo, Caine e Law non potrebbero essere più diversi tra loro.
Se il primo si presenta come uomo di bassa estrazione, gentleman ripulito a dovere vestito alla moda, sorriso sornione stampato sulle labbra, Law, da parte sua non sarà più un coiffeur per signora (anche se Wike non farà che sminuirlo definendolo spregevolmente più e più volte “parrucchiere”), ma un attore, disoccupato sì, ma pur sempre un attore.
Ma Mankiewicz ha dalla sua un asso vincente. Shaffer, autore della commedia, curerà la sceneggiatura del film dalla prima all'ultima battuta. Un finale perfetto per una perfetta chiusura del cerchio quella dell'originale Sleuth. I giocatori si scambiano di ruolo fino all'inevitabile, spietato the end. Se nella prima parte della pellicola Branagh allestisce un esercizio di stile affascinante con vette d'alto convincimento, internamente alla seconda metà del gioco il mazzo di carte gli cade di mano. Re e regine, assi e bastoni si sparpagliano a terra sì che il film comincia a perdere colpi. Perché non rispettare la sceneggiatura della pièce di Shaffer? L'autore procede a casaccio, a briglia sciolta, venendo a strutturare situazioni narrative di scarsa se non nulla efficacia. Così sarà ridicolo l'approccio pseudo omosessuale dello scrittore di gialli nei confronti del giovane attore. La situazione si presenterà al limite del grottesco, attaccata maldestramente al resto delle pellicola con un nastro adesivo di scarsa tenuta. Allo stesso modo, il finale concepito da Branagh con l'ausilio del povero Pinter sarà una conclusione del tutto casuale, messa in piedi su basi inconsistenti. Un retrogusto amaro rimarrà in bocca allo spettatore, cosciente di aver assistito a una chiusura di sipario tirata per i capelli, messa in scena senza un concreto perché.










venerdì 12 ottobre 2012

Monsieur Lazhar








Un film di Philippe Falrdeau
Con Fellag, Sophie Nélisse, Danielle Poulx, Jules Philippe. Emilien Néron
Titolo originale: Bachir Lazhar
Genere: drammatico
Durata: 94 min.
Sceneggiatura: Philippe Falardeau
Produttore: Luc Déry, Kim McCraw
Casa di produzione: Microscope Productions, Les Films Seville Pictures
Montaggio: Stefan Lafleur
Musiche: Martin Léon
Canada 2012


di Chiara Roggino


La musica di Martin Léon scivola lenta sui titoli di testa mentre un rullo di pittura color azzurro pallido ricopre a nuovo le pareti dell’aula scolastica. E’ qui che Martine Lachance si è tolta la vita, è qui che ella ha forse voluto comunicare “un messaggio violento”. “Ma non si può punire Martine Lachance perché Martine Lachance è morta”.





Philippe Falardeau e Monsieur Lazhar mettono davanti allo specchio l’infanzia e la cruda realtà di una prematura dipartita cercata e voluta tramite un atto di mera disperazione. E’ qui che interverrà il neo-maestro di scuola Bachir: un uomo tra i tanti, un “diverso”, rifugiato politico da terra algerina. Ad Algeri “La blanche” egli ha perso quanto più amava: la moglie e le due figlie. “Crisalidi” inermi prenderanno fuoco in un attentato terroristico. L’uomo, ex funzionario, poi proprietario di un ristorante, è solo in terra straniera: un’algida Montreal, coperta da una spessa coltre di neve. Lazhar (uno straordinario Fellag), uomo d’estrema cultura, si improvviserà insegnante per raccogliere l’eredità della moglie, per ritrovare nella fragilità dei suoi allievi la tenerezza delle figlie strappategli via con la forza.
Il pluripremiato Philippe Falardeau è stato recentemente incluso da Variety 2012 all’interno della lista dei 10 cineasti da tenere d’occhio. Noto per “La moitié gauche du frigo”, “Congorama”, e “C’est pas moi, je le jure!”, il suo quarto lungometraggio, Monsieur Lazhar ( candidato all’oscar 2011 quale miglior pellicola straniera), è un adattamento dalla pièce teatrale “Bachir Lazhar” scritta da Évelyne de la Chenelière. Dice Falardeau: “Sono stato toccato dal protagonista. Ho pensato che fosse un personaggio ricco e che avrebbe potuto essere abbastanza ricco per un film. Mi interessava la questione riguardante l’immigrazione e volevo utilizzarla internamente al percorso filmico. Non necessariamente per parlare di immigrati, anche se avrei voluto farlo, ma per raccontare noi stessi attraverso gli occhi di un immigrato. Il film si svolge in una scuola e discorre un po’ su chi siamo e dove siamo, ma attraverso gli occhi di qualcuno che ha origini diverse”.





Il cineasta franco-canadese scrive una sceneggiatura a partire da zero mettendo in atto un investimento creativo non sottovalutabile. Internamente all’allestimento filmico si viene a trovare vis à vis con un protagonista, un carattere forte. Il momento della creazione si dipana attorno a lui. C’è bisogno di tensione drammatica per sostenere l’interesse del pubblico. L’allievo protagonista di Monsieur Lazhar ( Simon) è totalmente assente dallo spettacolo teatrale pertanto il rapporto che ha intrecciato con l’ex insegnante e il suo successivo senso di colpa non fanno parte della messa in scena teatrale. Falardeau aggiunge così personaggi e situazioni accanto al personaggio principale.
Da quanto si vede nella pellicola in Canada un insegnante di scuola muore e un uomo qualunque si presenta dicendo: “Io posso insegnare” e viene assunto all’istante. Nel sistema educativo privato e nelle scuole private il “principale” è praticamente un dittatore. Egli può assumere chiunque gli aggradi. Naturalmente la preside compie un errore madornale. Ma se non lo avesse fatto non avremmo avuto alcuna storia. Monsieur Lazhar dice la verità al funzionario dell’immigrazione e al tempo stesso insegna “abusivamente” in una scuola. E lo fa per buone ragioni. Egli sa di poter aiutare i “suoi” bambini, ma ha anche un bisogno intimo, fisico, di trovarsi in quel determinato luogo. E’ un insegnante “accidentale”. E’ triste che alla fine non possa rimanere nella scuola, ma al tempo stesso il personaggio non è stato concepito per essere un insegnante per il resto della sua vita. In quel particolare momento egli rappresentava la persona giusta al momento giusto.
In qualsiasi luogo si abbia a che fare con numerosi enti sociali ( i genitori, il Ministero della Pubblica Istruzione, consiglio scolastico, insegnanti) si ha la necessità di un numero infinito di regole. Si cerca di prevedere tutto quel che può accadere e tutto diviene estremamente rigido. La preside e gli altri insegnanti non vogliono parlare della morte perché non vogliono sopraffare i bambini. Cosa che è già accaduta. Si ha anche questa esigenza: utilizzare specialisti per tutto, invece di usufruire della persona che è lì ogni giorno con loro, l’insegnante, per parlare di morte e suicidio. Nel film è la psicologa ad entrare in aula e a mettere da parte Lazhar nonostante il maestro non creda sia una buona idea. L’uomo ritiene che dovrebbe spettare a lui soltanto il compito di discutere con i bambini. E’ questione di fiducia nel potere delle parole e della comunicazione.




La fine del film è la correzione di una favola. Questo sarà il modo di Lazhar per dire addio alla classe. Attraverso un nuovo atto di insegnamento e comunicazione egli potrà accomiatarsi. Allora la piccola Alice deciderà spontaneamente di tornare in classe. La bimba ha bisogno di un abbraccio, vuole un abbraccio: lei lo chiede e Bachir contraccambia. Il gesto appare quasi un atto di ribellione: recarsi in un luogo e trasgredire un tabù, fare ciò per cui tutto ha avuto inizio. E’ stato presumibilmente un abbraccio a dare il via al dramma : un abbraccio tra Simon e la sua insegnante.
Dice Falardeau a proposito di Fellag e della scelta che lo ha condotto a farne il protagonista del suo film: “E’ divertente perché è un cabarettista. Mi è piaciuto il suo aspetto. Sono andato a vederlo a teatro. L’ho ascoltato. Egli ha dovuto abbandonare il suo paese a causa della guerra nel 1990. In tal modo conosceva intimamente il carattere del protagonista e ho pensato che avrei potuto utilizzarlo nel film. E’ anche un autore. Scrive romanzi e ha una grande sensibilità. Siamo diventati amici. Non era esattamente quel che stavo cercando in termini di “prestazione”. Era troppo teatrale per me. Un giorno mi disse: “So che pensi che io sia troppo teatrale, ma lavorerò duramente per questo film”. Così mi ha convinto . Come Bachir Lazhar anche Fellag non ha voglia di parlare troppo del suo passato, anche con i giornalisti. Non vuole che diventi un onere per le persone attorno a lui. Ha bisogno di tagliare i ponti con il suo passato per andare avanti”.





lunedì 8 ottobre 2012

Il bacio della donna ragno







Un film di Hector Babenco
Con William Hurt, Raul Julia, Sonia Braga
Titolo originale: Kiss of the Spider Woman
Genere: Drammatico 
Durata: 120' 
Soggetto: Manuel Puig 
Sceneggiatura: Leonard Schrader
Fotografia: Rodolfo Sànchez 
Montaggio: Mauro Alice
Musiche: Nando Cordeiro 
Scenografia: Clovis Bueno
USA, Brasile 1985


di Chiara Roggino



Tanto tempo fa, in un'isola tropicale molto remota, viveva una strana donna...Portava un lungo abito di lamé nero, che le aderiva come un guanto. Ma la poverina era prigioniera di una gigantesca rete di ragno, prodotta dal suo stesso corpo. Un giorno un naufrago approdò sulla spiaggia. Lei lo nutrì, e gli medicò le ferite. Lo curò con amore, e lo riportò alla vita. Quando lui si svegliò, guardò intensamente la Donna Ragno e vide... una lacrima perfetta che scivolava da sotto la sua maschera”.

In principio saranno le note di un valzer: tappeto sonoro malinconico avvolge la sala, quasi una carezza. Alle prime immagini si leva il sipario. Un piano sequenza fluido, lentissimo. La cinepresa descrive senza fretta l'ambientazione della pièce. Quattro pareti di una cella. Un'ombra: filo della biancheria, alcune mollette appese, è incastonata dall'ombra altra delle sbarre di una finestra. Abiti femminili, color pastello, sparsi ovunque. Una bambola sulle coperte. Alle pareti poster di dive del passato, nuvole e stelle disegnate col gesso. Una voce over ci introduce al primo quadro del primo atto: è quella di Luis Molina (William Hurt). D'un tratto l'uomo afferra un asciugamano rosso. Lo avviluppa ai capelli, quasi un turbante. Primo piano di caviglie e piedi dell'uomo per una camminata in bilico su un immaginario trapezio a imitare i passi della fatale chanteuse: Leni Lamaison. Poi tocca al letto di Valentin Arregui (Raul Julia). La sua camicia è lorda: sudore e sangue mescolati insieme.




L'argentino Hector Babenco è per disposizione personale un viaggiatore precoce: dal 1964 al 1968 vive in Europa, barcamenandosi tra i mestieri più disparati (muratore, stiratore, comparsa…). Dal 1969 è in Brasile, a San Paolo. Non ancora trentenne, nel 1975, gira il suo primo lungometraggio (Il re della notte); ma è con il secondo film, Lucio Flavio, il passeggero dell'agonia (1977), basato su fatti di vita vera, che ottiene il primo riconoscimento di critica e di pubblico. Nel 1984 adatta il celebre romanzo dello scrittore compatriota Manuel Puig, dirigendo Il bacio della donna ragno. A supportarlo, un cast internazionale di primissima qualità. Protagonisti William Hurt e Raul Julia, il film vinse premi a Cannes e si aggiudicò quattro nomination agli Oscar. Hurt impugnerà l'ambita statuetta quale miglior interprete maschile.






La pellicola si presenta quale esplorazione di due differenti interiorità umane. Un vincolo indissolubile si viene a creare tra i due protagonisti, uomini agli antipodi le cui circostanze di vita, al presente, sono celate da inquietanti segreti. Il film, tratto dal roacconto di Manuel Puig (coinvolto da Hector Babenco nella stesura dello script), è un dramma mascherato da thriller. Il cineasta diede il la alla sua impresa produttiva nel 1982. Primo ostacolo: convincere Puig a vendere i diritti dell'opera letteraria. Non fu facile. La sfortuna sembrava aver preso il sopravvento quando Burt Lancaster espresse un forte entusiasmo e la volontà di interpretare il ruolo di Molina. Ma la partecipazione dell'attore avrebbe comportato un caro prezzo: Lancaster esigeva l'ultima parola riguardo all'approvazione della sceneggiatura. In ultima analisi, problemi di salute e divergenze creative lo condussero fuori dal set, dando all'astro nascente William Hurt, reduce dal successo de Il grande freddo (Lawrence Kasdan, 1983), la possibilità di intervenire per una parte quanto mai ambita. Il film ebbe grossi problemi in ambito di sovvenzioni. Infine fu appoggiato economicamente da sostenitori indipendenti in Brasile e negli Stati Uniti. La scarsa comprensione della lingua inglese da parte di Babenco portò non poca confusione sul set. Parti della sceneggiatura furono riscritte (da Leonard Schrader e Puig, spesso in disaccordo). Hurt e il regista si scontrarono con tanta violenza da non rivolgersi più la parola.
Il film si svolge quasi per intero entro i confini di una cella in un anonimo paese sudamericano. I due uomini che condividono gli "alloggi" non potrebbero essere più diversi. Molina è un omosessuale in stato di arresto per la corruzione di un minore. Totalmente digiuno di politica, cerca di annullare il suo personale calvario attraverso la fuga in un mondo di fantasia, raccontando ad alta voce e riportando al suo riluttante compagno di cella uno dei suoi film preferiti: un melodramma nazista. Valentin, giornalista di professione, è dissidente politico. Detesta le prospettive di vita di Molina, lungi da ogni impegno morale e civile, ed è visibilmente irritato dall'affetto che l'uomo nutre nei suoi confronti. Terza interprete del film, Sonia Braga. L'attrice ricopre tre ruoli differenti: chanteuse e amante appassionata nel melodramma nazista, donna ragno, protagonista dell'estremo racconto di Molina ed ex fidanzata di Valentin (Marta). Entro i confini della cella, realtà e fantasia si intrecciano indissolubilmente.





Ma risaliamo alla fonte narrativa della pellicola. Il romanzo di Manuel Puig, adattato da Hector Babenco è “ridotto” ad una sola performance-racconto di Molina, in vece dei sei presenti nel romanzo. Tutto ciò sposta altrove le dinamiche strutturate da Puig, conducendo lo sguardo sulla presa di coscienza-liberazione sociale e personale di Luis Molina ( “Dammi la tua parola che non ti farai mai più umiliare da nessuno, e che ti farai rispettare sempre. Promettimi che non ti farai mai più sfruttare. Nessun uomo ha il diritto di sfruttare un altro uomo...). Dice Puig: “ Una volta che ho iniziato a scrivere non riuscivo più a smettere! Il dialogo è stato il motore veicolante per la narrazione, un accordo di parole in cui il non detto conta più del resto (….) I due protagonisti si sfiorano solo a parole: quasi non possano guardarsi l'un l'altro, tanto meno avere un contatto fisico perché sono uomini e la vicinanza carnale all'interno della cella è tabù, cosa proibita”. Parole chiave: Puig, Babenco, cinema, teatro. The Kiss of the Spider Woman, opera di derivazione letteraria, prende vita dalla materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, sìcche lo spettatore potrà respirare a pieni polmoni quell'aria e quella polvere di palcoscenico di cui avvertirà il sentore, nitido, seduto in una fila di platea a osservare figure vive e concrete muoversi al di là dello schermo. Lo scambio di battute tra Valentin e Luis è agile, appassionante, per un théâtre de chambre che punta ogni carta su parole, gesti, avvicinamenti e prese di distanza tra protagonisti. Rare le sortite di scena, sporadici gli squarci di esterni fuori cella. Il film prenderà il largo dalle assi di scena solo in extremis, allorché Molina, in seguito alla concessione della libertà condizionata, deciderà di contribuire alla lotta politica per amore del suo compagno di carcere. Un destino deciso in partenza il suo: cadavere, foulard scarlatto legato al collo, verrà abbandonato dalla polizia in una discarica quale oggetto da nulla, di poca importanza.
La narrazione filmica procede tramite un linguaggio per immagini che alterna presente ( la realtà carceraria) a un mondo altro, onirico, intessuto da Molina con la grazia di un aracnide che tesse la propria tela: per proteggersi ed evadere da una cruda realtà che non concede via di fuga.
Il montaggio alternato per dissolvenze incrociate è un perpetuo girotondo, avanti e indietro, tra un microcosmo dipinto a tinte accese e una cellula favolistica in cui a predominare saranno filtri color seppia. Sonia Braga, attrice di provenienza dichiaratamente soap operistica, spicca per una recitazione volutamente mélo, quasi una parodia della Divina Garbo. La sua Leni si muove sulla scena per una gestualità eccessiva, ridondante, una mimica facciale portata all'esasperazione da mosse e mossette artefatte nella loro fin troppo esplicita drammaticità d'intenti. Di suo, all'interno dell'excursus-percorso di formazione che vede avvicinarsi i due protagonisti reali della fiction, Hurt non passa certo inosservato. Un ruolo oltre la semplice osticità quello di Molina, in perpetuo equilibrio, accompagnato dal rischio costante di passare da personaggio di carne e sentimenti a macchietta, feticcio gay , ridicolo nonché poco credibile. Ma qui Hurt si gioca tutte le sue carte. Sa dove andare a parare, sempre e comunque. Sua una recitazione minimale per un uso del corpo e degli sguardi realistico e pulsante verità oltre la quarta parete del jeu théatral intessuto da Babenco. Malinconico, struggente, perfetto. Così la battuta Credi che sia facile trovare un vero uomo? Uno che sia umile, ma abbia la sua dignità. Da quanti anni lo cerco, da quante notti! Quante facce ho visto piene di disprezzo e d'inganno! sarà l'estrema richiesta d'aiuto di un personaggio vivo, quantomai reale per un performer capace di trascinarsi dietro una scia di spettatori: attenti a carpire ogni suo sguardo, avidi di conoscere la sua storia e il suo percorso di sofferenza, la sua vita d'attesa del nulla.




sabato 29 settembre 2012

Rosemary's baby





Un film di Roman Polanski
Con Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon,Sidney Blackmer, Maurice Evans
Genere: thriller/horror
Durata 136 min.
Soggetto: Ira Levin ( romanzo)
Sceneggiatura: Roman Polanski
Produzione: William Castle
Fotografia: William Fraker
Montaggio: Sam O'Steen, Bob Wyman
Musica: Krzysztof Komeda
Scenografia: Richard Sylbert
USA 1968

di Chiara Roggino


Una lenta panoramica a indagare il cielo di New York: piano sequenza sui tetti della Big Apple, alberi, giardini. E d'un tratto la cinepresa imbocca una direzione nuova. Lenta discesa verso il basso a inquadrare il Branford, luogo di fantasmi e stregonerie, claustrofobiche allucinazioni. Una "doppia scrittura" a livello registico-narrativo quella di Roman Polanski per Rosemary's baby per una duplice interpretazione affidata allo spettatore. I mostri, spettri invocati dalla fantasia del regista sono frutto di una messinscena oggettiva o mere proiezioni soggettive di Rosemary ( Mia Farrow)? Un incastro di oggettività e soggettività fuse assieme quello allestito dal cineasta polacco. E' questo a suscitare nel pubblico quel surplus di claustrofobica angoscia e terrore. Labilità tra verosimile e inverosimile. Roman Polanski: nomade, cosmopolita. Urge in lui la necessità di andare alla ricerca di uno standard tecnico-produttivo d'altro livello per dare vigore nuovo all'attività di un instancabile fautore per idee sempre nuove. Hollywood è il luogo in cui tutto ciò si concreta. Rosemary's baby, pellicola di labile inserzione in un genere ben definito (definirlo horror sarebbe a dir poco riduttivo), esce nelle sale nel 1968. Il film diviene inevitabilmente un simbolo di quel cambiamento irreversibile messo in atto a fine anni sessanta. Una nuova era spalancava allora le sue porte per un mutamento sociale di non sottovalutabile importanza. Il merito da attribuire a Polanski è quello di descrivere in maniera più che coraggiosa l'occultismo insito nella società altolocata di New York. La location, il Dakota (il Branford nel film) è un edificio vero, in mattoni e calcina. Ai suoi tempi il palazzo attirò elementi eccentrici dell'alta società newyorkese. La congrega malefica che complotta alle spalle di Rosemary non è composta da streghe o individui mostruosi, ma da persone distinte e medici prestigiosi (da rimarcare la prova d'attrice di Ruth Gordon, strepitosa ed eclettica, vincitrice di un oscar, nelle vesti della fin troppo premurosa vicina: Minnie Castevet).






Voci insistenti (per lo più documentate) dichiarano che Anton La Vey, fondatore della Chiesa di Satana, avesse ricoperto all'interno del percorso filmico il cameo di Satana in persona durante la scena dell'amplesso e che si fosse inoltre reso disponibile in qualità di consulente per la realizzazione dell'opera. Ma La Vay rimase collegato all'aura misteriosa che avvolge Rosemary's baby per un altro motivo: Susan Atkins, membro della famiglia Manson che contribuì al raccapricciante omicidio di Sharon Tate (allora giovane moglie di Polanski) era una ex seguace di La Vey. Il sangue: tema riproposto dal cineasta più e più volte, in maniera morbosa, insistente. Rosemary teme di fare un semplice prelievo laddove sarà nel dubbio di essere incinta. E ancora la parola sangue (blood) ad essere segnata sul calendario dalla protagonista come memorandum per la visita medica successiva. Lo stesso nome della vittima prescelta dalla congrega allude visibilmente a un fiore: la rosa, rosa rossa così come i vasi regalati dal marito Guy (John Cassavetes) traboccheranno di rose sanguigne. E ancora rosso il colore dall'abito indossato dalla donna la notte del concepimento maledetto. Rosso a marchiare il corpo nudo della protagonista durante il sabba. Il Branford, da edificio luminoso alla luce delle riprese d'inizio pellicola si farà poco alla volta sempre più tetro e claustrofobico. Prendiamo in esame la scena in cui Rosemary e Guy passano la loro prima notte nell'appartamento. Dalla finestra si intravedono sagome oscure di palazzi ed edifici fatiscenti (palese richiamo a L'inquilino del terzo piano). La protagonista sarà allora ripresa dalla vita in giù (ad essere inquadrate solo le gambe) mentre si avvicina al ripostiglio (quasi un sentore minaccioso di quello che avverrà in seguito).






Quella che potremmo definire vittima sacrificale è chiara rappresentazione di quella società tradizionale e ingenua dell'America tra gli anni cinquanta e sessanta (traboccante ideali e speranze). Ma eventi scioccanti lasciarono il marchio nell'opinione pubblica: la misteriosa morte di JFK, Marilyn Monroe e Martin Luther King. Orribili omicidi rituali ad opera di Manson e del Figlio di Sam provocarono paura e orrore. Un importante cambiamento nella vita culturale americana, insomma. Rosemary's baby scopre le carte del funzionamento di una congrega di streghe internazionale, la società americana scopre il lato oscuro della sua attività politica interna. Il film mescola sapientemente iconografia cattolica e satanica. Il magistrale piano sequenza allucinatorio della Cappella Sistina durante il rito, l'apparizione di un fantomatico pontefice che porge alla protagonista la mano da baciare (ma al dito indossa lo stesso ciondolo contenente radice di tanis).
Rosemary, recatasi al poi mancato appuntamento con Hutch (Maurice Evans) contemplerà una vetrina in cui è stato allestito un presepe (Maria e Gesù tra le braccia). Rose-Mary: la Vergine trasfigurata da Polanski in madonna nera.




Impressionante sarà il mutamento, trasformazione fisico-psichica della protagonista nonché della Farrow all'interno del film. E' risaputo che la donna, allora sposata con Frank Sinatra, ricevette sul set le carte del divorzio. La cosa la sconvolse a tal punto che Polanski temette per un mancata conclusione di riprese. Fu la stessa Farrow a tagliarsi maldestramente i capelli in un raptus di autolesionismo. Allora venne chiamato con urgenza il famoso coiffeur delle dive Vidal Sasoon che fece quel che poté per aggiustare una capigliatura all'ultimo stadio. "La mia intenzione è quella di criticare una società come ne Il coltello nell'acqua", dirà Polanski. E ancora "Questo è quello che vorrei fare e dire tramite i miei film. Ad interessarmi non sono gli aspetti metafisici. No. Essi sono per me solo temi affascinanti e divertenti, come lo sono per i bambini. Se non dico nulla di importante nei miei film è perché mi risulta troppo difficile esprimerlo in pellicola. Se so cosa voglio dire, la dico". Un aneddoto divertente all'interno della lavorazione del film. Quando Rosemary chiama il collega del marito, rimasto cieco in seguito ad una fattura, la voce dall'altra parte della cornetta sarà quella di Tony Curtis. La Farrow non sapeva chi avrebbe risposto al telefono, per questo dimostrò una leggera confusione nel sentire una voce familiare non bene identificata. Questo era esattamente l'effetto ricercato da Polanski. Rosemary's baby, capolavoro assoluto nella storia del cinema. Poco importano le definizioni. Che sia un film horror o meno, rimarrà una pellicola sempre pronta ad inquietare spiazzando lo spettatore dalla prima all'ultima scena, visione dopo visione.