venerdì 12 ottobre 2012

Monsieur Lazhar








Un film di Philippe Falrdeau
Con Fellag, Sophie Nélisse, Danielle Poulx, Jules Philippe. Emilien Néron
Titolo originale: Bachir Lazhar
Genere: drammatico
Durata: 94 min.
Sceneggiatura: Philippe Falardeau
Produttore: Luc Déry, Kim McCraw
Casa di produzione: Microscope Productions, Les Films Seville Pictures
Montaggio: Stefan Lafleur
Musiche: Martin Léon
Canada 2012


di Chiara Roggino


La musica di Martin Léon scivola lenta sui titoli di testa mentre un rullo di pittura color azzurro pallido ricopre a nuovo le pareti dell’aula scolastica. E’ qui che Martine Lachance si è tolta la vita, è qui che ella ha forse voluto comunicare “un messaggio violento”. “Ma non si può punire Martine Lachance perché Martine Lachance è morta”.





Philippe Falardeau e Monsieur Lazhar mettono davanti allo specchio l’infanzia e la cruda realtà di una prematura dipartita cercata e voluta tramite un atto di mera disperazione. E’ qui che interverrà il neo-maestro di scuola Bachir: un uomo tra i tanti, un “diverso”, rifugiato politico da terra algerina. Ad Algeri “La blanche” egli ha perso quanto più amava: la moglie e le due figlie. “Crisalidi” inermi prenderanno fuoco in un attentato terroristico. L’uomo, ex funzionario, poi proprietario di un ristorante, è solo in terra straniera: un’algida Montreal, coperta da una spessa coltre di neve. Lazhar (uno straordinario Fellag), uomo d’estrema cultura, si improvviserà insegnante per raccogliere l’eredità della moglie, per ritrovare nella fragilità dei suoi allievi la tenerezza delle figlie strappategli via con la forza.
Il pluripremiato Philippe Falardeau è stato recentemente incluso da Variety 2012 all’interno della lista dei 10 cineasti da tenere d’occhio. Noto per “La moitié gauche du frigo”, “Congorama”, e “C’est pas moi, je le jure!”, il suo quarto lungometraggio, Monsieur Lazhar ( candidato all’oscar 2011 quale miglior pellicola straniera), è un adattamento dalla pièce teatrale “Bachir Lazhar” scritta da Évelyne de la Chenelière. Dice Falardeau: “Sono stato toccato dal protagonista. Ho pensato che fosse un personaggio ricco e che avrebbe potuto essere abbastanza ricco per un film. Mi interessava la questione riguardante l’immigrazione e volevo utilizzarla internamente al percorso filmico. Non necessariamente per parlare di immigrati, anche se avrei voluto farlo, ma per raccontare noi stessi attraverso gli occhi di un immigrato. Il film si svolge in una scuola e discorre un po’ su chi siamo e dove siamo, ma attraverso gli occhi di qualcuno che ha origini diverse”.





Il cineasta franco-canadese scrive una sceneggiatura a partire da zero mettendo in atto un investimento creativo non sottovalutabile. Internamente all’allestimento filmico si viene a trovare vis à vis con un protagonista, un carattere forte. Il momento della creazione si dipana attorno a lui. C’è bisogno di tensione drammatica per sostenere l’interesse del pubblico. L’allievo protagonista di Monsieur Lazhar ( Simon) è totalmente assente dallo spettacolo teatrale pertanto il rapporto che ha intrecciato con l’ex insegnante e il suo successivo senso di colpa non fanno parte della messa in scena teatrale. Falardeau aggiunge così personaggi e situazioni accanto al personaggio principale.
Da quanto si vede nella pellicola in Canada un insegnante di scuola muore e un uomo qualunque si presenta dicendo: “Io posso insegnare” e viene assunto all’istante. Nel sistema educativo privato e nelle scuole private il “principale” è praticamente un dittatore. Egli può assumere chiunque gli aggradi. Naturalmente la preside compie un errore madornale. Ma se non lo avesse fatto non avremmo avuto alcuna storia. Monsieur Lazhar dice la verità al funzionario dell’immigrazione e al tempo stesso insegna “abusivamente” in una scuola. E lo fa per buone ragioni. Egli sa di poter aiutare i “suoi” bambini, ma ha anche un bisogno intimo, fisico, di trovarsi in quel determinato luogo. E’ un insegnante “accidentale”. E’ triste che alla fine non possa rimanere nella scuola, ma al tempo stesso il personaggio non è stato concepito per essere un insegnante per il resto della sua vita. In quel particolare momento egli rappresentava la persona giusta al momento giusto.
In qualsiasi luogo si abbia a che fare con numerosi enti sociali ( i genitori, il Ministero della Pubblica Istruzione, consiglio scolastico, insegnanti) si ha la necessità di un numero infinito di regole. Si cerca di prevedere tutto quel che può accadere e tutto diviene estremamente rigido. La preside e gli altri insegnanti non vogliono parlare della morte perché non vogliono sopraffare i bambini. Cosa che è già accaduta. Si ha anche questa esigenza: utilizzare specialisti per tutto, invece di usufruire della persona che è lì ogni giorno con loro, l’insegnante, per parlare di morte e suicidio. Nel film è la psicologa ad entrare in aula e a mettere da parte Lazhar nonostante il maestro non creda sia una buona idea. L’uomo ritiene che dovrebbe spettare a lui soltanto il compito di discutere con i bambini. E’ questione di fiducia nel potere delle parole e della comunicazione.




La fine del film è la correzione di una favola. Questo sarà il modo di Lazhar per dire addio alla classe. Attraverso un nuovo atto di insegnamento e comunicazione egli potrà accomiatarsi. Allora la piccola Alice deciderà spontaneamente di tornare in classe. La bimba ha bisogno di un abbraccio, vuole un abbraccio: lei lo chiede e Bachir contraccambia. Il gesto appare quasi un atto di ribellione: recarsi in un luogo e trasgredire un tabù, fare ciò per cui tutto ha avuto inizio. E’ stato presumibilmente un abbraccio a dare il via al dramma : un abbraccio tra Simon e la sua insegnante.
Dice Falardeau a proposito di Fellag e della scelta che lo ha condotto a farne il protagonista del suo film: “E’ divertente perché è un cabarettista. Mi è piaciuto il suo aspetto. Sono andato a vederlo a teatro. L’ho ascoltato. Egli ha dovuto abbandonare il suo paese a causa della guerra nel 1990. In tal modo conosceva intimamente il carattere del protagonista e ho pensato che avrei potuto utilizzarlo nel film. E’ anche un autore. Scrive romanzi e ha una grande sensibilità. Siamo diventati amici. Non era esattamente quel che stavo cercando in termini di “prestazione”. Era troppo teatrale per me. Un giorno mi disse: “So che pensi che io sia troppo teatrale, ma lavorerò duramente per questo film”. Così mi ha convinto . Come Bachir Lazhar anche Fellag non ha voglia di parlare troppo del suo passato, anche con i giornalisti. Non vuole che diventi un onere per le persone attorno a lui. Ha bisogno di tagliare i ponti con il suo passato per andare avanti”.





lunedì 8 ottobre 2012

Il bacio della donna ragno







Un film di Hector Babenco
Con William Hurt, Raul Julia, Sonia Braga
Titolo originale: Kiss of the Spider Woman
Genere: Drammatico 
Durata: 120' 
Soggetto: Manuel Puig 
Sceneggiatura: Leonard Schrader
Fotografia: Rodolfo Sànchez 
Montaggio: Mauro Alice
Musiche: Nando Cordeiro 
Scenografia: Clovis Bueno
USA, Brasile 1985


di Chiara Roggino



Tanto tempo fa, in un'isola tropicale molto remota, viveva una strana donna...Portava un lungo abito di lamé nero, che le aderiva come un guanto. Ma la poverina era prigioniera di una gigantesca rete di ragno, prodotta dal suo stesso corpo. Un giorno un naufrago approdò sulla spiaggia. Lei lo nutrì, e gli medicò le ferite. Lo curò con amore, e lo riportò alla vita. Quando lui si svegliò, guardò intensamente la Donna Ragno e vide... una lacrima perfetta che scivolava da sotto la sua maschera”.

In principio saranno le note di un valzer: tappeto sonoro malinconico avvolge la sala, quasi una carezza. Alle prime immagini si leva il sipario. Un piano sequenza fluido, lentissimo. La cinepresa descrive senza fretta l'ambientazione della pièce. Quattro pareti di una cella. Un'ombra: filo della biancheria, alcune mollette appese, è incastonata dall'ombra altra delle sbarre di una finestra. Abiti femminili, color pastello, sparsi ovunque. Una bambola sulle coperte. Alle pareti poster di dive del passato, nuvole e stelle disegnate col gesso. Una voce over ci introduce al primo quadro del primo atto: è quella di Luis Molina (William Hurt). D'un tratto l'uomo afferra un asciugamano rosso. Lo avviluppa ai capelli, quasi un turbante. Primo piano di caviglie e piedi dell'uomo per una camminata in bilico su un immaginario trapezio a imitare i passi della fatale chanteuse: Leni Lamaison. Poi tocca al letto di Valentin Arregui (Raul Julia). La sua camicia è lorda: sudore e sangue mescolati insieme.




L'argentino Hector Babenco è per disposizione personale un viaggiatore precoce: dal 1964 al 1968 vive in Europa, barcamenandosi tra i mestieri più disparati (muratore, stiratore, comparsa…). Dal 1969 è in Brasile, a San Paolo. Non ancora trentenne, nel 1975, gira il suo primo lungometraggio (Il re della notte); ma è con il secondo film, Lucio Flavio, il passeggero dell'agonia (1977), basato su fatti di vita vera, che ottiene il primo riconoscimento di critica e di pubblico. Nel 1984 adatta il celebre romanzo dello scrittore compatriota Manuel Puig, dirigendo Il bacio della donna ragno. A supportarlo, un cast internazionale di primissima qualità. Protagonisti William Hurt e Raul Julia, il film vinse premi a Cannes e si aggiudicò quattro nomination agli Oscar. Hurt impugnerà l'ambita statuetta quale miglior interprete maschile.






La pellicola si presenta quale esplorazione di due differenti interiorità umane. Un vincolo indissolubile si viene a creare tra i due protagonisti, uomini agli antipodi le cui circostanze di vita, al presente, sono celate da inquietanti segreti. Il film, tratto dal roacconto di Manuel Puig (coinvolto da Hector Babenco nella stesura dello script), è un dramma mascherato da thriller. Il cineasta diede il la alla sua impresa produttiva nel 1982. Primo ostacolo: convincere Puig a vendere i diritti dell'opera letteraria. Non fu facile. La sfortuna sembrava aver preso il sopravvento quando Burt Lancaster espresse un forte entusiasmo e la volontà di interpretare il ruolo di Molina. Ma la partecipazione dell'attore avrebbe comportato un caro prezzo: Lancaster esigeva l'ultima parola riguardo all'approvazione della sceneggiatura. In ultima analisi, problemi di salute e divergenze creative lo condussero fuori dal set, dando all'astro nascente William Hurt, reduce dal successo de Il grande freddo (Lawrence Kasdan, 1983), la possibilità di intervenire per una parte quanto mai ambita. Il film ebbe grossi problemi in ambito di sovvenzioni. Infine fu appoggiato economicamente da sostenitori indipendenti in Brasile e negli Stati Uniti. La scarsa comprensione della lingua inglese da parte di Babenco portò non poca confusione sul set. Parti della sceneggiatura furono riscritte (da Leonard Schrader e Puig, spesso in disaccordo). Hurt e il regista si scontrarono con tanta violenza da non rivolgersi più la parola.
Il film si svolge quasi per intero entro i confini di una cella in un anonimo paese sudamericano. I due uomini che condividono gli "alloggi" non potrebbero essere più diversi. Molina è un omosessuale in stato di arresto per la corruzione di un minore. Totalmente digiuno di politica, cerca di annullare il suo personale calvario attraverso la fuga in un mondo di fantasia, raccontando ad alta voce e riportando al suo riluttante compagno di cella uno dei suoi film preferiti: un melodramma nazista. Valentin, giornalista di professione, è dissidente politico. Detesta le prospettive di vita di Molina, lungi da ogni impegno morale e civile, ed è visibilmente irritato dall'affetto che l'uomo nutre nei suoi confronti. Terza interprete del film, Sonia Braga. L'attrice ricopre tre ruoli differenti: chanteuse e amante appassionata nel melodramma nazista, donna ragno, protagonista dell'estremo racconto di Molina ed ex fidanzata di Valentin (Marta). Entro i confini della cella, realtà e fantasia si intrecciano indissolubilmente.





Ma risaliamo alla fonte narrativa della pellicola. Il romanzo di Manuel Puig, adattato da Hector Babenco è “ridotto” ad una sola performance-racconto di Molina, in vece dei sei presenti nel romanzo. Tutto ciò sposta altrove le dinamiche strutturate da Puig, conducendo lo sguardo sulla presa di coscienza-liberazione sociale e personale di Luis Molina ( “Dammi la tua parola che non ti farai mai più umiliare da nessuno, e che ti farai rispettare sempre. Promettimi che non ti farai mai più sfruttare. Nessun uomo ha il diritto di sfruttare un altro uomo...). Dice Puig: “ Una volta che ho iniziato a scrivere non riuscivo più a smettere! Il dialogo è stato il motore veicolante per la narrazione, un accordo di parole in cui il non detto conta più del resto (….) I due protagonisti si sfiorano solo a parole: quasi non possano guardarsi l'un l'altro, tanto meno avere un contatto fisico perché sono uomini e la vicinanza carnale all'interno della cella è tabù, cosa proibita”. Parole chiave: Puig, Babenco, cinema, teatro. The Kiss of the Spider Woman, opera di derivazione letteraria, prende vita dalla materia impalpabile di cui sono fatti i sogni, sìcche lo spettatore potrà respirare a pieni polmoni quell'aria e quella polvere di palcoscenico di cui avvertirà il sentore, nitido, seduto in una fila di platea a osservare figure vive e concrete muoversi al di là dello schermo. Lo scambio di battute tra Valentin e Luis è agile, appassionante, per un théâtre de chambre che punta ogni carta su parole, gesti, avvicinamenti e prese di distanza tra protagonisti. Rare le sortite di scena, sporadici gli squarci di esterni fuori cella. Il film prenderà il largo dalle assi di scena solo in extremis, allorché Molina, in seguito alla concessione della libertà condizionata, deciderà di contribuire alla lotta politica per amore del suo compagno di carcere. Un destino deciso in partenza il suo: cadavere, foulard scarlatto legato al collo, verrà abbandonato dalla polizia in una discarica quale oggetto da nulla, di poca importanza.
La narrazione filmica procede tramite un linguaggio per immagini che alterna presente ( la realtà carceraria) a un mondo altro, onirico, intessuto da Molina con la grazia di un aracnide che tesse la propria tela: per proteggersi ed evadere da una cruda realtà che non concede via di fuga.
Il montaggio alternato per dissolvenze incrociate è un perpetuo girotondo, avanti e indietro, tra un microcosmo dipinto a tinte accese e una cellula favolistica in cui a predominare saranno filtri color seppia. Sonia Braga, attrice di provenienza dichiaratamente soap operistica, spicca per una recitazione volutamente mélo, quasi una parodia della Divina Garbo. La sua Leni si muove sulla scena per una gestualità eccessiva, ridondante, una mimica facciale portata all'esasperazione da mosse e mossette artefatte nella loro fin troppo esplicita drammaticità d'intenti. Di suo, all'interno dell'excursus-percorso di formazione che vede avvicinarsi i due protagonisti reali della fiction, Hurt non passa certo inosservato. Un ruolo oltre la semplice osticità quello di Molina, in perpetuo equilibrio, accompagnato dal rischio costante di passare da personaggio di carne e sentimenti a macchietta, feticcio gay , ridicolo nonché poco credibile. Ma qui Hurt si gioca tutte le sue carte. Sa dove andare a parare, sempre e comunque. Sua una recitazione minimale per un uso del corpo e degli sguardi realistico e pulsante verità oltre la quarta parete del jeu théatral intessuto da Babenco. Malinconico, struggente, perfetto. Così la battuta Credi che sia facile trovare un vero uomo? Uno che sia umile, ma abbia la sua dignità. Da quanti anni lo cerco, da quante notti! Quante facce ho visto piene di disprezzo e d'inganno! sarà l'estrema richiesta d'aiuto di un personaggio vivo, quantomai reale per un performer capace di trascinarsi dietro una scia di spettatori: attenti a carpire ogni suo sguardo, avidi di conoscere la sua storia e il suo percorso di sofferenza, la sua vita d'attesa del nulla.




sabato 29 settembre 2012

Rosemary's baby





Un film di Roman Polanski
Con Mia Farrow, John Cassavetes, Ruth Gordon,Sidney Blackmer, Maurice Evans
Genere: thriller/horror
Durata 136 min.
Soggetto: Ira Levin ( romanzo)
Sceneggiatura: Roman Polanski
Produzione: William Castle
Fotografia: William Fraker
Montaggio: Sam O'Steen, Bob Wyman
Musica: Krzysztof Komeda
Scenografia: Richard Sylbert
USA 1968

di Chiara Roggino


Una lenta panoramica a indagare il cielo di New York: piano sequenza sui tetti della Big Apple, alberi, giardini. E d'un tratto la cinepresa imbocca una direzione nuova. Lenta discesa verso il basso a inquadrare il Branford, luogo di fantasmi e stregonerie, claustrofobiche allucinazioni. Una "doppia scrittura" a livello registico-narrativo quella di Roman Polanski per Rosemary's baby per una duplice interpretazione affidata allo spettatore. I mostri, spettri invocati dalla fantasia del regista sono frutto di una messinscena oggettiva o mere proiezioni soggettive di Rosemary ( Mia Farrow)? Un incastro di oggettività e soggettività fuse assieme quello allestito dal cineasta polacco. E' questo a suscitare nel pubblico quel surplus di claustrofobica angoscia e terrore. Labilità tra verosimile e inverosimile. Roman Polanski: nomade, cosmopolita. Urge in lui la necessità di andare alla ricerca di uno standard tecnico-produttivo d'altro livello per dare vigore nuovo all'attività di un instancabile fautore per idee sempre nuove. Hollywood è il luogo in cui tutto ciò si concreta. Rosemary's baby, pellicola di labile inserzione in un genere ben definito (definirlo horror sarebbe a dir poco riduttivo), esce nelle sale nel 1968. Il film diviene inevitabilmente un simbolo di quel cambiamento irreversibile messo in atto a fine anni sessanta. Una nuova era spalancava allora le sue porte per un mutamento sociale di non sottovalutabile importanza. Il merito da attribuire a Polanski è quello di descrivere in maniera più che coraggiosa l'occultismo insito nella società altolocata di New York. La location, il Dakota (il Branford nel film) è un edificio vero, in mattoni e calcina. Ai suoi tempi il palazzo attirò elementi eccentrici dell'alta società newyorkese. La congrega malefica che complotta alle spalle di Rosemary non è composta da streghe o individui mostruosi, ma da persone distinte e medici prestigiosi (da rimarcare la prova d'attrice di Ruth Gordon, strepitosa ed eclettica, vincitrice di un oscar, nelle vesti della fin troppo premurosa vicina: Minnie Castevet).






Voci insistenti (per lo più documentate) dichiarano che Anton La Vey, fondatore della Chiesa di Satana, avesse ricoperto all'interno del percorso filmico il cameo di Satana in persona durante la scena dell'amplesso e che si fosse inoltre reso disponibile in qualità di consulente per la realizzazione dell'opera. Ma La Vay rimase collegato all'aura misteriosa che avvolge Rosemary's baby per un altro motivo: Susan Atkins, membro della famiglia Manson che contribuì al raccapricciante omicidio di Sharon Tate (allora giovane moglie di Polanski) era una ex seguace di La Vey. Il sangue: tema riproposto dal cineasta più e più volte, in maniera morbosa, insistente. Rosemary teme di fare un semplice prelievo laddove sarà nel dubbio di essere incinta. E ancora la parola sangue (blood) ad essere segnata sul calendario dalla protagonista come memorandum per la visita medica successiva. Lo stesso nome della vittima prescelta dalla congrega allude visibilmente a un fiore: la rosa, rosa rossa così come i vasi regalati dal marito Guy (John Cassavetes) traboccheranno di rose sanguigne. E ancora rosso il colore dall'abito indossato dalla donna la notte del concepimento maledetto. Rosso a marchiare il corpo nudo della protagonista durante il sabba. Il Branford, da edificio luminoso alla luce delle riprese d'inizio pellicola si farà poco alla volta sempre più tetro e claustrofobico. Prendiamo in esame la scena in cui Rosemary e Guy passano la loro prima notte nell'appartamento. Dalla finestra si intravedono sagome oscure di palazzi ed edifici fatiscenti (palese richiamo a L'inquilino del terzo piano). La protagonista sarà allora ripresa dalla vita in giù (ad essere inquadrate solo le gambe) mentre si avvicina al ripostiglio (quasi un sentore minaccioso di quello che avverrà in seguito).






Quella che potremmo definire vittima sacrificale è chiara rappresentazione di quella società tradizionale e ingenua dell'America tra gli anni cinquanta e sessanta (traboccante ideali e speranze). Ma eventi scioccanti lasciarono il marchio nell'opinione pubblica: la misteriosa morte di JFK, Marilyn Monroe e Martin Luther King. Orribili omicidi rituali ad opera di Manson e del Figlio di Sam provocarono paura e orrore. Un importante cambiamento nella vita culturale americana, insomma. Rosemary's baby scopre le carte del funzionamento di una congrega di streghe internazionale, la società americana scopre il lato oscuro della sua attività politica interna. Il film mescola sapientemente iconografia cattolica e satanica. Il magistrale piano sequenza allucinatorio della Cappella Sistina durante il rito, l'apparizione di un fantomatico pontefice che porge alla protagonista la mano da baciare (ma al dito indossa lo stesso ciondolo contenente radice di tanis).
Rosemary, recatasi al poi mancato appuntamento con Hutch (Maurice Evans) contemplerà una vetrina in cui è stato allestito un presepe (Maria e Gesù tra le braccia). Rose-Mary: la Vergine trasfigurata da Polanski in madonna nera.




Impressionante sarà il mutamento, trasformazione fisico-psichica della protagonista nonché della Farrow all'interno del film. E' risaputo che la donna, allora sposata con Frank Sinatra, ricevette sul set le carte del divorzio. La cosa la sconvolse a tal punto che Polanski temette per un mancata conclusione di riprese. Fu la stessa Farrow a tagliarsi maldestramente i capelli in un raptus di autolesionismo. Allora venne chiamato con urgenza il famoso coiffeur delle dive Vidal Sasoon che fece quel che poté per aggiustare una capigliatura all'ultimo stadio. "La mia intenzione è quella di criticare una società come ne Il coltello nell'acqua", dirà Polanski. E ancora "Questo è quello che vorrei fare e dire tramite i miei film. Ad interessarmi non sono gli aspetti metafisici. No. Essi sono per me solo temi affascinanti e divertenti, come lo sono per i bambini. Se non dico nulla di importante nei miei film è perché mi risulta troppo difficile esprimerlo in pellicola. Se so cosa voglio dire, la dico". Un aneddoto divertente all'interno della lavorazione del film. Quando Rosemary chiama il collega del marito, rimasto cieco in seguito ad una fattura, la voce dall'altra parte della cornetta sarà quella di Tony Curtis. La Farrow non sapeva chi avrebbe risposto al telefono, per questo dimostrò una leggera confusione nel sentire una voce familiare non bene identificata. Questo era esattamente l'effetto ricercato da Polanski. Rosemary's baby, capolavoro assoluto nella storia del cinema. Poco importano le definizioni. Che sia un film horror o meno, rimarrà una pellicola sempre pronta ad inquietare spiazzando lo spettatore dalla prima all'ultima scena, visione dopo visione.




 

giovedì 20 settembre 2012

Anton's right here






Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia


Un film di Lyubov Arkus
Titolo originale: Anton tut ryadom
Con Anton Kharitonov, Rinata Kharitonova, Vladimir Kharitonov
Genere: documentario
Durata:120 min.
Sceneggiatura: Lyubov Arkus
Fotografia: Alisher Khamidkhodzaev
Montaggio: Georgij Ermolenko
Produzione: Kinokompaniya CTB, Masterskaya Seance
Russia 2011


di Chiara Roggino


Cappello a visiera calcato sul capo, Anton scrive sulla sabbia, osserva il mare: piccole onde lambiscono i piedi del ragazzo. L'emozione è palpabile, pieno il contatto con la natura.
"Anton è qui accanto". Tutte le mattine l'identica domanda: "Chi sono io?". "Questa storia ha inizio quattro anni fa", racconta il giovane membro dell'organizzazione di volontariato ucraina che opera per la rivista gestita dalla casa editrice Séanse. Egli sarà voce narrante, fil rouge del racconto documentaristico intessuto da Lyubov Arkus. Nata a Leopoli nel 1960, si laurea presso l'università statale pan-russa di cinematografia (VGIK) con una tesi in scenografia e studi cinematografici. Lavora in seguito collaborando con Viktor Sklovskij in veste di segretaria letteraria e revisore di sceneggiature presso gli studi Lenfilm. Nel 1993 crea e diventa caporedattrice della casa editrice Séanse. Creatrice e compilatrice di un'enciclopedia del cinema in sette volumi, Arkus viene insignita di numerosi riconoscimenti professionali.
Una lenta carrellata a seguire il protagonista che cammina a passo lento, imprimendo orme nella neve. Anton è un ragazzo autistico, la Colonia Omega un istituto psichiatrico che accoglie malati affetti dal medesimo handicap. I giovani di Séanse riprendono con la telecamera i suoi primi spostamenti all'interno della struttura. "Anton reagirà con disperazione alla notizia della nostra partenza". Diviso in capitoli,
Anton's Right Here è "la storia di come una persona si è riconosciuta nell'altra". La madre del giovane è stata colpita da un male incurabile ("Lui non ha nessuno tranne noi"). "Che fare di lui? Onestamente non lo so", dirà il padre. Questo è il vero inferno, un calvario che si prolunga e dilata in un lento percorso di stagioni diverse: clinica dopo clinica, istituto dopo istituto. Un primissimo piano viene a mostrarci il viso di Anton: occhi nell'oscurità, due buchi neri. "C'è una gran massa di gente, ma nessuna presenza".
Qual è il problema prioritario, quello che richiede una soluzione immediata? Fare in modo che il giovane si integri nella società, imparando un mestiere. Per Anton, la cosa pare impossibile. Dirà il genitore di uno degli "internati" nella casa di cura del Villaggio Svetlana: "Queste persone hanno un bisogno struggente d'essere amate". E ancora: "Francamente, io non so che fare". Renata, madre di Anton, muore quando "la cinepresa si è spenta". I suoi ultimi giorni di vita saranno la perpetua richiesta di "premere il tasto
play" per vedere e rivedere all'infinito le riprese di quel figlio che non è mai riuscita a conoscere fino in fondo. I volontari di Séanse, iniziato il percorso di "accudimento" di Anton, affidano al ragazzo un tema: "La gente". "La gente sopporta. La gente non sopporta". Anton ha imparato a sopportare.



 



martedì 18 settembre 2012

La cinquième saison





Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia



Un film di Peter Brosens e Jessica Woodworth
Con Sam Louwyck, Aurélia Poirier, Django Schrevens, Gill Vancompernolle
Genere: drammatico
Durata: 93 min.
Sceneggiatura: Peter Brosens, Jessica Woodworth
Fotografia: Hans Bruch Jr.
Montaggio: Peter Brosens
Scenografia: Igor Gabriel
Costumi: Claudine Tychon
Musica: Michel Schöpping
Produzione: Entre Chien et Loup, Unlimited, Molenwiek Film BV, Bo Films
Belgio, Olanda, Francia 2012
di Chiara Roggino

"Dio inverno, ti accusiamo per i crimini che hai commesso durante l'anno".

Una tettoia di alberi, rami scheletrici incombono minacciosi mentre un corvo vi si addentra in volo: cupo presagio di una catastrofe vissuta al presente dagli abitanti di un piccolo villaggio perso nelle Fiandre. La ragazza dai lunghi capelli, primo piano per lineamenti smorti, spauriti, sguardo vacuo perduto nel nulla, invia al cielo un grido disperato: l'imitazione del canto d'un uccello a richiamare il cinguettante popolo migratore, assente ingiustificato da ormai troppo tempo.




 
La Cinquième saison, film diretto dal duo Jessica Woodworth-Peter Brosens è l'estremo capitolo di una trilogia dedicata al conflitto tra uomo e natura. Kahdak: tra le steppe della Mongolia un gregge di pecore è misteriosamente sterminato da una pestilenza. Altiplano: un altopiano delle Ande peruviane è contaminato dal mercurio. Questa volta, la location dell'ultima pagina messa a nudo dai due cineasti sono le Fiandre - regione natale di Brosens -, là dove a morire è tutto, non gli animali e gli alberi soltanto, ma anche l'uomo.
Il caos che precipita gli abitanti del villaggio in un vortice senza fondo si fa metamorfosi via via sempre più tangibile. Le mucche non producono più latte, i pesci periscono, cadaveri nel letto del fiume, le api si negano all'impollinazione ("Prima spariscono le api, poi il resto"), l'aratro si mette in moto senza alcun fine praticando nel terreno arido e brullo cerchi concentrici su un suolo infruttifero; neve, pioggia, cadono incessantemente dall'alto dei cieli per nuvole in viaggio, ombre scure e minacciose quando una civetta dagli occhi penetranti compare in primo piano, presagio di calamità e di morte. I popolani giungeranno ad aggregarsi in una setta: ognuno di loro indosserà una maschera dal naso adunco a celare e spersonalizzare identità e fattezze. L'estrema sconfitta dell'uomo: la deturpazione identitaria messa in atto dalla Natura. È quest'ultima a scarnificare nell'intimo, poco alla volta, il singolo individuo.




 Defraudati da un ambiente che li espelle con forza, agli uomini e alle donne "senza volto" non resta che annullare il proprio sé all'interno del gruppo per un pensiero che riecheggia all'unisono quasi si fosse propagata, a prevalere su quella personale, una malsana coscienza collettiva. Il percorso filmico è suddiviso in capitoli: autunno, primavera, estate. La quinta stagione cui il titolo allude invita lo spettatore a guardare oltre. Al di fuori delle classiche quattro, si cela una dimensione alternativa a fendere, quasi uno strappo, una realtà devastante. Nel paesino stravolto da neve e vento cova qualcosa. A livello inconscio, i suoi "inquilini" vivono influenzati da un tetro inafferrabile qualcosa.





 La cinquième saison si manifesta quale opera di linguaggio filmico purissimo; alimentato da quiete parvenze, pur di rovente inesausta fiamma: "Devi avere il caos dentro per generare un fuoco danzante". Quando padre e figlio "forestieri" (il primo saltimbanco-ciarlatano, il secondo disabile) si decidono ad abbandonare una realtà fisica che ignora l'aggettivo "umano", saranno inevitabilmente presi di mira da un "sabba di streghe": rapiti, legati, messi al rogo. La comune valligiana non conosce pietà, rifiutando senza distinzioni ogni esilio volontario. L'intera collettività di abitanti è sottoposta al vetro di una lente di ingrandimento. Così, la pellicola si paleserà quale profezia per un genere umano e una natura che sopravviveranno anche in un lontano domani. Permarranno forme di vita alternative, capaci di adattarsi a nuove misteriose circostanze. Animali, alieni o struzzi forse vedranno la luce di una quinta stagione.






venerdì 14 settembre 2012

Intervista ad Andrea Segre







Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia

 


di Chiara Roggino


A un anno esatto di distanza dal successo di pubblico e critica di Io sono Li, abbiamo incontrato Andrea Segre, di ritorno a Venezia per "ripresentare" il suo lungometraggio, in lizza per il Premio Lux e all'uopo ospitato in uno dei segmenti "collaterali" delle Giornate degli Autori. Ecco il resoconto di questa breve chiacchierata in esclusiva.


Hai alle spalle un'ampia esperienza nell'ambito del cinema documentario. Come e perché è nata l'idea di dirigere il tuo primo film di fiction?Non ho mai studiato Storia del Cinema, né frequentato scuole di cinema. Ho cominciato la mia avventura registica in qualità di realizzatore di documentari. Dopo un intenso percorso in ambito documentaristico ho avvertito l'esigenza di testare le mie capacità di lavorare con veri attori, imboccando una strada alternativa. Nel frattempo avevo incontrato la vera Shun Li, barista presso l'Osteria Paradiso, location della realizzazione filmica. Si è presentata pertanto l'occasione ideale per raccontare una storia che partisse da un elemento reale e da un luogo reale per divenire in seguito e al medesimo tempo finzione, poesia, metafora. Così è nata questa mia ultima gratificante esperienza. Io sono Li è stata una conferma: è fattibile unire documentario e finzione trovando il giusto compromesso per creare un ponte tra due isole, due territori che si contaminano vicendevolmente divenendo complementari. È questo un terreno di gioco e di sfida culturale che mi ha dato grandi soddisfazioni.
Venezia, la realtà chioggiotta: è la tua terra. Come ti sei trovato a dirigere nella piccola cittadina lagunare?
È la città dove mia mamma è nata e in cui in parte sono cresciuto. Città che sento un po' come casa madre. Un produttore tempo fa mi diceva: "Tanto prima o poi ogni regista finisce per parlare di sua mamma". Così è capitato anche a me. È un luogo che amo molto, un territorio che ha una forte identità-capacità di intrattenere un rapporto tra identità sociale e territorio. È stato quindi un piacevole reimmergersi in alcuni ricordi e al tempo stesso una sfida nel riuscire a raccontare quel luogo così identitario e così mio anche tramite lo sguardo di una straniera, di una donna molto diversa, molto lontana da quella realtà.
Vi sono citazioni poetiche all'interno del percorso filmico di Io sono Li. Quali? Ce ne spiegheresti il significato?
È un film che "viaggia" molto tra realtà e metarealtà. Una pellicola che cerca di unire sguardo documentaristico a sguardo poetico. Ho affrontato la sfida del raccontare la storia di una donna semplice ma profondamente dignitosa e coraggiosa, protagonista che filtra la realtà circostante attraverso il suo sguardo poetico, quasi sublime. Io e il cosceneggiatore Marco Petrelli abbiamo ritenuto giusto inserire nel film delle citazioni poetiche. La frase che tu riportavi (
"Il mare è maschio, la laguna è femmina", n.d.r.) è tratta da Il vecchio e il mare di Hemingway. Vi è poi tutto un percorso che insegue la produzione poetica di Qu Yuan. Io credo che in fondo la poesia sia lo strumento letterario più coraggioso nel rapporto col tuo intimo. È quello che centra il bersaglio di quella parte di tensione emotiva che fa parte del raccontare noi stessi. La poesia e con la poesia la canzone giacché la canzone d'autore è anche poesia. Ho amato molto confrontarmi con questo strumento.






Gli attori hanno attraversato per tua volontà un lungo "periodo di addestramento" per integrarsi nella realtà chioggiotta. Come è stato messo in pratica questo procedimento di preparazione?
Se cerchi di costruire delle contaminazioni devi avere pazienza. Non puoi pensare di generarle in brevi periodi. Sì, certo, possono esserci dei momenti di grazia in cui il lavoro riesce a concretizzarsi in breve tempo. Tuttavia, là dove decidi di scavare in merito alla profondità di questi particolari incontri, allora hai bisogno di tempo e spazio. Abbiamo dunque invitato gli attori professionisti a recarsi a Chioggia prima del tempo per stare nei bar, per andare a pescare con i pescatori del luogo. Contemporaneamente, ho chiesto ai pescatori chioggiotti di imparare a conoscere il linguaggio cinematografico.
Parlaci del tuo rapporto di collaborazione con Luca Bigazzi.
Mi ha insegnato buona parte di ciò che è fotografia nel cinema. Non avendo mai frequentato scuole di cinema, né messo in pratica nulla a livello tecnico, ho sempre improvvisato il mio sguardo sulla realtà. Luca mi ha aiutato a dare a questa improvvisazione, a questa intuizione, uno spessore artigianale: sapere come si trasformano le intuizioni in scelte fotografiche consapevoli affrontando le motivazioni inerenti al cosa e al come si vuole affrontare un percorso narrativo tramite immagini.
Io sono Li è in lizza al Premio Lux in competizione con Tabù di Miguel Gomes. Come ti rapporti innanzi al conseguimento di questo nuovo traguardo?
Il Premio Lux è uno fra i premi più intelligenti che sussistano all'oggi. Traducendo i film in ventitré lingue dai un valido supporto alla distribuzione nei paesi europei: un aiuto e un sostegno concreto molto fattivo, pratico e attuativo. Allo stesso tempo è un premio che ha il coraggio di abbracciare quella che è la dimensione storicamente più complessa e più incerta dell'identità europea: il confronto tra differenze e tensioni.


Problemi a livello distributivo? Quando avremo il piacere di acquistare il tuo film in DVD?
Mi dicono che il DVD uscirà a novembre-dicembre. La distribuzione è stata complessa, così come per gran parte delle opere prime. Si continua ad avere a disposizione
budget minimi nel sistema produttivo e distributivo, ma è stata una sfida che abbiamo percorso insieme a Francesco Bonsembiante e Francesca Feder con la voglia di costruire un progetto insieme, avvertendolo in qualità di sfida culturale e non soltanto come progetto finanziario.
Quale l'accoglienza di Io sono Li in Francia?
Molto buona. Ha avuto un'ottima critica, ottime recensioni di stampa, raggiungendo anche un risultato molto positivo a livello di pubblico. Durante un regime distributivo di oltre un anno abbiamo convogliato nelle sale circa novantamila spettatori.







martedì 11 settembre 2012

Bella addormentata


Diari veneziani: 69ª Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia


Un film di Marco Bellocchio
Con Toni Servillo, Alba Rohrwacher, Isabelle Huppert, Roberto Herlitzka, Maya Sansa, Pier Giorgio Bellocchio, Gianmarco Tognazzi, Brenno Placido
Durata: 115 min.
Genere: drammatico
Soggetto: Marco Bellocchio, Veronica Raimo, Stefano Rulli
Produttore esecutivo: Fabio Massimo Cacciatori, Franco Bevione
Fotografia: Daniele Ciprì
Montaggio: Francesca Calvelli
Scenografia: Marco Dentici
Italia, Francia 2012


di Chiara Roggino


Come voterai?”

Non lo so”

Come non lo sai?”

E' una questione di vita e di morte...”

Uliano ( un Toni Servillo in stato di grazia) si aggira senza meta per le strade di Roma. E' ormai notte. Sguardo rivolto verso il basso, il protagonista parla ad alta voce tra sé e sé. Il suo, un sofferto soliloquio. Uomo, senatore, padre, marito. La moglie giace in un letto d'ospedale, malata di cancro all'ultimo stadio. “Amore mio, aiutami. Sono stanca. Ti prego”. Un gesto coraggioso, atto estremo di profondo affetto volto a graziare una non esistenza marchiata dal dolore, Uliano stacca i macchinari che tengono in vita la donna. Subito dopo, non resta che un abbraccio disperato. L'uomo afferra con forza la sua compagna di vita: ormai cadavere, ormai in pace. Alcuni atti d'amore si pagano a caro prezzo. Certi slanci di profonda empatia umana costano, si imprimono a fondo a tatuare pelle e anima assieme.




 

 

Bella addormentata, trentesima pellicola di Marco Bellocchio, si dipana, racconto corale, per un intrecciarsi di voci-sguardi molteplici. Non attendetevi una fedele narrazione del Caso Englaro, pur fondamenta della struttura narrativa del film. La pellicola, ispirata agli eventi riguardanti Eluana, fatti che segnarono nel profondo le coscienze politiche e civili italiane, è di esclusiva proprietà dell'autore, profondamente sua fino all'ultima sequenza. Una storia che affronta un tema difficile e rischioso progredendo in perfetto equilibrio per una regia intensa che tratteggia situazioni umane con estrema delicatezza.Mamma, mi hai sempre insegnato che io sono un guerriero. Ora tocca a te”. A parlare è Maria (Alba Rohrwacher), figlia di Uliano. La giovane donna ( il cui nome allude palesemente alla Vergine) coltiva una cristianità pura e profondamente intatta. Così come il padre, anche lei sale sul treno, dirigendosi verso la capitale. Ella intende partecipare alla pubblica manifestazione di comune cattolico dissenso nei confronti della scelta dei famigliari dell'Englaro. Scelta intrapresa in virtù del testamento biologico rilasciato dalla bella addormentata prima del suo eterno assopirsi.

 

 

 

 

Personaggi accomunati da comune dolore, tra scelte di vita e di morte, si susseguono internamente al percorso filmico tramite un uso magistrale di montaggio alternato. Tema oltremodo scomodo quello affrontato dal regista piacentino. Presto, fin dalle prime immagini offerte agli occhi dello spettatore, ci renderemo conto ( Che gradita riconferma!) di trovarci innanzi a un cineasta di consolidata professionalità, un abile mestierante che conosce il fatto suo. Tuttavia, non possiamo eludere, rimarcandole, alcune evidenti lacune a costellare la pellicola: macchie scure ad offuscare un film di forte impatto emotivo, un racconto per immagini che attanaglia le viscere aggredendo lo spettatore nell'intimo. Un surplus di dialoghi mal giocati, tortuosi, sovrabbondanti, annientano in parte una sceneggiatura intessuta con cura maniacale, quanto mai efficace. Così risulterà palese la discrepanza-netto distacco di prove attoriali non livellate. A personaggi interpretati con magistrale talento di performer ( uno fra tutti, il magistrale Toni Servillo) si alterneranno interpretazioni poco credibili, fuori luogo e fuori parte. Così risulterà forzato il pianto della Divina Madre ( Isabelle Huppert), attrice teatrale in “ritiro monastico” in seguito alla caduta in coma della giovane figlia.

 

 

 

 

La donna versa lacrime, giorno dopo giorno, pregando affinché il frutto del suo ventre torni alla vita. Evidente l'allusione dialogica dell'Huppert alla parabola del Vengelo di Luca: “ (…) Ma Gesù che aveva sentito disse al padre: Non temere, soltanto abbi fede e sarà salva. E, arrivato alla casa, non permise che alcuno vi entrasse con lui, salvo Pietro, Giacomo e Giovanni, il padre e la madre della bambina. Tutti piangevano e facevano lamento su di lei. Ma egli disse: Non piangete, non è morta, ma dorme. E ridevano di lui, sapendo che era morta. Ma egli la prese per mano e ad alta voce esclamò: Fanciulla, sorgi! Quella si rianimò e all'istante si rizzò in piedi. Gesù ordinò di darle da mangiare. I genitori furono sconvolti. Ma egli raccomandò loro di non raccontare a nessuno ciò che era accaduto”.