lunedì 16 luglio 2012

Detachment - Il distacco






Un film di Tony Kaye
Con Adrien Brody, Samy Gayle, James Caan, Christina Hendricks, Lucy Liu, Marcia Gay Harden, Brian Cranston, Betty Kaye, Tim Blake Nelson, Blythe Danner, William Petersen
Titolo originale: Detachment
Genere: Drammatico
Durata: 97 min.
Sceneggiatura: Carl Lund
Produzione: Greg Shapiro, Carl Lund, Austin Stark, Benji Kohn
Produttore esecutivo: Adrien Brody
Distribuzione (Italia): Officine UBU
Montaggio: Michelle Botticelli, Barry Alexander Brown
Fotografia: Tony Kaye
Musiche: The Newton Brothers
Scenografia: Jade Healy
Costumi: Wendy Schecter
USA 2011


di Chiara Roggino



E mai mi sono sentito così profondamente distaccato da me e nello stesso tempo così presente nel mondo” (Albert Camus)

Primi, primissimi piani in bianco e nero si lasciano sfogliare dallo spettatore: immagini strutturate come un'intervista, professori demotivati, insegnanti per puro ripiego. Detachment si fa così critica ed esplorazione del sistema scolastico americano. Tony Kaye detesta i film di puro intrattenimento. Al cineasta interessano questioni morali e sociali importanti ( Lake of fire aveva trattato senza peli sulla lingua il tema dell'aborto, American Histotry X era una pellicola sulla questione del razzismo). Detachment parla anche della famiglia, dell'importanza della famiglia: la famiglia è tutto. Il distacco è quello di essere un genitore; Henry Barthes (un emozionante Adrien Brody), il protagonista, troverà la sua strada, quando deciderà di abbracciare un futuro che comporti la cura di una giovane anima perduta, Erica ( la rivelazione Samy Gayle). 




 
L'autore inglese ha diretto prevalentemente spot pubblicitari e video musicali. Dal suo personale background, l'ideazione di disegni animati col gesso su un'immaginifica lavagna: raffigurazione dei pensieri dei personaggi, descrizione dello stato emotivo delle scene di riferimento.
Il film è la storia di un uomo che si perde e nel dolore cerca di nascondere i veri problemi della sua esistenza. Egli è in costante fuga dalla realtà, come fosse coperto da una grande tenda nera che non può vedere. Henry Barthes, giovane supplente, si trova costretto a 'migrare' in un'altra scuola. Dalla vecchia struttura scolastica a quella nuova c'è una gran differenza. L'uomo comincerà a cambiare: la sua visione del sistema educativo diverrà sempre più cinica. Fil rouge, voce narrante della storia è lo stesso Henry, ripreso in primo piano su fondale scuro. 




 

Qual è il dovere di un insegnante? Preoccuparsi di allievi problematici e disagiati o disinteressarsi di loro per innalzare il prestigio della scuola, abbandonarli, integrando il 'personale allievi' con ragazzi 'normali', motivati all'apprendimento? Il liceo dove Henry presta supplenza sarà presto destinato alla chiusura. “Molti insegnanti qui, ad un certo punto, hanno pensato che avrebbero fatto la differenza. So quanto è importante essere guidati e avere qualcuno che ti aiuti a capire la complessità del mondo in cui viviamo. Io non ho mai avuto nessuno mentre crescevo”. ( Henry Barthes)
Il protagonista ha paura di diventare padre, assumendosi responsabilità per lui troppo onerose in un periodo di vita segnato da angosce e disperazione. Paura: per il fatto di non essere all'altezza ( in seguito all'abbandono paterno all'età di sette anni). Paura per non aver mai avuto alle spalle un solido nucleo familiare sui cui poter fare conto. Un nonno, forse stupratore della madre. Una madre: alcolizzata, in perenne crisi, presto suicida. I ricordi di infanzia di Henry, tasselli nella mente del protagonista, emergono di continuo, con prepotenza: immagini confuse, girate con camera a mano, sgranate e sature di cromatismi-filtri sanguigni. “Ogni volta che ci penso io dico che c'era una sensazione. Credo in me stesso. Sono giovane e sono vecchio. Mi sono annoiato a morte così tante volte. Non ce la faccio più, sono andato. Sono come voi”. ( Henry Barthes)
Cosa significa essere insegnante in una realtà disagiata? Rivelatrice sarà la voce di Dean Vargas, professore in perpetuo 'congedo'; egli non farà altro che lasciare messaggi sulla segreteria telefonica della scuola, approntando scuse per non recarsi al lavoro. “E' una faticaccia questa vita. E' attesa, interruzione, espulsione, incontri coi docenti, rinvii di documenti, genitori assenti e i loro figli pericolosi. Loro sono la paura del dolore. Sputano sulla mia anima. Questa umiliazione finirà. La disciplina verrà ristabilita. I ragazzi ci tengono al guinzaglio. Siamo noi quelli sotto giudizio. E' come una dannata follia. Ogni ragazzo ha valore? E' informato e merita un'educazione? Dannati ragazzini che non hanno desideri! Nessun fuoco. Nessuna mente da nutrire.”

Il primo incontro tra Henry ed Erica avviene su un autobus. Primissimo piano di Henry che piange disperato ( dopo aver fatto visita alla clinica in cui è ricoverato il nonno). Dettagli delle calze a rete, scarpe col tacco e minigonna di Erica che pratica sesso orale ad un cliente. La giovane è la pietra angolare del quadro perchè è un personaggio collegato ad Henry, fa parte di Henry. Dice il regista: “ Ho anche questa concezione della fotografia in senso cromatico: contrasti, buio e luce, neuroni sotto controllo e neuroni fuori controllo, capelli neri contro i capelli castani e capelli biondi. Sami Gayle (che interpreta Erica) aveva i capelli castani. Il che per me implica una “zona fuori controllo”, così ho cercato un Henry Barthes che avesse i capelli neri, un uomo calmo, controllato. Ho trovato che Adrien Brody si adattasse alla perfezione. Così l'ho convinto a gridare e urlare e buttare sedie tutt'intorno, l'ho convinto a esplodere e tornare alla calma per ritornare ad essere un uomo sotto controllo, per diventare un genitore”.

Abbiamo la grande responsabilità di guidare i nostri giovani in modo che non finiscano per crollare o arrendersi, diventare insignificanti” (Henry Barthes).
La giovane Meredith, allieva di Henry, tutta angosce, passione per l'arte e talento purissimo, soccomberà a un finale di partita inevitabile e spietato. Alle spalle una famiglia gretta, un padre che non farà altro che scoraggiarla, degradandola, sottolineandone l'aspetto fisico poco piacente e l'impraticabilità di sogni campati in aria. La ragazza si toglierà la vita. Questo è il percorso del protagonista, la storia del distacco. Meredith lo condurrà all'inferno e ritorno. Per il ruolo dell'allieva suicida, Kaye ha subito pensato alla figlia Betty.
Dirà in un'intervista: “ Per quel che riguarda mia figlia Betty, ho sempre pensato a lei (per tre anni in realtà) per interpretare il ruolo di Meredith. Betty non assomiglia al personaggio nella vita reale, lei è molto fiduciosa e molto forte e ultra-determinata a riuscire nella vita, ma ha avuto anche un'esistenza difficile: ho calpestato la mia famiglia quando ero molto giovane. Ero molto egoista e pieno di ego. Betty aveva cinque anni e la prese molto male. Rubino, sua sorella, ne aveva due e non ha mai compreso davvero le mie azioni. Betty ha sofferto molto e credo proprio che abbia portato in superficie quelle emozioni nella sua interpretazione di Meredith. Non ho mai saputo se mi sarebbe stato permesso di scritturare mia figlia come una dei protagonisti, perché sarei stato accusato di nepotismo o qualcosa del genere, ed ero abbastanza preparato. Se avessi trovato qualcuno migliore di lei non avrei avuto scelta e Betty avrebbe rischiato di non parlarmi per anni, ma la verità è che lei è stata assolutamente perfetta durante l'audizione e via via dava sempre il meglio per quel ruolo, la sua recitazione era così dannatamente vera”.
Al termine di pellicola Henry dovrà cambiare nuovamente scuola. Prima lezione. Il racconto La rovina della casa degli Usher diviene metafora di una globale pesantezza ad accomunare l'umanità intera: la descrizione di 'uno stato d'animo'. Una visione apocalittica quella finale. Un'aula deserta, sedie rovesciate a terra, fogli e fogliame secco ovunque. E' la fine del mondo, l'olocausto del sistema umano e scolastico insieme.

Per tutta una fosca giornata, oscura e sorda, d’autunno, col cielo greve e basso di nuvole, avevo cavalcato da solo attraverso una campagna singolarmente lugubre, fino a che mi trovai, mentre già cadeva l’ombra della sera, in vista della malinconica casa degli Usher. Non so come, ma appena l’ebbi guardata una sensazione d’insopportabile tristezza mi prese l’anima. Insopportabile, dico, già che non le si univa il sentimento poetico e perciò quasi piacevole che accompagna in genere le immagini naturali anche quando siano le più cupe della desolazione e del terrore.
Guardavo la scena che mi stava davanti. E lo spettacolo della casa e del paesaggio all’intorno, le fredde mura, le finestre come orbite vuote, i radi filari di giunchi e alcuni bianchi tronchi risecchiti, mi davano un avvilimento così estremo che potrei paragonarlo soltanto allo stato del mangiatore d’oppio durante l’amaro ritorno alla realtà quotidiana, l’orribile momento in cui il velo dilegua.
Era un gelo nel cuore; e una oppressione, un malessere, e nella mente un invincibile orrore, che la rendeva inerte ad ogni stimolo della fantasia. Che cosa, dunque, mi soffermai a pensare, rendeva tanto penosa la contemplazione della casa degli Usher? Ma rimaneva un mistero insolubile; né io riuscivo ad aver ragione delle ubbie tenebrose che mi si affollavano dentro mentre riflettevo. E fui costretto a ritrarmi sulla conclusione poco soddisfacente che esistono combinazioni di oggetti naturali e semplicissimi che hanno potere di rattristarci fino a un tal punto, ancorché l’analisi di questo potere dipenda da considerazioni troppo profonde rispetto a noi. Pensavo che forse una qualsiasi differenza nella disposizione degli elementi della scena, dei particolari del quadro, sarebbe bastata a modificare o persino forse a distruggere tanta forza di dolorosa impressione spinto da questo pensiero, condussi il cavallo sulla riva scoscesa d’un lugubre stagno d’acque morte che si stendeva, nel suo nero luccicore, presso la dimora; e guardai, ma ne ebbi un tremito ancora più profondo; guardai riflesse, capovolte, le immagini dei giunchi di cenere, dei tronchi sinistri e delle finestre simili ad occhi vuoti.” (Edgar Allan Poe - La rovina della casa degli Usher)



 




venerdì 13 luglio 2012

La pelle che abito






Un film di Pedro Almodovar
Con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Jan Cornet
Titolo originale: La piel que habito
Durata: 120 min.
Genere: Drammatico
Soggetto: Thierry Jonquet (romanzo)
Sceneggiatura: Pedro Almodovar, Augustìn Almodovar
Produzione: Augustìn Almodovar, Esther Garcia
Casa di produzione: El Deseo
Fotografia: José Luis Alcaine
Montaggio: José Salcedo
Musiche: Alberto Iglesias
Scenografia: Antxòn Gomez
Costumi: Paco Delgado, Jean-Paul Gaultier
Spagna 2011

 

di Chiara Roggino.

 



Si può detestare o amare incondizionatamente . Il cinema di Almodovar è cucito ad hoc per uno spettatore che non conosce mezze misure. Il suo ultimo film, “La pelle che abito”, è distribuito nelle sale italiane dal 23 settembre.





Un nuovo film comporta un nuovo “percorso” per un territorio ancora incontaminato, tutto da esplorare. Ci si aggira per le stanze, senza fretta. Il più piccolo dettaglio potrebbe essere fondamentale. Si salgono scale, gradino dopo gradino. Strana mobilia, quadri appesi alle pareti, nudi di donna. Quale sarà il primo colpo di scena? Mentre si muove per le stanze osservando, assorbendo poco a poco l’ambiente che lo circonda, lo spettatore pregusta la manifestazione di quei “segni”: inconfondibili marchi d’autore sparpagliati per vezzo da Almodovar, instancabile "pollicino", ovunque, tra le pagine di una storia ancora tutta a venire. C’è un cartello da leggere, un cancello. Oltre il cancello una strada sterrata. Alla fine della strada una casa e una finestra chiusa dall’esterno. La camera ci mostra per la prima volta il corpo di Vera ( Elena Anaya: bella di una recitazione “tutta occhi”), inguainato in una tuta color carne, teso ad arco, in posizione yoga. L’immagine è sufficiente per innescare un flashback di altri corpi in movimento, donne a scontrarsi come cieche su un palcoscenico. Quando il tempo sembra fermarsi ad accompagnare la rivelazione della bellezza più pura. Era “Café Muller” e c’era un’indimenticabile Pina Bausch. Impossibile allora non commuoversi, insieme a Dario Grandinetti ( Parla con lei, 2002).
Giunti all’ingresso di una sala operatoria, non esiteremo, entrandovi a passo spedito. Ne abbiamo visti tanti: ospedali, sale operatorie, sale di rianimazione. L’ambiente, pallido e sterile, era sempre vivificato dalla presenza di una donna. Quante donne straordinarie!
La clinica che ci apprestiamo a visitare è gestita dal chirurgo estetico Robert Ledgard (Antonio Banderas) e dalla sua équipe. Gli occhi si abituano facilmente all’habitat spettrale illuminato da luci fredde. E’ ora di assistere all’”esperimento”.
Costa molto essere autentica, signora mia, e in questa cosa non bisogna essere tirchi perché una è tanto più autentica tanto più somiglia all’idea che ha di se stessa.” ( Tutto su mia madre, 1999 ) I personaggi di Almodovar gridano fame di coerenza quando l’intervento chirurgico diventa l’ultima spiaggia per salvare la donna che si strazia in un corpo che non le appartiene.
Vicente vive serenamente la sua mascolinità. Tuttavia è qui: giace profondamente addormentato in attesa di una vaginoplastica. L’incontro sbagliato al momento sbagliato. Era ad una festa, ricorda. Aveva preso qualche pasticca di troppo e quella ragazza era così carina. Il ragazzo è ancora all’oscuro: il corpo di cui sta abusando appartiene a Norma, figlia del dottor Ledgard. Quella stessa Norma che, in seguito allo stupro, si ucciderà. La vendetta del padre sarà implacabile.
Tratto dal romanzo “Tarantola” di Thierry Jonquet , “La pelle che abito” segna l’incontro tra Almodovar e il noir. Pensato inizialmente per una resa cromatica in bianco e nero, l’ultima fatica del cineasta castigliano si avvantaggia di una vividità di colori accesi, pennellate decise, congeniali alle “esplosioni” emotive dei protagonisti.
Il rosso: color del fuoco, della pazzia. Rosso come rosso è il sangue. José Luis Alcaine dirige una fotografia di primi piani arroventati: filtri sanguigni campeggiano sui volti a stravolgerne i lineamenti assoggettando l’immagine a un’imperante follia senza rimedio che assorbe uomini e cose indistintamente.
Il nero: è una matita da trucco quando non sottolinea lo sguardo ma diviene unico appiglio per scrivere e ricordare. Un diario su una parete della “cella”: fatto di cifre, segni, strane e multiformi sembianze. Per non impazzire, per mantenere in vita il vero sé al di là delle apparenze, oltre l’”estranea” riflessa allo specchio.
Di tanti segni visivi e visivamente affascinanti, rimane impressa una particolare dissolvenza incrociata. Robert e Vera giacciono nello stesso letto dandosi le spalle. Il regista insiste sui singoli primi piani ravvicinati per enunciare un doppio flashback: quello del dottore, poi quello della ragazza. Entrambi rammentano l’evento che cambiò le loro vite: il ricevimento di nozze di donna Casiva. E’ il turno di Vera e per un attimo il cuscino nero perde consistenza. I colori sfumano per ricomporsi in un’immagine nuova. Ora un altro volto giace accanto a quello di Vera. E’ quello di Vicente. Per un attimo due facce della medesima identità riposano mollemente sul guanciale. Poi, lentamente, il volto di Vera svanisce per lasciar posto allo sfondo della festa.







Magnifica presenza






Un film di Ferzan Ozpetek
Con: Elio Germano, Paola Minaccioni, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Cem Ymaz, Claudia Potenza, Andrea Bosca, Ambrogio Maestri, Matteo Savino, Alessandro Roja, Anna Proclemer
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Federica Pontremoli
Produttore: Domenico Procacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Walter Fasano
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Andrea Crisanti
Durata: 105 minuti
Italia 2012


Dalla Sicilia a Roma. Pietro Pontechievello (Elio Germano), giovane pasticcere omosessuale, aspirante attore, si trasferisce nella capitale in cerca di fortuna. La dea bendata sembra rispondere da subito alle sue richieste. Una grande casa tutta per sé, lontano dalla cugina Maria (Paola Minaccioni), nevrotica e affettuosa ai limiti dell’invadenza. L’affitto è conveniente e la padrona di casa richiede da subito il pagamento anticipato di quattro mensilità. Ma tanta fortuna conosce un inquietante rovescio della medaglia. La casa è già abitata da singolari personaggi… (sinossi)


Una linea nera per sottolineare lo sguardo, gioco di chiaroscuri sfumati a illuminare le palpebre. L’occhio prende vita. Il grande spettacolo ha inizio mentre il sipario freme d’impazienza, avido di mostrare la scena e i suoi inquilini: gli attori. Rapidi scorrono i titoli di testa e già lo spettatore respira aria d’altri tempi, altri abiti, altre acconciature. Un colpo di rivoltella. Il dramma dei personaggi ha inizio. Chi sono, da dove provengono “questi fantasmi”? Al suo nono film, Ozpetek si riconferma osservatore acuto e vivace. Un’attrazione tutta umana la sua: indagare universi altri popolati da vigili presenze. A ben vedere l’ultima scena di “Mine vaganti” si concludeva già con un ballo favolistico a conciliare presente e passato, i vivi e quelli che non sono più ma che pur sono, in altri luoghi, vitali e manifesti. Per Ferzan Ozpetek l’incontro con Elio Germano è fondamentale. Allo scorrere dei titoli di coda il volto del protagonista campeggia a lungo sullo schermo. I suoi occhi sono specchio fedele e trasparente così che pare quasi di vederlo: lo spettacolo della compagnia Apollonio. A film concluso, lo spettatore non potrà staccarsi dalla poltrona tanto presto. Fino al completo dissolvimento dei lineamenti dell’attore. Germano inchioda il pubblico in sala, reggendo uno splendido primo piano prolungato. Non è sufficiente essere belli o esteticamente accattivanti per bucare lo schermo. L’interprete romano bello non è, ma perfettamente in grado di emanare quella “magnifica presenza” che lo rende protagonista assoluto del gioco tutto teatrale architettato da Ozpetek.
Pietro è un sognatore, un solitario, un “solo” che vive in una dimensione aliena tra ideali d’altri tempi e romanticismo démodé. Le presenze che popolano l’appartamento se ne accorgono da subito. Egli appartiene all’oggi, ma è più che mai prossimo al loro mondo. Così gli attori della compagnia decidono di fargli visita: “personalmente”. Non più brusii o porte che sbattono senza un perché, ma personaggi veri, ansiosi di conoscere il loro passato per compiere il proprio destino. Ozpetek trae ispirazione dal palcoscenico vivo nonché da un grande della letteratura e del teatro quale Luigi Pirandello. Un evento di tale portata non stupirà gli afecionados di un cinema intessuto tra atmosfere esotiche, sanguigne, cariche di spezie e tavole conviviali. Un fare cinema che vede l’attore ascendere al gradino più alto: perno e artefice primo per la buona riuscita di un film. “Sei personaggi in cerca di autore” è il punto di partenza, spunto narrativo da cui si dipanano verso il proprio epilogo le vicende e le vite dei Personaggi della compagnia Apollonio. Avidi di rivivere il proprio dramma, disposti a tutto pur di prendere coscienza della verità. Pietro è il loro ideale intermediario: colui che ne garantirà l’evasione, rendendoli liberi. L’aspirante attore vive e si appassiona alle vite dei Personaggi fino ad affezionarsi sinceramente a ognuno di loro. I singolari coinquilini, dapprima tanto temuti, saranno per lui amici, complici, confidenti, persino maestri nell’arte della recitazione. La casa a Monteverde diviene luogo di convivialità sincera. Ozpetek strizza l’occhio alle dive del passato. Lea Marni (Margerita Buy), abbigliata come Marlene Dietrich e pettinata come Jane Harlow, è portatrice di una singolare lezione di storia del cinema. Viene così evocata la divina Greta Garbo, colei che diventò una star eliminando la gestualità drammatica del muto e il sorriso.







Ruggine


 


Un film di Daniele Giaglianone
Con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastrandrea, Valeria Solarino
Genere: Drammatico
Durata: 109 min.
Soggetto: Stefano Massaron
Sceneggiatura: Daniele Giaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa
Produttore: Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto
Casa di produzione: Fandango, Zaroff, in collaborazione con Rai Cinema
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Enrico Giovannone
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Luca Fucà, Francesca Tessari
Italia 2011

di Chiara Roggino


L’Associazione Italiana Editori è in allarme: “Vendite di libri pericolosamente in calo negli ultimi mesi”. Pare altrimenti che le sale cinematografiche conservino ancora il privilegio di allettare una consistente cerchia di estimatori, frequentatori occasionali, piccoli e grandi habitués. E’ stato un percorso d’associazioni fin troppo semplice. Mi rivolgo a te, spettatore, che mi domandi perché andare a vedere “Ruggine” di Daniele Giaglianone. Primo: perché è un film italiano e in Italia (a meno di passare per beceri esterofili, colpevoli sabotatori della patria) il campanilismo cinefilo è un obbligo morale. Secondo: nel caso di eventuale insoddisfazione a uscita di sala, non temere. Esiste un modo per placare tanta amarezza. Basta recarsi in libreria, una qualsiasi, e acquistare “Ruggine” di Stefano Massaron. Potrebbe essere una piacevole sorpresa. In questo modo darai il tuo contributo, piccolo ma prezioso, al rinvigorimento dell’editoria nazionale.
Dietro il sarcasmo permane la verità dei fatti, il piccolo parere di un’instancabile habitué di una sedia davanti a un grande schermo. Nonostante l’abbondanza di spunti narrativi, storie ancora in fasce, potenzialmente accattivanti e cariche d’attrattiva, il cinema italiano continua ad annaspare. L’opera si districa a fatica per una struttura formale e narrativa lacunosa, costellata di incastri mal giocati: frammenti di un rompicapo approssimativo faticano a trovare il giusto compromesso per un vicendevole accordo. Se Massaron individua Milano come palcoscenico ideale per una tragedia percepita e vissuta dagli occhi e sulla carne dell’infanzia, Giaglianone corregge di poco il tiro: sfondo a personaggi e vicende saranno le “rovine” desolate della Torino operaia di fine anni settanta. I giochi di guerra della banda degli Alveari, asserragliata oltre i bastioni del “Castello”, non conoscono miglior habitat delle aspre dune di periferia, anomale distese d’erba assetata tra discariche di rottami e vecchie auto in rovina. E’ un’infanzia immigrata quella di Giaglianone. Figli di migranti dal profondo sud, la progenie dell’”esodo” trastulla la propria quotidianità appresso a un pallone, in prevaricazioni tra bande rivali, giochi da grandi a simulare coiti immaginari sui cofani incandescenti di un’estate che non si dimenticherà facilmente. L’arrivo dell’uomo nero profanerà le speranze, ultime superstiti di un’infanzia clandestina, quando i sogni odorano di marcio e non resta che aspettare. Sa accumulare bene il tempo: lordura su lordura, putrido su putrido, ruggine su ruggine. Giaglianone gioca così le sue carte migliori: attimi-frammenti di pura grazia, primi piani a tratteggiare un’ingenuità d’ansie e sogni ancora vivi, movimenti di macchina a pedinare i giochi di un’età difficile a riacciuffarsi.





 

“Ruggine” è un’opera che non rivela sorprese. E’ sufficiente lasciare scorrere le prime immagini per entrare nell’ottica di chi ha tentato di costruire una storia che cerca di dipanarsi su due piani temporali diversi nel loro parallelismo: il film si fa scorrere incessante tra il presente e il passato dei protagonisti, traumi vissuti e rivissuti sulla propria pelle.
Il tempo non è galantuomo. Non concede tregue, il tempo. I tre protagonisti si ritroveranno, adulti, ad abitare indumenti troppo grandi. Cristallizzati nelle minutezze di un’età spaesata tra passato e futuro, Carmine, Sandro e Cinzia vivono di esistenze in punta di piedi. Per non lasciare traccia. Perché nessuno legga la vergogna e con essa la paura dipinta sui loro volti.
A Venezia, “Quando la notte” di Cristina Comencini aveva suscitato un considerevole imbarazzo e per la qualità dell’opera e per l’approssimatezza interpretativa di un Timi monocorde e perennemente imbronciato. “Ruggine” sembrava l’occasione perfetta per un dignitoso riscatto attoriale.
Mai azzardare pronostici.
Il dottor Boldrini emerge dal corso degli eventi quasi dal nulla: un uomo vestito di scuro che apre la portiera della sua autovettura su una strada sterrata. Inquadrato inizialmente di profilo se non di nuca, per un’illuminazione del viso di contrastati chiaroscuri a sottolinearne pedestremente l’ambiguità, il personaggio del dottore, così come filtrato dall’impulsività infantile, dovrebbe teoricamente rappresentare l’orrore d’un orco da fiaba.
Timi, in un’escalation di “prodezze“ e “virtuosismi“ che sfiorano il ridicolo, suscita qualsivoglia emozione, paura esclusa. Pertanto assisteremo, in un crescendo di impotente rammarico, al rapido susseguirsi di quadri assai poco d’autore, momenti in cui la sceneggiatura e il dialogo sono vistosamente correi di un’interpretazione manierata, intessuta di stereotipi forzati. Il fantomatico dottor Boldrini, occhi da ossesso, perennemente spiritati, si aggirerà così in mutande, a passo marziale, rimpiangendo le “prodezze” di Hitler o, in alternativa, gorgheggiando arie d’opera.
Da sottolineare, per quel che riguarda il tempo che vede protagonista una sempre più “espressiva” Valeria Solarino, la totale assenza di professionalità (seguendo un discorso meramente performativo) degli “attori” comprimari, professori astanti al consiglio di classe. Dialoghi banali uniti ad un target attoriale inesistente, riducono tali momenti d’esperienza filmica allo stato di soap opera malriuscita.
Peccato. Giaglianone aveva dalla sua ogni presupposto per la realizzazione di una pellicola di livello medio-alto. Sarà per la prossima volta.






Harry Potter e i doni della morte – Parte II






Un film di David Yates
Con Daniel Radcliffe, Emma Watson, Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Rupert Grint, Maggie Smith, Alan Rickman, Ralph Fiennes, John Hurt, Jim Broadment, David Thewlis
Durata: 130 min.
Genere: Fantasy, azione
Soggetto: J.K. Rowling (romanzo)
Sceneggiatura: Steve Kloves
Produzione: David Barron, David Heyman, J.K. Rowling
Casa di produzione: Warner Bros, Heyday Films
Fotografia: Eduardo Serra
Montaggio: Mark Day
Musiche: John Williams
Scenografia: Stuart Craig
Costumi: Jany Temime
Trucco: Amanda Burns, Mark Coulier, Katy Fray, Shaune Harrison, Beth John, Jenna Wyatt
Regno Unito 2011


di Chiara Roggino


Mentre i fan più agguerriti sgomitano all’apertura dei ‘cancelli’ virtuali di POTTERMORE, proseguono le gesta del mago più celebre d’Inghilterra. Con “Harry Potter and the Deathly Hallows: Part II” si chiude il cerchio del progetto su grande schermo ideato per seguire, dall’infanzia alla maturità, le orme dell’eroe partorito dall’immaginazione di un’instancabile levatrice: Katherine Rowling. L’avventura iniziò a concretarsi nel 2001, quando Chris Columbus fu chiamato a dirigere il primo capitolo della saga: “Harry Potter e la pietra filosofale”. Il progetto fu supervisionato dalla stessa Rowling che dettò legge intorno al casting e alla scelta dei ruoli principali. Gli attori, per una dittatura campanilista sui generis, dal primo all’ultimo, saranno tutti rigorosamente inglesi.
Avevamo lasciato un Voldemort esultante presso la tomba di Silente, novello padrone della bacchetta di sambuco. Così si concludeva il primo capitolo di “Harry Potter e i doni della morte”. Harry Potter, il prescelto, leader indiscusso della resistenza dei giovani ad Howgarts, dovrà affrontare se stesso, immolandosi per la salvezza del mondo magico. Al suo fianco Ron e Hermione, instancabili aiutanti, amici di sempre.
Nella lotta tra bene e male nulla è come sembra. Così lo spettatore non sarà testimone delle gesta di personaggi granitici, in positivo o in negativo. Davanti ai suoi occhi si dispiegheranno ampie zone grigie dove bene e male sono mescolati indissolubilmente.
Per l’ultima grande battaglia viene richiamato ad animare le truppe il britannicissimo David Yates . Se Yates fosse o meno in grado di portare a termine la sua missione, a quest’interrogativo che pressava colossi quali la Heyday Films e la Warner Bros, siamo riusciti a dare una risposta in questi ultimi mesi. Sì, Yates è riuscito nell’impresa. Il film c’è ed è un solido prodotto commerciale che non darà grattacapi per passività d’introiti nella guerra ai botteghini. 


 
In “Harry Potter e i doni della morte – parte II” nulla possiamo rimproverare alla confezione stilistica: la carta e il fiocco sono d’eccellente qualità.
Quello su cui ci preme insistere è la distanza che intercorre tra la dimensione visiva (ciò che cattura lo sguardo, per intenderci) e quella che concerne la narrazione pura.
Mai come in questi ultimi anni e soprattutto in seguito all’avvento del 3D, il cinema si è trasformato in luogo dove a spadroneggiare è la forza dell’immagine. I nostri sensi sono interamente catalizzati a catturar luci, forme, colori. E quando una scena si è conclusa siamo immediatamente proiettati nella successiva coll’eccitazione del bambino che si chiede “cosa accadrà adesso?”. Direttore della fotografia è il portoghese pluricandidato all’oscar Eduardo Serra. Il film si apre con una scena visivamente forte, pur senza abuso di effetti speciali. Schiere di alunni in uniforme scura marciano nella corte di Hogwarts: la prevaricazione del male e di Chi Non Può Essere Nominato non è che agli inizi. L’impatto visivo possiede un’efficace forza evocativa: nell’organizzazione della marcia dei giovani di Hogwarts non facciamo fatica a riconoscere la maniacale efficienza prodigata all’educazione giovanile ai tempi del Terzo Reich. Non sono uomini e donne, pur giovani, ma truppe di soldati che marciano seguendo gli ordini dei loro superiori. Serra riesce a concertare un’ atmosfera funebre su cui dominano toni scuri e grigi spenti. Più tardi, tetre sagome si staglieranno su sfondi cupi alternandosi ad inquadrature in cui filtri blu spadroneggiano sulla cromaticità dell’immagine creando fotogrammi d’atmosfere febbrili e inquietanti.
L’ultima battaglia vedrà i guerrieri di pietra protettori di Howgarts discendere dai piedistalli per passare all’azione. Quella concertata nella scuola di magia, assume i tratti di una resistenza partigiana contro l’orrore di un novello regime nazista, pronto a riproporre le nefandezze e i crimini di un secondo olocausto.
In una dimensione dominata dalla potenza dell’immagine, là dove lo strumento narrativo ( spesso debole, fiacco, smorzato da improbabili tagli di eventi e dialoghi necessari all’evoluzione della storia) è subalterno al fenomeno visivo, prende vita un coro di molteplici interpreti, attori di consolidata esperienza, alcuni, altri più giovani, più goffi e impacciati ( Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson).
Una su tutte è necessario ricordare la superba prova drammatica fornitaci da John Hurt, Olivander. Già nel primo capitolo, diretto da Columbus, Hurt riuscì a ritagliarsi ben più di una semplice apparizione all’interno di un film che faticava a prendere il volo. Un breve aggrottar di sopracciglia, una piega alla bocca, quella minimale seppur studiata gestualità, rendono Hurt-Olivander vivo e pulsante di vita agli occhi dello spettatore. Maggy Smith, con il suo temperamento tutto britannico, domina la scena, così Alan Rikman renderà credibili le incertezze e le sfaccettature che rendono la nera sagoma di Severus Piton ben più di un semplice simulacro di realtà. La sua maschera opaca incorniciata da untuosi capelli neri sarà in grado di sorprenderci, fino alla fine. Ugualmente non sentiamo di sprecarci in elogi esaltando l’impeccabile performance fornitaci da Jim Broadbent- Horace Lumacorno. Nelle rare pose che lo vedono protagonista l’attore, coadiuvato da un’infallibile talento espressivo, riuscirà a rendere palpabile l’angoscia della catastrofe imminente. I visi di questi grandi interpreti assurgono ad opere d’arte: quadri animati da una stupefacente forza narrativa.
Il discorso assumerà una piega diametralmente opposta accingendoci a valutare la prova di un Lord Voldemort non degno di assurgere a personificazione di signore del male, metà oscura del protagonista. Ore di trucco e un mascherone rettiliano non sono sufficienti ad incutere timore. Lo sa bene Ralph Fiennes che qui si prodiga in una recitazione affettata su toni soffiati, tutta sorrisi che vorrebbero apparire ghigni diabolici. Fiennes si dibatte, ma l’unica cosa che riesce ad offrirci è la risibile caricatura di un male non troppo spaventoso.



Kung Fu Panda 2






Un film di Jennifer Yuh
Genere: Animazione
Durata: 91 min.
Soggetto: Ethan Reiff, Cyrus Voris
Sceneggiatura: John Stevenson, Jonathan Aibel, Glenn Berger
Produzione: Melissa Cobb
Casa di produzione. DreamWorks Animation
Montaggio: Clare Knight
Musiche: Hans Zimmer e John Powell
USA 2011


di Chiara Roggino





A tre anni di distanza dal primo lungometraggio DreamWorks Animation firmato Mark Osborne e John Stevenson, tornano a furoreggiare su grande schermo le gesta eroicomiche del neo Guerriero Dragone – il panda Po e dei suoi fidi compagni d’avventura, i “Cinque cicloni”. Alle redini di “Kung Fu Panda 2″, Jennifer Yuh, si vocifera essere la prima donna a dirigere un cartoon. La pellicola asseconda su un piano meramente produttivo quelli che, dal 2009, per voce di Jeffrey Katzenberg, divennero i principi fondanti della Dreamworks, baluardo di un nuovo cinema d’animazione 3D.
Al centro di “Kung Fu Panda 2″, la ‘rivoluzione industriale’ condotta dal perfido pavone Shen (occhi bistrati, speroni metallici, becco adunco e penne scagliate in vece di coltelli) mette in serio pericolo la sopravvivenza delle arti marziali: prima fra tutte, ça va sans dire, quella del kung fu. Po e i Cinque, orchestrati dal saggio maestro Scifu, interverranno a sabotare le mire imperialiste di questo cattivo nuovo di zecca. Portare a termine l’impresa necessiterà una doppia dose di coraggio al goffo antieroe in bianco e nero. Tra una mossa e l’altra di kung fu, il panda si addentrerà in una perigliosa odissea alla ricerca del vero sé, della pace interiore e delle proprie radici.
Come in “Kung Fu Panda”, a esordio di questo riuscito sequel si compongono, in un’affascinante fiera di pittogrammi cinesi animati in 2D , le immagini-flash back dell’antefatto alla storia vera e propria. Si esplica pertanto la genesi di Lord Shen e della sua rabbia in seguito alla cacciata dalla città di Gong Min. Il susseguirsi delle vicende si dipanerà assecondando principi prettamente dinamici per cui l’azione avrà il sopravvento sulla gag comica. Risultato: si ride meno, partecipando altrimenti della narrazione per empatia coreutica, tutta cinetica. In questo gran ballo policromo gli animali antropomorfi protagonisti della vicenda si lanciano in acrobazie spericolate seguendo passo passo il fil rouge che renderà Po un goffo (per questo passibile di maggiore identificazione da parte del pubblico) emulo di Bruce Lee e Jackie Chan , così come abbiamo imparato a conoscerli tramite la filmografia che li vede protagonisti. In tutto questo non possiamo fare a meno di sottolineare l’impatto di scenari, dipinti ricreati digitalmente, efficaci e quanto mai veri. Si susseguono, uno dopo l’altro, in un caleidoscopio di luci, colori ed ombre capaci di ricreare un ambiente familiare e nostalgico, di forte impatto narrativo.
Meritevole di lode il cast originale in carne ed ossa, grande apparato vocale a prestar voce ai beniamini della storia. Jack Black regala al suo Po un’efficace titubanza di fondo insaporita da uno humor fatto di tempi e reazioni genuine, frutto della spontanea verve comica dell’attore.
In un confronto che ha dell’impietoso, Fabio Volo ripropone l’ennesima versione riscaldata del suo panda bergamasco doc, dando vita ad una performance urticante di intonazioni svizzere e monocordi, degne del peggior allievo di un corso di doppiaggio.





giovedì 12 luglio 2012

Cosa piove dal cielo?








Un film di Sebastiàn Borensztein
Con Ricardo Darin, Ignacio Huan, Muriel Santa Ana, Enric Rodriguez, Ivan Romanelli
Titolo originale: Un cuento chino
Genere: commedia
Soggetto: Sebastiàn Borensztein
Sceneggiatura: Sebastiàn Borensztein
Produzione: Pablo Bossi, Juan Pablo Buscarini, Gerardo Herrero, Axel Kuschevatzky, Ben Odell
Produttore esecutivo: Mariela Besuievski
Casa di produzione: Pampa Film
Distribuzione italiana: Archibald Film
Fotografia: Rolo Pulpeiro
Montaggio: Fernando Pardo, Pablo Barbieri Carrera
Musiche: Lucio Godoy
Scenografia: Laura Musso
Costumi: Angela Ortuno, Alejandra Albert
Argentina 2011


di Chiara Roggino 



Cina, provincia di Fusheng. Una mucca cade dal cielo e provoca una tragedia”.
La vita di Roberto, ferramenta a Buenos Aires, è organizzata su misura. Un tran tran di rituali, piccole necessarie abitudini, non permette colpi di scena. Se il giorno è dedicato alla conta di viti e bulloni, la sera è tempo di lettura. Giornali e riviste da tutto il mondo, materia prima ideale per stanare notizie bizzarre, fatti fuori dall’ordinario: ottimi da inserire nella grande collezione. La luce si spegne alle ore 23.00, non un un minuto prima, non un minuto dopo. Ma basta poco per scatenare l’imprevisto nella vita dell’uomo: un cinese scaraventato con forza fuori da un taxi, proprio davanti al suo negozio. Jun non conosce una parola di spagnolo ed è alla ricerca dello zio. Unico indizio ad agevolare la caccia al tesoro, un indirizzo tatuato sul braccio. Roberto non digerisce le ingiustizie. Risultato: il giovane cinese è accolto in casa dal burbero argentino. La strana coppia si metterà alla ricerca del misterioso zio con risultati a dir poco sorprendenti. (sinossi)
Al suo primo film, Sebastiàn Borensztein (premio Marc’Aurelio d’Oro come miglior pellicola al Festival Internazionale del Film di Roma 2011) regala al suo pubblico un piccolo gioiello: un film fatto di niente, permeato di poesia. Una storia sull’accettazione delle diversità che si fa canto dolceamaro narrando di sofferenza ed esistenze in rinascita per una voglia di vivere nuova, piovuta dal cielo. L’autore sussurra a voce limpida la sua morale: niente in questa vita accade per caso. Un destino invisibile lega le nostre esistenze una all’altra, quando meno ce l’aspettiamo.
Borensztein trova il suo Roberto nello sguardo malinconico dell’attore Ricardo Darin, già protagonista de “Il segreto dei suoi occhi” (premio oscar quale miglior film straniero nel 2011). Qualcuno, a ragione, l’ha rivestito dell’appellativo di Buster Keaton argentino. Gestualità minimale, una recitazione calibrata in sottrazione per una performance generosa tra sorrisi appena accennati e improvvisi rabbuiamenti.
Roberto, immigrato italiano, burbero dal cuore tenero, è un abbattuto dalla storia, un reduce di guerra (il breve accenno alle Falkland bene esprime i presupposti per un’esistenza azzerata in età acerba). La sua “non vita” non ha senso giacché per lui nulla nella vita ha un senso. Da ferite tanto profonde, una sopravvivenza priva di emozioni forti e grandi responsabilità che si esprime per tic e rituali insopprimibili. Cercando di mantenere sempre il controllo, nonostante tutto. La grigia routine è spazzata via all’improvviso, quando da un taxi viene scaraventata un’altra vita, ugualmente segnata per diverso dolore. Ignacio Huan è delizioso nell’interpretare lo spaesato Jun, artista che si ritrova suo malgrado a svolgere lavori di bassa manovalanza presso il negozio di Roberto. Un’espressione stampata sul viso, tra stupore, paura e perpetuo smarrimento, Jun sarà per Roberto diversivo, occasione per un dialogo diverso dal soliloquio: una comunicazione essenziale fatta di gesti e reciproci scambi di mimica facciale.
Tra intarsi-omaggio al cinema di Jean-Pierre Jeunet (a “Il favoloso mondo di Amelie”, in particolare), microstorie surreali a rimarcare le qualità di un intreccio altrettanto stravagante, le vicende dei due protagonisti si dirigono verso l’agognato epilogo a lieto fine. Come nella migliore tradizione fiabesca, a volte ciò che sembra non possedere un senso, rivela un significato profondo, nascosto ai più. La felicità spesso proviene da orizzonti inaspettati.