lunedì 13 agosto 2012

Un tram che si chiama desiderio






 
Un film di Elia Kazan
Con Marlon Brando, Vivien Leigh, Kim Hunter, Carl Malden
Titolo originale: A Streetcar Named Desire
Durata: 122 min.
Fotografia: Harry Stradling
Montaggio: David Weisbart
Musiche: Alex North
Scenografia: Richard Day, George James Hopkins
Usa 1951


di Chiara Roggino


“Sometimes, there's God, so quickly!”


La prima immagine è campo statico, fotografia in bianco e nero a presentarci una dimora fatiscente per una rampa di scale che conduce al secondo piano. A lato, in disparte, un lampione acceso a illuminare il quadro. Una scritta sovraimpressa sul grande schermo: New Orleans. Un lungo treno fa il suo ingresso in stazione. A far da sfondo, il traffico cittadino, il porto, taxi, rumore di autovetture in corsa. Tra nubi di vapore, sperduta tra la folla, si fa largo una donna bionda ed esile. Cappello e veletta, abito leggero, un fiore appuntato al petto. Nel mentre, una folla festosa insegue una coppia di sposi in partenza per la luna di miele.
1947: anno di svolta per il teatro americano, spartiacque di quel lungo procedimento di elaborazione subito dal metodo Stanislavskij negli Stati Uniti. E' il 3 dicembre quando all'Ethel Barrymore Theatre di New York va in scena “A streetcar named desire” di Tennessee Williams. La regia è affidata ad Elia Kazan e tra gli attori fa la sua entrata in scena un giovanissimo Marlon Brando. Kazan, formatosi presso il Group Theatre, era il miglior regista della sua generazione, dotato di una qualità rara: sapersi muovere con disinvoltura tra cinema e teatro. Williams e Kazan riuscirono in un'impresa non da poco: rappresentare lo smarrimento di una nazione vincitrice pervasa da profonde inquietudini. Sesso, violenza, malattia, patologia sono ritratti a tinte fosche, seppur all'interno vi si scorga la possibilità di rappresentare e rendere 'poetici' i propri mali, le disillusioni, le lacerazioni di strutture umane e sociali in disfacimento. Tra i numerosi volti a rappresentare gli anni cinquanta, emerge dalla massa lo Stanley Kowalski di Brando: non più assimilabile alle star degli anni '30 e '40, ma uomo scalfito, inquieto, dominato dagli istinti. Per questo più vicino alla vita. In seguito alla rivelazione-Brando, l'America eleggerà ad eroe un uomo con forti difficoltà a livello comunicativo, balbuziente, dotato tuttavia di una sensualità esplicita e conturbante, di un'inquietudine che trasuda attraverso gesti e sguardi. Parlando della messinscena cinematografica del 'Tram', Kazan affermò di essersi limitato a riprendere lo spettacolo. Ma basta riflettere, rileggendo le pagine di André Bazin sul rapporto tra cinema e teatro, per comprendere quanto l'elaborazione filmica messa in atto da Kazan mostri nell'immediato tutta la sua complessità. Dal punto di vista registico, passando dalle tavole del palcoscenico al set, il cineasta potrà interferire in modo più diretto sulla recitazione. E' lui a pilotare lo sguardo dello spettatore, a dar rilievo o meno a un gesto, uno sguardo, un'espressione del volto. E' lui a a stabilire rapporti e dinamiche tra protagonisti. Il film verrà girato quasi esclusivamente in studio. Le dimensioni della location dove hanno luogo le scene principali verranno ridotte poco alla volta per rendere sempre più claustrofobico lo spazio dell'azione, il dramma di Blanche. Ogni scena verrà dissezionata e provata in un 'falso set', costruito a fianco di quello reale. Le prove saranno dunque il momento in cui la collaborazione tra regista e performers potrà dare i suoi frutti migliori. Il film debutta nelle sale: è il 1951.
Kazan sfrutta il bianco e nero ad ottenere un gioco contrastato di drammatici chiaroscuri. I personaggi, tutti, sono immersi nelle tenebre: luogo e ambientazione ideale in cui si consumano i drammi personali dei protagonisti. Volti in primissimi piani, buio a celarne in parte i lineamenti, a tratteggiarne l'ambiguità esistenziale.
Tennessee Williams è tra i drammaturghi americani affermatisi con maggior successo sul piano internazionale. Nasce a Clombus, Mississipi, nel 1914. Opera d'esordio,“Battle of angels”: clamoroso insuccesso. Successivamente si trasferirà ad Hollywood in veste di sceneggiatore, senza riuscire a farsi un nome. Tuttavia qui stese l'opera che lo rese celebre: “The glass managerie”. A prescindere dalla resa artistica delle sue commedie, al loro interno, fil rouge, si ritrovano sincere e costanti tematiche. Così in “Un tram che si chiama desiderio”. New Orleans è l'ambientazione del dramma per quel Sud tanto caro all'autore. Temi fondanti: il sesso e la violenza. Una protagonista alcolizzata, ninfomane fino alla pazzia.
Il Sud favolistico di Williams dà vita a giovani segnati da irrequietezza e forte malessere personale, luogo surreale in cui l'uomo di ieri e di oggi celebra la sua decadenza e la sua caduta. Sono pagine marchiate di insanabile disperazione, da leggere ed elaborare nel tono d'amara elegia del disfacimento umano.
Scritturata per interpretare Blanche Du Bois, Vievien Leigh ( premio Oscar e altri prestigiosi riconoscimenti alle spalle), attrice britannica di solida formazione teatrale, instaurerà un ottimo rapporto umano-professionale con Brando. Avrà invece non pochi dissapori e innumerevoli incomprensioni con il maestro Kazan tanto che egli riconoscerà il suo talento d'interprete solo a riprese ultimate. In “A streetcar named desire” la Leigh si adeguerà al Metodo e a quanto esso comporta. Un assoluto annullamento di sé per penetrare nei meandri interiori del personaggio, per viverne la vita autentica. Ciò porterà ad una totale compenetrazione dell'attrice con l'eroina dipinta da Williams: Blanche, donna sola, abbandonata a se stessa, contaminata da un profondo malessere interiore che la condurrà lentamente alla follia. La protagonista vive aggrappata a un passato di amore puro, innocente, assoluto. Ella rimarrà ancorata, mente e corpo a quella sera: un colpo di rivoltella a infrangere sogni e speranze. La donna, in una disperata fame di affetto e comprensione umana, giungerà a concedersi a chiunque, quale mera prostituta, in un alberguccio di quart'ordine.
Forte, immortale nella storia nel cinema, si imprimerà negli occhi e nella mente dello spettatore la scena che vede protagonista il cosiddetto “monologo della Varsouviana”. "Un ragazzo, un bambino, ed io ero giovane giovane. Quando avevo sedici anni, mi innamorai di un ragazzo. Ma così, di colpo, e in un modo così pieno, totale! Come un faro acceso nella penombra all'improvviso, così si trasformò il mondo per me! Ma ero sfortunata. Fu un inganno. Lui aveva qualcosa di diverso, una sensibilità, una mollezza, delicatezza, che non era da uomo... Lui cercò aiuto da me. Ma io non sapevo...Io non capii niente... Sapevo solo di volergli un bene immenso...Poi, poco dopo il matrimonio, scoprii tutto. Nel modo più tremendo. Entrando in una stanza che credevo vuota... c'erano due persone a letto... il ragazzo che avevo sposato e un uomo più anziano che da anni era il suo amico... il suo amante. Dopo di che, facemmo finta di niente. Tutti e tre, quella sera stessa, andammo fuori a divertirci, a ballare, e per tutta la sera giù a ridere, a bere, a ballare, a ballare. Ballammo la Varsouviana! Poi ad un certo punto, nel mezzo del ballo, senza potermi frenare, mi era scappato detto 'Ho visto, ho visto tutto... mi fai schifo!'. Allora il giovane che avevo sposato si staccò da me e scappò via. Qualche momento dopo, uno sparo! Corsi fuori, tutti corsero fuori, gridavano 'Alan! Alan! Il giovane Grey!'… S'era infilato la rivoltella in bocca, e sparato, tanto che il cranio gli era schizzato via!... E allora il faro che s'era acceso sul mondo, si spense di nuovo e mai più per un solo istante da allora, ha brillato...".




 
Blanche racconta a Mitch (Carl Malden) il suo passato e l'antico amore che ne ha segnato il percorso. La figura eterea di donna si slancia verso il pontile davanti al mare. Poco alla volta, un'antica nenia proveniente da chissà dove, si anima il valzer a far da tappeto sonoro alle parole di lei. La Leigh si volta verso il suo interlocutore. Un movimento leggero, da farfalla, quasi un passo di danza: perfetto, fugace, da immortalare con la macchina da presa all'istante a rimarcare le straordinarie doti di un'attrice fuori classe, fuori dagli schemi.



Contrariamente al pensiero di Kazan e Williams, Brando si considerò sempre e totalmente inadatto al ruolo affidatogli. Il problema lo riguardava sia professionalmente che dal punto di vista personale. Nel corso degli anni, il divo si portò appresso, quasi un'ombra, il ruolo di un uomo rozzo, violento e infantile. Brando e Kowalski divennero così un unicum imprescindibile, per il pubblico e per lo stesso interprete. L'attore americano tenne sempre a sottolineare quanto egli fosse un uomo migliore del meccanico polacco scaturito dalla penna di Williams.
All'attore va comunque riconosciuta un'indiscussa abilità di performer nel proporre al pubblico un personaggio sfaccettato e irripetibile, protagonista negativo dotato di un fisico prorompente e di un volto regolare e bello, d'una sensualità tutta nuova. Brando regala al suo protagonista una voce biascicante e stentata, forse monotona a tratti, riuscendo a renderla credibile sul grande schermo tramite irruzioni di rabbia repentina che ne accentuano il volume. Il personaggio-Kowalski, ottuso e violento, diviene così un carattere permeato di maggiore umanità, più ambiguo e contraddittorio di quanto Williams avesse pensato agli esordi.




sabato 11 agosto 2012

Bobbio Film Festival di Marco Bellocchio - Amelio presenta "Il primo uomo"


di Chiara Roggino

Gianni Amelio al Bobbio Film Festival 2012 (http://www.youtube.com/watch?v=XeDIaDl9aNg). Il cineasta calabrese, indole affabile per un porgersi agli interlocutori semplice e diretto, presenta in conferenza stampa il suo Primo uomo. Storia di un manoscritto incompiuto ritrovato in seguito a un incidente stradale, la personale vicenda dello scrittore franco algerino Albert Camus si intreccia a un'autoesposizione, rivelazione dell'intimo sé del Maestro del cinema italiano.



Interno giorno. Un uomo disteso tra le lenzuola. Fuori dalle pareti domestiche, Algeri: conflitti etnici, guerriglia. Stacco. Il volto di un bambino sdraiato nella medesima postura si sostituisce al viso maturo. E' il 2011 e Gianni Amelio si rifà a un vecchio manoscritto incompiuto ritrovato in un'autovettura. Camus, la storia del primo uomo Cormery, saranno pretesto al cineasta italiano ad intessere un racconto ricco di spunti personali e autocitazioni. Amelio stesso confesserà l'affinità sussistente tra l'infanzia del bambino-Cormery di allora e la propria fanciullezza consumata in Calabria: abbandonato a se stesso crescerà in un nucleo familiare di sole donne, unica figura di riferimento un maestro di scuola che l'aiuterà nel prosieguo degli studi. L'infanzia di Camus-Amelio si consuma nel quotidiano di un sole arroventato, il mare perenne orizzonte.
Il romanzo Il primo uomo assumerà pertanto la connotazione di pretesto per una necessità autoriale: esporsi in prima persona raccontandosi attraverso il cinema. Non attendetevi un adattamento fedele all'opera di Camus. La pellicola appartiene ad Amelio e tale rimarrà fino alla comparsa dei titoli di coda.
Di sottofondo, brusio assordante tra le strade di Algeri, il conflitto etnico, la guerriglia, le bombe. “Il sangue chiama sangue”.
Fondamentale sarà l'incontro tra l'uomo Cormery di ritorno alla terra natia e l'antico compagno di scuola relegato nel ghetto arabo. Fra i due un dialogo breve e intenso si fa appello alla necessità insoddisfatta d'un concreto bisogno d'appartenenza etnica. Bisogno che diverrà per il protagonista personale tormento. Lenta tornerà alla memoria la prima scena della pellicola. Cormery alla ricerca delle proprie origini, della tomba paterna: perso nel nulla a contemplare una lapide tra filari d'alberi mossi dal vento.
Straordinaria la prova d'attore di Jacques Gamblin. Amelio racconterà di una gita fuori porta in terra francofona, una lunga cena in compagnia dell'attore chabroliano: rivelazione di un'intesa profonda, umana e professionale assieme. Giorno dopo giorno, Gamblin si presenterà sul set, perenne sorriso stampato sul volto. Atteggiamento di disponibilità non sottovalutabile da parte di un regista che intenda instaurare un rapporto simbiotico con la propria materia prima: gli attori. L'interprete francese, corpo e voce di Cormery, darà prova di una performance che gioca in sottrazione, una mimica facciale di sorrisi appena accennati, rughe a solcare la fronte di un personaggio marchiato da forte disagio personale: apolide ed essere umano precario, sradicato da sé e dalle proprie origini.


Là-bas - Educazione criminale





Un film di Guido Lombardi
Con Yssouf Abdou Karer, Moussa Mose Mone, Kader Alassane, Fatima Traore 
Genere: drammatico
Durata: 100 min.
Sceneggiatura: Guido Lombardi
Produttore: Gaetano Di Vaio, Pietro Pizzimento
Produttore esecutivo: Gennaro Fasolino 
Casa di produzione: Eskimo, Figli del Bronx, Minerva pictures, Rai Fiction, Regione Campania
Fotografia: Francesca Amitrano
Montaggio: Annalisa Forgione, Beppe Leonetti 
Scenografia. Maica Rotondo
Costumi: Francesca Balzano 
Italia 2011


di Chiara Roggino 



Due sagome scure riprese di spalle. Pioggia che batte. Un ombrello rosso spalancato sotto le nubi. In alto, il cielo. Davanti, il mare, sconfinato. 
"Non hai mai visto il mare?"
"Solo dall'aereo".
Là-bas di Guido Lombardi prende spunto dalla strage di Castevolturno ( 18 settembre 2008) per narrare la storia-percorso di formazione di Yussouf, immigrato nordafricano, giovane artista in cerca di fortuna per una vita nuova, laggiù, oltre il mare, in Italia: terra di nessuno, immaginifico paese della cuccagna per chi cerca asilo e riscatto economico sociale, isola felice dove ogni desiderio può prendere forma quasi per magia.
Lombardi, internamente al percorso filmico, delinea due spazi-luoghi agli antipodi. La maison des bugies (comunità immigrata che si arrabatta legalmente per il proprio sostentamento) e l'abitazione dello zio di Yussouf, self-made man, pesce piccolo per una microcriminalità che trae profitto dallo spaccio di cocaina.
Alla fotografia Francesca Amitrano opera di cesello sui volti degli attori ( tutti non professionisti): giochi di sguardi, dettagli, micropieghe dei tratti somatici di massa e singoli. Il protagonista verrà spesso ripreso in solitudine: percorso che consente all'autore una dettagliata analisi psicologica del personaggio fra dubbi , ansie, attese, sensi di colpa.
Lombardi non indugia nel mostrare la normalità di un microcosmo per una violenza che non conosce tracce di pietà. Topica la scena della ragazza bianca, corriere di stupefacenti, ormai cadavere per un ovulo di cocaina disfatto nell'organismo. Il regista non dà tregua allo spettatore: nulla è lasciato al fuori campo. Quella che ci viene mostrata è l'immagine di una normale autopsia, intervento di ordinaria quotidianità.
Là-bas, pellicola che rincorre le impronte del gangster movie per farsi contemporaneamente atto di denuncia sociopolitica: nei confronti dell'istituzione camorristica, qui incarnata dal clan dei Casalesi. Yussouf si troverà innanzi a un bivio: sopravvivere vendendo fazzoletti agli angoli della strada, raccogliere pomodori per un radicale sfruttamento di mano d'opera o imboccare la terza via, la più semplice. Guadagno facile per quell'educazione criminale esplicitata dal titolo del film.
Lombardi imposta la sua opera sulla base di un plurilivello linguistico-comunicativo: i personaggi non si esprimeranno tramite idioma italiano. Tutti, camorristi esclusi, parleranno adoperando la loro lingua madre: francese per lo più e inglese.
In seguito alla strage, la scelta etico esistenziale di Yussouf segnerà il ritorno a una vita di legale dignità. Al termine del film il giovane si spoglierà dei propri indumenti, simbolo di appartenenza alla dimensione criminale, per fare ritorno alla maison des bugies. Riaccolto dal gruppo, il corpo fragile ed esposto avvolto dalla bandiera senegalese.








venerdì 10 agosto 2012

Fuori orario




Un film di Martin Scorsese
Con Griffin Dunne, Rosanna Arquette, Linda Fiorentino, Verna Bloom, Teri Garr, Will Patton
Genere: thriller/commedia grottesca
Durata: 96 min.
Soggetto: Joseph Minion
Sceneggiatura: Joseph Minion
Fotografia: Michael Ballhaus
Montaggio: Thelma Shoonmaker
Musiche: Howard Shore
Scenografia: Jeffrey Thownsend
Usa 1985 


di Chiara Roggino


Gangsters. New York. De Niro. L'onnipresente tappeto sonoro targato Rolling Stones. Questi i soggetti che solitamente associamo al cinema di Martin Scorsese. Ma, per parafrasare le parole del proprietario di un bar a tarda notte, 'fuori orario' tutto è concesso, tutto è diverso. Molto diverso. D'altra parte, in quante altre opere seminali di Scorsese il protagonista viene braccato da una donna alla guida di un furgone gelati? Se After Hours debutta in un periodo di profonda crisi professionale, la pellicola sarà successivamente rivalutata dal regista 'come una rinascita'. Dopo il primo tentativo di adattare il romanzo di Nikos Kazantzakis per L'ultima tentazione di Cristo, la produzione verrà bruscamente interrotta per problemi di bilancio e numerose proteste da parte di fondamentalisti cristiani. Scorsese decide così di mettersi alla prova riscoprendo le sue radici indipendenti. Trampolino di lancio per il ringiovanimento artistico dell'autore, una sceneggiatura originale scritta da Joe Minion per un corso di cinema alla Columbia tenuto dal regista jugoslavo Dusan Makavejev. After Hours: film circolare a basso budget, commedia kafkiana incentrata sui pericoli corsi nell'arco di una notte da un informatico newyorkese che vuole disperatamente far ritorno a casa in seguito a uno sfortunato appuntamento galante in quel di Soho. Paul Hackett (Griffin Dunne), un nuovo giorno di estenuante monotonia lavorativa alla spalle, incontra Marcy (Rosanna Arquette) in un bar del luogo. Attratti l'un l'altra da una comune condivisione intellettuale (per Henry Miller e Tropico del Cancro), Paul fingerà interesse per la collezione di fermacarte in gesso a forma di panini al formaggio realizzati dall'artista dark Kiki (Linda Fiorentino), compagna di stanza di Marcy, al fine di procurarsi il numero di telefono della ragazza. Paul è invitato nel suo loft a Soho. Inizia così la discesa agli inferi. Primo scontro del protagonista con gli imprevisti in notturna: l'uomo assiste impotente all'involata dei suoi venti dollari dalla finestra di un taxi in corsa. L'incontro con Marcy si rivelerà via via sempre più eccentrico e il giovane Hackett vorrebbe solo ritornare nei suoi appartamenti. Ma un nuovo sfortunato inconveniente gli impedisce di uscire dal quartiere: non ha monete a sufficienza per coprire l'aumento della tariffa metropolitana. Seguiranno successivamente nuovi ostacoli: scambiato per un ladro seriale, inseguito da una folla feroce, indurrà al suicidio per essere successivamente testimone di un omicidio, farà fatica a recuperare le chiavi di casa da un barista in crisi. Ma questa è solo la metà dei suoi problemi. Nonostante le estreme eccentricità insite nello script di Minion, la regia di Scorsese riesce a portare avanti un percorso di narratività realistica. Lo stato emotivo di Paul, fisicamente e psicologicamente provato da fatica e paranoie, lo condurrà a un atteggiamento-visione del mondo monomaniacale in un crescendo di eccitazione nervosa e frenetica mescolate insieme. Escludendo l'incipit e la chiusura di pellicola (per un lungo piano sequenza ad invadere i titoli di coda), Fuori orario è girato prevalentemente in notturna, in esterni, a Soho. I ritmi della città immersa nel buio ( amplificati da un tictac meccanico, tormentone dell'intero film) risultano congegnali ad amplificare, accentuandole, le stranezze di Soho, i pericoli del quartiere e la scarsa familiarità di Paul con l'ambiente che lo circonda. Come l'introspezione crepuscolare bergmaniana scatenerà sinistre atmosfere ad avvolgere Max Von Sydow e Liv Ullmann ne L'ora del lupo (1968), così il favore delle tenebre sembra cospirare contro Paul Hackett. After Hours si inserisce a diritto nel regno esistenzialista dell'assurdo. Numerose affinità avvicinano il film di Scorsese a un'altra opera importante: L'angelo sterminatore di Luis Buñuel (1962). Nel film i protagonisti non sono in grado di uscire da un salotto borghese in cui sono penetrati nel corso della notte. Non vi è alcun motivo razionale per spiegare il perché non possano uscire, ma, nonostante gli sforzi, il gruppo non riuscirà a valicare i locali della dimora maledetta. Il tragitto-percorso esistenziale di Paul sotto la pioggia battente di Soho, strade illuminate da rari lampioni, è costellato da incontri stravaganti: donne minacciose, al limite dell'isteria. Per alcuni critici questo particolare aspetto potrebbe rappresentare una vena misogina all'interno del film. E nonostante tutto, quasi tutte le donne di Fuori orario inizialmente provano ad aiutare Paul in slanci umani di apparente genuino altruismo. In seguito alle precedenti autopsie di alienazioni metropolitane (vedi Taxi Driver, 1976), Scorsese tratteggia a tinte forti una lurida Soho, claustrofobico paesaggio capace di suscitare nel protagonista intime ansie e paure. Queste peculiarità si manifestano in ripetuti solleciti, durante il corso dell'intera pellicola. L'ansia e la fobia di Paul nei confronti del fuoco, evidenziata in un repentino ricordo d'infanzia a coinvolgere un reparto ustioni, esasperata tramite la sua reazione schizzinosa nel ritrovare nella borsetta di Marcy una pomata per scottature di secondo grado. Nonostante l'oscurità visiva e metaforica contenuta al suo interno, After Hours è un film d'umorismo noir tutto da godere coadiuvato dall'ottima prova d'attore di Griffin Dunne. L'ex direttore della fotografia Michael Ballhaus Fassbinder conferisce al film un'estetica noir a tinte forti, quasi chiazze di petrolio si imprimessero sul grande schermo. Dal canto loro, Scorsese e la montatrice d'antica data Thelma Schoonmaker garantiscono a Fuori orario un ritmo sostenuto. Alla sua uscita nelle sale, la pellicola dividerà il pubblico per divenire successivamente un solido successo di critica. Scorsese otterrà l'ambito premio per la miglior regia al Festival di Cannes. Sicuramente un capolavoro sottovalutato per uno dei migliori film anni Ottanta.





martedì 7 agosto 2012

Io sono Li





Un film di Andrea Segre
Con Zhao Tao, Rade Serbedzija, Marco Paolini, Roberto Citran, Giuseppe Battiston
Genere: Drammatico
Durata:100 min.
Sceneggiatura: Andrea Segre, Marco Pettenello
Produttore: Francesco Bonsembiante, Francesca Feder
Casa di produzione: Jole Film, Aeternam Films
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Sara Zavarise
Musiche: François Couturier
Italia, Francia 2011 


di Chiara Roggino 



Andrea Segre, veneto, classe 1976. Dottore di ricerca e docente di Sociologia della Comunicazione presso l'università di Bologna, inizia il suo percorso dietro la macchina da presa come realizzatore di documentari. Nel 2009 è insignito di menzione speciale al Bif&st per Come un uomo sulla terra. Nel 2010 dirige Il sangue verde, presentato alla ventunesima edizione del Festival del cinema africano, d'Asia e America Latina di Milano. Il suo primo lungometraggio di fiction , Io sono Li, debutta alla sessantottesima Mostra del Cinema di Venezia nella sezione Orizzonti.
“Il film nasce da una storia vera. Dall’incontro con una ragazza cinese che lavorava dietro al bancone in un’osteria frequentata da pescatori a Chioggia. Guardandola nascevano gli spunti per il racconto” (Segre).

Ascolta. Il fruscio è impercettibile. L'esile mano di donna appoggia a fior d'acqua una barchetta di fuoco: fiore di carta rosso carminio solca leggero il canale in notturna.
Shun Li ( Zhao Tao), immmigrata cinese, trova lavoro in una fabbrica tessile romana. Il suo percorso di estranea in terra straniera verrà a scontrarsi con i ricatti e le promesse stentate e poco affidabili della mafia orientale italiana. Li sopravvive in attesa della notizia: il giorno in cui avrà estinto i propri debiti e potrà riabbracciare il figlio, abbandonato a forza in terra di Cina. Breve sarà il passo che la condurrà da Roma a Chioggia. Un nuovo lavoro: barista dietro il bancone di un'osteria. I problemi di carattere pratico non saranno pochi per la giovane donna: prima fra tutti la barriera linguistica, vero e proprio ostacolo ad allontanarla ulteriormente dalla realtà umana locale. Fondamentale sarà l'incontro con Bepi ( Rade Serbedzija) , il 'poeta', vecchio pescatore jugoslavo immigrato in Italia da trent'anni. Tra i due si instaurerà un rapporto di complice affetto e reciproca comprensione, ostacolato da pregiudizi e malignità insiti nel carattere degli 'indigeni' del luogo. "Io Sono Li è anche un modo per parlare del rapporto tra individuo e identità culturale, in un mondo che sempre più tende a creare occasioni di contaminazione e di crisi identitaria. E, Chioggia, piccola città di laguna con una grande identità sociale e territoriale, è lo spazio perfetto per raccontare con ancora più evidenza questo processo”( Segre).
“La laguna è femmina e il mare è maschio”. Tenera, accorata, la voce di madre che scrive al figlio in una terra bagnata dal mare, terra di pescatori come quella di lei. Le parole di Li si fanno canto di struggenti armonie in un italiano praticato tra stenti e fatica. Il dolore, il turbamento, celati spesso da sorrisi che illuminano, segnano i lineamenti della protagonista. Esemplare la scena del viaggio in autobus verso la laguna. Pioggia che batte e appanna i finestrini, occhi lucidi, persi lontano, in quell'altrove che bene si identifica con il nome della protagonista. Ella rimarrà, col cuore e il pensiero, eternamente : in quel laggiù, lontanolontano, là dove affondano radici e identità personale. Quel laggiù dove vive il figlio. E poi c'è Bepi, il poeta-pescatore, colui che improvvisa versi all'impronta tra le mura della Taverna Paradiso. Esule a suo modo, da terra jugoslava, pur integrato nella realtà locale da trent'anni. E accade per caso. Che due mondi così lontani e vicini al medesimo tempo si incontrino abbracciandosi l'un l'altro. Che lo smarrimento di lei trovi empatica intesa in una carezza di lui. La mano dell'antico pescatore sfiora i capelli di Li.



 
 Due storie lontane in apparenza si compenetrano, intrecciandosi vicendevolmente, due anime disperse trovano reciproca comprensione in un affetto profondo fatto di brevi accenni e rare parole. Ad estinguere sul nascere una amore ancora in germe, la reazione dei locali chioggiotti, diffidenti nei confronti di una realtà umana distante e incomprensibile. A mettersi di mezzo, tra Bepi e Li, interverrà allo stesso tempo la mafia orientale, poco propensa all'intrecciarsi di qualsivoglia rapporto tra immigrati e popolazione italiana. I due dovranno separarsi a forza. Li farà ritorno alla vecchia fabbrica tessile.
Segre dirige con mano ferma i suoi interpreti. Al via delle riprese gli attori hanno ormai praticato, per volontà registica, un lungo percorso d'integrazione nella realtà chioggiotta. Per rendere credibili i caratteri, per accostare e dare spessore a personaggi rappresentati da performers professionisti e non. “Ho chiesto a loro di conoscersi a vicenda. Ho chiesto di lasciare spazio a contaminazioni irrituali. Citran ha passato delle mattinate al mercato ittico, Battiston ha viaggiato a cento all'ora in barchini di vetroresina in laguna, Paolini è uscito a pescare con pescherecci e piccole barche da laguna. Ognuno di loro aveva un suo accompagnatore nella realtà che poi è diventato anche attore nel film. Contemporaneamente ho chiesto ai non professionisti di trovare un modo per "farsi capire" dagli attori professionisti. E' stato il modo per far loro capire cosa significava recitare” (Segre).
Alla fotografia un maestro incontrastato del cinema italiano, Luca Bigazzi. La laguna, il mare, i pescherecci. Bigazzi intesse ora a tinte pastello ora accese giochi di luce a dare vita e concreta umanità ad ambienti, oggetti, personaggi.
A fine pellicola, estinto il debito e pervenuta la notizia, Li riabbraccerà il figlio lontano. Tornerà a Chioggia per ritrovare Bepi. Troppo tardi. L'uomo è morto lasciando a Li una lettera mai pervenuta. Un fiore di fuoco sperduto in mezzo al blu del mare, in mezzo alla laguna. Un rogo d'onoranze funebri, come si conviene a un vero poeta. Queste le ultime volontà del pescatore croato.







lunedì 16 luglio 2012

Detachment - Il distacco






Un film di Tony Kaye
Con Adrien Brody, Samy Gayle, James Caan, Christina Hendricks, Lucy Liu, Marcia Gay Harden, Brian Cranston, Betty Kaye, Tim Blake Nelson, Blythe Danner, William Petersen
Titolo originale: Detachment
Genere: Drammatico
Durata: 97 min.
Sceneggiatura: Carl Lund
Produzione: Greg Shapiro, Carl Lund, Austin Stark, Benji Kohn
Produttore esecutivo: Adrien Brody
Distribuzione (Italia): Officine UBU
Montaggio: Michelle Botticelli, Barry Alexander Brown
Fotografia: Tony Kaye
Musiche: The Newton Brothers
Scenografia: Jade Healy
Costumi: Wendy Schecter
USA 2011


di Chiara Roggino



E mai mi sono sentito così profondamente distaccato da me e nello stesso tempo così presente nel mondo” (Albert Camus)

Primi, primissimi piani in bianco e nero si lasciano sfogliare dallo spettatore: immagini strutturate come un'intervista, professori demotivati, insegnanti per puro ripiego. Detachment si fa così critica ed esplorazione del sistema scolastico americano. Tony Kaye detesta i film di puro intrattenimento. Al cineasta interessano questioni morali e sociali importanti ( Lake of fire aveva trattato senza peli sulla lingua il tema dell'aborto, American Histotry X era una pellicola sulla questione del razzismo). Detachment parla anche della famiglia, dell'importanza della famiglia: la famiglia è tutto. Il distacco è quello di essere un genitore; Henry Barthes (un emozionante Adrien Brody), il protagonista, troverà la sua strada, quando deciderà di abbracciare un futuro che comporti la cura di una giovane anima perduta, Erica ( la rivelazione Samy Gayle). 




 
L'autore inglese ha diretto prevalentemente spot pubblicitari e video musicali. Dal suo personale background, l'ideazione di disegni animati col gesso su un'immaginifica lavagna: raffigurazione dei pensieri dei personaggi, descrizione dello stato emotivo delle scene di riferimento.
Il film è la storia di un uomo che si perde e nel dolore cerca di nascondere i veri problemi della sua esistenza. Egli è in costante fuga dalla realtà, come fosse coperto da una grande tenda nera che non può vedere. Henry Barthes, giovane supplente, si trova costretto a 'migrare' in un'altra scuola. Dalla vecchia struttura scolastica a quella nuova c'è una gran differenza. L'uomo comincerà a cambiare: la sua visione del sistema educativo diverrà sempre più cinica. Fil rouge, voce narrante della storia è lo stesso Henry, ripreso in primo piano su fondale scuro. 




 

Qual è il dovere di un insegnante? Preoccuparsi di allievi problematici e disagiati o disinteressarsi di loro per innalzare il prestigio della scuola, abbandonarli, integrando il 'personale allievi' con ragazzi 'normali', motivati all'apprendimento? Il liceo dove Henry presta supplenza sarà presto destinato alla chiusura. “Molti insegnanti qui, ad un certo punto, hanno pensato che avrebbero fatto la differenza. So quanto è importante essere guidati e avere qualcuno che ti aiuti a capire la complessità del mondo in cui viviamo. Io non ho mai avuto nessuno mentre crescevo”. ( Henry Barthes)
Il protagonista ha paura di diventare padre, assumendosi responsabilità per lui troppo onerose in un periodo di vita segnato da angosce e disperazione. Paura: per il fatto di non essere all'altezza ( in seguito all'abbandono paterno all'età di sette anni). Paura per non aver mai avuto alle spalle un solido nucleo familiare sui cui poter fare conto. Un nonno, forse stupratore della madre. Una madre: alcolizzata, in perenne crisi, presto suicida. I ricordi di infanzia di Henry, tasselli nella mente del protagonista, emergono di continuo, con prepotenza: immagini confuse, girate con camera a mano, sgranate e sature di cromatismi-filtri sanguigni. “Ogni volta che ci penso io dico che c'era una sensazione. Credo in me stesso. Sono giovane e sono vecchio. Mi sono annoiato a morte così tante volte. Non ce la faccio più, sono andato. Sono come voi”. ( Henry Barthes)
Cosa significa essere insegnante in una realtà disagiata? Rivelatrice sarà la voce di Dean Vargas, professore in perpetuo 'congedo'; egli non farà altro che lasciare messaggi sulla segreteria telefonica della scuola, approntando scuse per non recarsi al lavoro. “E' una faticaccia questa vita. E' attesa, interruzione, espulsione, incontri coi docenti, rinvii di documenti, genitori assenti e i loro figli pericolosi. Loro sono la paura del dolore. Sputano sulla mia anima. Questa umiliazione finirà. La disciplina verrà ristabilita. I ragazzi ci tengono al guinzaglio. Siamo noi quelli sotto giudizio. E' come una dannata follia. Ogni ragazzo ha valore? E' informato e merita un'educazione? Dannati ragazzini che non hanno desideri! Nessun fuoco. Nessuna mente da nutrire.”

Il primo incontro tra Henry ed Erica avviene su un autobus. Primissimo piano di Henry che piange disperato ( dopo aver fatto visita alla clinica in cui è ricoverato il nonno). Dettagli delle calze a rete, scarpe col tacco e minigonna di Erica che pratica sesso orale ad un cliente. La giovane è la pietra angolare del quadro perchè è un personaggio collegato ad Henry, fa parte di Henry. Dice il regista: “ Ho anche questa concezione della fotografia in senso cromatico: contrasti, buio e luce, neuroni sotto controllo e neuroni fuori controllo, capelli neri contro i capelli castani e capelli biondi. Sami Gayle (che interpreta Erica) aveva i capelli castani. Il che per me implica una “zona fuori controllo”, così ho cercato un Henry Barthes che avesse i capelli neri, un uomo calmo, controllato. Ho trovato che Adrien Brody si adattasse alla perfezione. Così l'ho convinto a gridare e urlare e buttare sedie tutt'intorno, l'ho convinto a esplodere e tornare alla calma per ritornare ad essere un uomo sotto controllo, per diventare un genitore”.

Abbiamo la grande responsabilità di guidare i nostri giovani in modo che non finiscano per crollare o arrendersi, diventare insignificanti” (Henry Barthes).
La giovane Meredith, allieva di Henry, tutta angosce, passione per l'arte e talento purissimo, soccomberà a un finale di partita inevitabile e spietato. Alle spalle una famiglia gretta, un padre che non farà altro che scoraggiarla, degradandola, sottolineandone l'aspetto fisico poco piacente e l'impraticabilità di sogni campati in aria. La ragazza si toglierà la vita. Questo è il percorso del protagonista, la storia del distacco. Meredith lo condurrà all'inferno e ritorno. Per il ruolo dell'allieva suicida, Kaye ha subito pensato alla figlia Betty.
Dirà in un'intervista: “ Per quel che riguarda mia figlia Betty, ho sempre pensato a lei (per tre anni in realtà) per interpretare il ruolo di Meredith. Betty non assomiglia al personaggio nella vita reale, lei è molto fiduciosa e molto forte e ultra-determinata a riuscire nella vita, ma ha avuto anche un'esistenza difficile: ho calpestato la mia famiglia quando ero molto giovane. Ero molto egoista e pieno di ego. Betty aveva cinque anni e la prese molto male. Rubino, sua sorella, ne aveva due e non ha mai compreso davvero le mie azioni. Betty ha sofferto molto e credo proprio che abbia portato in superficie quelle emozioni nella sua interpretazione di Meredith. Non ho mai saputo se mi sarebbe stato permesso di scritturare mia figlia come una dei protagonisti, perché sarei stato accusato di nepotismo o qualcosa del genere, ed ero abbastanza preparato. Se avessi trovato qualcuno migliore di lei non avrei avuto scelta e Betty avrebbe rischiato di non parlarmi per anni, ma la verità è che lei è stata assolutamente perfetta durante l'audizione e via via dava sempre il meglio per quel ruolo, la sua recitazione era così dannatamente vera”.
Al termine di pellicola Henry dovrà cambiare nuovamente scuola. Prima lezione. Il racconto La rovina della casa degli Usher diviene metafora di una globale pesantezza ad accomunare l'umanità intera: la descrizione di 'uno stato d'animo'. Una visione apocalittica quella finale. Un'aula deserta, sedie rovesciate a terra, fogli e fogliame secco ovunque. E' la fine del mondo, l'olocausto del sistema umano e scolastico insieme.

Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo attraverso una campagna singolarmente lugubre, fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l’ebbi guardata una sensazione d’insopportabile tristezza mi prese l’anima. Insopportabile, dico, già che non le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore.
Guardavo la scena che mi stava davanti. E lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre come orbite vuote, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo dilegua.
Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo. E fui costretto a ritrarmi sulla conclusione poco soddisfacente che esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno potere di rattristarci fino a un tal punto, ancorché l’analisi di questo potere dipenda da considerazioni troppo profonde rispetto a noi. Pensavo che forse una qualsiasi differenza nella disposizione degli elementi della scena, dei particolari del quadro, sarebbe bastata a modificare o persino forse a distruggere tanta forza di dolorosa impressione spinto da questo pensiero, condussi il cavallo sulla riva scoscesa d’un lugubre stagno d’acque morte che si stendeva, nel suo nero luccicore, presso la dimora; e guardai, ma ne ebbi un tremito ancora più profondo; guardai riflesse, capovolte, le immagini dei giunchi di cenere, dei tronchi sinistri e delle finestre simili ad occhi vuoti.” (Edgar Allan Poe - La rovina della casa degli Usher)



 




venerdì 13 luglio 2012

La pelle che abito






Un film di Pedro Almodovar
Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet
Titolo originale: La piel que habito
Durata: 120 min.
Genere: Drammatico
Soggetto: Thierry Jonquet (romanzo)
Sceneggiatura: Pedro Almodovar, Augustìn Almodovar
Produzione: Augustìn Almodovar, Esther Garcia
Casa di produzione: El Deseo
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: José Salcedo
Musiche: Alberto Iglesias
Scenografia: Antxòn Gomez
Costumi: Paco Delgado, Jean-Paul Gaultier
Spagna 2011

 

di Chiara Roggino.

 



Si può detestare o amare incondizionatamente . Il cinema di Almodovar è cucito ad hoc per uno spettatore che non conosce mezze misure. Il suo ultimo film, “La pelle che abito”, è distribuito nelle sale italiane dal 23 settembre.





Un nuovo film comporta un nuovo “percorso” per un territorio ancora incontaminato, tutto da esplorare. Ci si aggira per le stanze, senza fretta. Il più piccolo dettaglio potrebbe essere fondamentale. Si salgono scale, gradino dopo gradino. Strana mobilia, quadri appesi alle pareti, nudi di donna. Quale sarà il primo colpo di scena? Mentre si muove per le stanze osservando, assorbendo poco a poco l’ambiente che lo circonda, lo spettatore pregusta la manifestazione di quei “segni”: inconfondibili marchi d’autore sparpagliati per vezzo da Almodovar, instancabile "pollicino", ovunque, tra le pagine di una storia ancora tutta a venire. C’è un cartello da leggere, un cancello. Oltre il cancello una strada sterrata. Alla fine della strada una casa e una finestra chiusa dall’esterno. La camera ci mostra per la prima volta il corpo di Vera ( Elena Anaya: bella di una recitazione “tutta occhi”), inguainato in una tuta color carne, teso ad arco, in posizione yoga. L’immagine è sufficiente per innescare un flashback di altri corpi in movimento, donne a scontrarsi come cieche su un palcoscenico. Quando il tempo sembra fermarsi ad accompagnare la rivelazione della bellezza più pura. Era “Café Muller” e c’era un’indimenticabile Pina Bausch. Impossibile allora non commuoversi, insieme a Dario Grandinetti ( Parla con lei, 2002).
Giunti all’ingresso di una sala operatoria, non esiteremo, entrandovi a passo spedito. Ne abbiamo visti tanti: ospedali, sale operatorie, sale di rianimazione. L’ambiente, pallido e sterile, era sempre vivificato dalla presenza di una donna. Quante donne straordinarie!
La clinica che ci apprestiamo a visitare è gestita dal chirurgo estetico Robert Ledgard (Antonio Banderas) e dalla sua équipe. Gli occhi si abituano facilmente all’habitat spettrale illuminato da luci fredde. E’ ora di assistere all’”esperimento”.
Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non bisogna essere tirchi perché una è tanto più autentica tanto più somiglia all’idea che ha di se stessa.” ( Tutto su mia madre, 1999 ) I personaggi di Almodovar gridano fame di coerenza quando l’intervento chirurgico diventa l’ultima spiaggia per salvare la donna che si strazia in un corpo che non le appartiene.
Vicente vive serenamente la sua mascolinità. Tuttavia è qui: giace profondamente addormentato in attesa di una vaginoplastica. L’incontro sbagliato al momento sbagliato. Era ad una festa, ricorda. Aveva preso qualche pasticca di troppo e quella ragazza era così carina. Il ragazzo è ancora all’oscuro: il corpo di cui sta abusando appartiene a Norma, figlia del dottor Ledgard. Quella stessa Norma che, in seguito allo stupro, si ucciderà. La vendetta del padre sarà implacabile.
Tratto dal romanzo “Tarantola” di Thierry Jonquet , “La pelle che abito” segna l’incontro tra Almodovar e il noir. Pensato inizialmente per una resa cromatica in bianco e nero, l’ultima fatica del cineasta castigliano si avvantaggia di una vividità di colori accesi, pennellate decise, congeniali alle “esplosioni” emotive dei protagonisti.
Il rosso: color del fuoco, della pazzia. Rosso come rosso è il sangue. José Luis Alcaine dirige una fotografia di primi piani arroventati: filtri sanguigni campeggiano sui volti a stravolgerne i lineamenti assoggettando l’immagine a un’imperante follia senza rimedio che assorbe uomini e cose indistintamente.
Il nero: è una matita da trucco quando non sottolinea lo sguardo ma diviene unico appiglio per scrivere e ricordare. Un diario su una parete della “cella”: fatto di cifre, segni, strane e multiformi sembianze. Per non impazzire, per mantenere in vita il vero sé al di là delle apparenze, oltre l’”estranea” riflessa allo specchio.
Di tanti segni visivi e visivamente affascinanti, rimane impressa una particolare dissolvenza incrociata. Robert e Vera giacciono nello stesso letto dandosi le spalle. Il regista insiste sui singoli primi piani ravvicinati per enunciare un doppio flashback: quello del dottore, poi quello della ragazza. Entrambi rammentano l’evento che cambiò le loro vite: il ricevimento di nozze di donna Casiva. E’ il turno di Vera e per un attimo il cuscino nero perde consistenza. I colori sfumano per ricomporsi in un’immagine nuova. Ora un altro volto giace accanto a quello di Vera. E’ quello di Vicente. Per un attimo due facce della medesima identità riposano mollemente sul guanciale. Poi, lentamente, il volto di Vera svanisce per lasciar posto allo sfondo della festa.