venerdì 13 luglio 2012

Magnifica presenza






Un film di Ferzan Ozpetek
Con: Elio Germano, Paola Minaccioni, Margherita Buy, Beppe Fiorello, Vittoria Puccini, Cem Ymaz, Claudia Potenza, Andrea Bosca, Ambrogio Maestri, Matteo Savino, Alessandro Roja, Anna Proclemer
Sceneggiatura: Ferzan Ozpetek, Federica Pontremoli
Produttore: Domenico Procacci
Fotografia: Maurizio Calvesi
Montaggio: Walter Fasano
Musiche: Pasquale Catalano
Scenografia: Andrea Crisanti
Durata: 105 minuti
Italia 2012


Dalla Sicilia a Roma. Pietro Pontechievello (Elio Germano), giovane pasticcere omosessuale, aspirante attore, si trasferisce nella capitale in cerca di fortuna. La dea bendata sembra rispondere da subito alle sue richieste. Una grande casa tutta per sé, lontano dalla cugina Maria (Paola Minaccioni), nevrotica e affettuosa ai limiti dell’invadenza. L’affitto è conveniente e la padrona di casa richiede da subito il pagamento anticipato di quattro mensilità. Ma tanta fortuna conosce un inquietante rovescio della medaglia. La casa è già abitata da singolari personaggi… (sinossi)


Una linea nera per sottolineare lo sguardo, gioco di chiaroscuri sfumati a illuminare le palpebre. L’occhio prende vita. Il grande spettacolo ha inizio mentre il sipario freme d’impazienza, avido di mostrare la scena e i suoi inquilini: gli attori. Rapidi scorrono i titoli di testa e già lo spettatore respira aria d’altri tempi, altri abiti, altre acconciature. Un colpo di rivoltella. Il dramma dei personaggi ha inizio. Chi sono, da dove provengono “questi fantasmi”? Al suo nono film, Ozpetek si riconferma osservatore acuto e vivace. Un’attrazione tutta umana la sua: indagare universi altri popolati da vigili presenze. A ben vedere l’ultima scena di “Mine vaganti” si concludeva già con un ballo favolistico a conciliare presente e passato, i vivi e quelli che non sono più ma che pur sono, in altri luoghi, vitali e manifesti. Per Ferzan Ozpetek l’incontro con Elio Germano è fondamentale. Allo scorrere dei titoli di coda il volto del protagonista campeggia a lungo sullo schermo. I suoi occhi sono specchio fedele e trasparente così che pare quasi di vederlo: lo spettacolo della compagnia Apollonio. A film concluso, lo spettatore non potrà staccarsi dalla poltrona tanto presto. Fino al completo dissolvimento dei lineamenti dell’attore. Germano inchioda il pubblico in sala, reggendo uno splendido primo piano prolungato. Non è sufficiente essere belli o esteticamente accattivanti per bucare lo schermo. L’interprete romano bello non è, ma perfettamente in grado di emanare quella “magnifica presenza” che lo rende protagonista assoluto del gioco tutto teatrale architettato da Ozpetek.
Pietro è un sognatore, un solitario, un “solo” che vive in una dimensione aliena tra ideali d’altri tempi e romanticismo démodé. Le presenze che popolano l’appartamento se ne accorgono da subito. Egli appartiene all’oggi, ma è più che mai prossimo al loro mondo. Così gli attori della compagnia decidono di fargli visita: “personalmente”. Non più brusii o porte che sbattono senza un perché, ma personaggi veri, ansiosi di conoscere il loro passato per compiere il proprio destino. Ozpetek trae ispirazione dal palcoscenico vivo nonché da un grande della letteratura e del teatro quale Luigi Pirandello. Un evento di tale portata non stupirà gli afecionados di un cinema intessuto tra atmosfere esotiche, sanguigne, cariche di spezie e tavole conviviali. Un fare cinema che vede l’attore ascendere al gradino più alto: perno e artefice primo per la buona riuscita di un film. “Sei personaggi in cerca di autore” è il punto di partenza, spunto narrativo da cui si dipanano verso il proprio epilogo le vicende e le vite dei Personaggi della compagnia Apollonio. Avidi di rivivere il proprio dramma, disposti a tutto pur di prendere coscienza della verità. Pietro è il loro ideale intermediario: colui che ne garantirà l’evasione, rendendoli liberi. L’aspirante attore vive e si appassiona alle vite dei Personaggi fino ad affezionarsi sinceramente a ognuno di loro. I singolari coinquilini, dapprima tanto temuti, saranno per lui amici, complici, confidenti, persino maestri nell’arte della recitazione. La casa a Monteverde diviene luogo di convivialità sincera. Ozpetek strizza l’occhio alle dive del passato. Lea Marni (Margerita Buy), abbigliata come Marlene Dietrich e pettinata come Jane Harlow, è portatrice di una singolare lezione di storia del cinema. Viene così evocata la divina Greta Garbo, colei che diventò una star eliminando la gestualità drammatica del muto e il sorriso.







Ruggine


 


Un film di Daniele Giaglianone
Con Filippo Timi, Stefano Accorsi, Valerio Mastrandrea, Valeria Solarino
Genere: Drammatico
Durata: 109 min.
Soggetto: Stefano Massaron
Sceneggiatura: Daniele Giaglianone, Giaime Alonge, Alessandro Scippa
Produttore: Domenico Procacci, Gianluca Arcopinto
Casa di produzione: Fandango, Zaroff, in collaborazione con Rai Cinema
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Enrico Giovannone
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Luca Fucà, Francesca Tessari
Italia 2011

di Chiara Roggino


L’Associazione Italiana Editori è in allarme: “Vendite di libri pericolosamente in calo negli ultimi mesi”. Pare altrimenti che le sale cinematografiche conservino ancora il privilegio di allettare una consistente cerchia di estimatori, frequentatori occasionali, piccoli e grandi habitués. E’ stato un percorso d’associazioni fin troppo semplice. Mi rivolgo a te, spettatore, che mi domandi perché andare a vedere “Ruggine” di Daniele Giaglianone. Primo: perché è un film italiano e in Italia (a meno di passare per beceri esterofili, colpevoli sabotatori della patria) il campanilismo cinefilo è un obbligo morale. Secondo: nel caso di eventuale insoddisfazione a uscita di sala, non temere. Esiste un modo per placare tanta amarezza. Basta recarsi in libreria, una qualsiasi, e acquistare “Ruggine” di Stefano Massaron. Potrebbe essere una piacevole sorpresa. In questo modo darai il tuo contributo, piccolo ma prezioso, al rinvigorimento dell’editoria nazionale.
Dietro il sarcasmo permane la verità dei fatti, il piccolo parere di un’instancabile habitué di una sedia davanti a un grande schermo. Nonostante l’abbondanza di spunti narrativi, storie ancora in fasce, potenzialmente accattivanti e cariche d’attrattiva, il cinema italiano continua ad annaspare. L’opera si districa a fatica per una struttura formale e narrativa lacunosa, costellata di incastri mal giocati: frammenti di un rompicapo approssimativo faticano a trovare il giusto compromesso per un vicendevole accordo. Se Massaron individua Milano come palcoscenico ideale per una tragedia percepita e vissuta dagli occhi e sulla carne dell’infanzia, Giaglianone corregge di poco il tiro: sfondo a personaggi e vicende saranno le “rovine” desolate della Torino operaia di fine anni settanta. I giochi di guerra della banda degli Alveari, asserragliata oltre i bastioni del “Castello”, non conoscono miglior habitat delle aspre dune di periferia, anomale distese d’erba assetata tra discariche di rottami e vecchie auto in rovina. E’ un’infanzia immigrata quella di Giaglianone. Figli di migranti dal profondo sud, la progenie dell’”esodo” trastulla la propria quotidianità appresso a un pallone, in prevaricazioni tra bande rivali, giochi da grandi a simulare coiti immaginari sui cofani incandescenti di un’estate che non si dimenticherà facilmente. L’arrivo dell’uomo nero profanerà le speranze, ultime superstiti di un’infanzia clandestina, quando i sogni odorano di marcio e non resta che aspettare. Sa accumulare bene il tempo: lordura su lordura, putrido su putrido, ruggine su ruggine. Giaglianone gioca così le sue carte migliori: attimi-frammenti di pura grazia, primi piani a tratteggiare un’ingenuità d’ansie e sogni ancora vivi, movimenti di macchina a pedinare i giochi di un’età difficile a riacciuffarsi.





 

“Ruggine” è un’opera che non rivela sorprese. E’ sufficiente lasciare scorrere le prime immagini per entrare nell’ottica di chi ha tentato di costruire una storia che cerca di dipanarsi su due piani temporali diversi nel loro parallelismo: il film si fa scorrere incessante tra il presente e il passato dei protagonisti, traumi vissuti e rivissuti sulla propria pelle.
Il tempo non è galantuomo. Non concede tregue, il tempo. I tre protagonisti si ritroveranno, adulti, ad abitare indumenti troppo grandi. Cristallizzati nelle minutezze di un’età spaesata tra passato e futuro, Carmine, Sandro e Cinzia vivono di esistenze in punta di piedi. Per non lasciare traccia. Perché nessuno legga la vergogna e con essa la paura dipinta sui loro volti.
A Venezia, “Quando la notte” di Cristina Comencini aveva suscitato un considerevole imbarazzo e per la qualità dell’opera e per l’approssimatezza interpretativa di un Timi monocorde e perennemente imbronciato. “Ruggine” sembrava l’occasione perfetta per un dignitoso riscatto attoriale.
Mai azzardare pronostici.
Il dottor Boldrini emerge dal corso degli eventi quasi dal nulla: un uomo vestito di scuro che apre la portiera della sua autovettura su una strada sterrata. Inquadrato inizialmente di profilo se non di nuca, per un’illuminazione del viso di contrastati chiaroscuri a sottolinearne pedestremente l’ambiguità, il personaggio del dottore, così come filtrato dall’impulsività infantile, dovrebbe teoricamente rappresentare l’orrore d’un orco da fiaba.
Timi, in un’escalation di “prodezze“ e “virtuosismi“ che sfiorano il ridicolo, suscita qualsivoglia emozione, paura esclusa. Pertanto assisteremo, in un crescendo di impotente rammarico, al rapido susseguirsi di quadri assai poco d’autore, momenti in cui la sceneggiatura e il dialogo sono vistosamente correi di un’interpretazione manierata, intessuta di stereotipi forzati. Il fantomatico dottor Boldrini, occhi da ossesso, perennemente spiritati, si aggirerà così in mutande, a passo marziale, rimpiangendo le “prodezze” di Hitler o, in alternativa, gorgheggiando arie d’opera.
Da sottolineare, per quel che riguarda il tempo che vede protagonista una sempre più “espressiva” Valeria Solarino, la totale assenza di professionalità (seguendo un discorso meramente performativo) degli “attori” comprimari, professori astanti al consiglio di classe. Dialoghi banali uniti ad un target attoriale inesistente, riducono tali momenti d’esperienza filmica allo stato di soap opera malriuscita.
Peccato. Giaglianone aveva dalla sua ogni presupposto per la realizzazione di una pellicola di livello medio-alto. Sarà per la prossima volta.






Harry Potter e i doni della morte – Parte II






Un film di David Yates
Con Daniel Radcliffe, Emma Watson, Helena Bonham Carter, Ralph Fiennes, Rupert Grint, Maggie Smith, Alan Rickman, Ralph Fiennes, John Hurt, Jim Broadment, David Thewlis
Durata: 130 min.
Genere: Fantasy, azione
Soggetto: J.K. Rowling (romanzo)
Sceneggiatura: Steve Kloves
Produzione: David Barron, David Heyman, J.K. Rowling
Casa di produzione: Warner Bros, Heyday Films
Fotografia: Eduardo Serra
Montaggio: Mark Day
Musiche: John Williams
Scenografia: Stuart Craig
Costumi: Jany Temime
Trucco: Amanda Burns, Mark Coulier, Katy Fray, Shaune Harrison, Beth John, Jenna Wyatt
Regno Unito 2011


di Chiara Roggino


Mentre i fan più agguerriti sgomitano all’apertura dei ‘cancelli’ virtuali di POTTERMORE, proseguono le gesta del mago più celebre d’Inghilterra. Con “Harry Potter and the Deathly Hallows: Part II” si chiude il cerchio del progetto su grande schermo ideato per seguire, dall’infanzia alla maturità, le orme dell’eroe partorito dall’immaginazione di un’instancabile levatrice: Katherine Rowling. L’avventura iniziò a concretarsi nel 2001, quando Chris Columbus fu chiamato a dirigere il primo capitolo della saga: “Harry Potter e la pietra filosofale”. Il progetto fu supervisionato dalla stessa Rowling che dettò legge intorno al casting e alla scelta dei ruoli principali. Gli attori, per una dittatura campanilista sui generis, dal primo all’ultimo, saranno tutti rigorosamente inglesi.
Avevamo lasciato un Voldemort esultante presso la tomba di Silente, novello padrone della bacchetta di sambuco. Così si concludeva il primo capitolo di “Harry Potter e i doni della morte”. Harry Potter, il prescelto, leader indiscusso della resistenza dei giovani ad Howgarts, dovrà affrontare se stesso, immolandosi per la salvezza del mondo magico. Al suo fianco Ron e Hermione, instancabili aiutanti, amici di sempre.
Nella lotta tra bene e male nulla è come sembra. Così lo spettatore non sarà testimone delle gesta di personaggi granitici, in positivo o in negativo. Davanti ai suoi occhi si dispiegheranno ampie zone grigie dove bene e male sono mescolati indissolubilmente.
Per l’ultima grande battaglia viene richiamato ad animare le truppe il britannicissimo David Yates . Se Yates fosse o meno in grado di portare a termine la sua missione, a quest’interrogativo che pressava colossi quali la Heyday Films e la Warner Bros, siamo riusciti a dare una risposta in questi ultimi mesi. Sì, Yates è riuscito nell’impresa. Il film c’è ed è un solido prodotto commerciale che non darà grattacapi per passività d’introiti nella guerra ai botteghini. 


 
In “Harry Potter e i doni della morte – parte II” nulla possiamo rimproverare alla confezione stilistica: la carta e il fiocco sono d’eccellente qualità.
Quello su cui ci preme insistere è la distanza che intercorre tra la dimensione visiva (ciò che cattura lo sguardo, per intenderci) e quella che concerne la narrazione pura.
Mai come in questi ultimi anni e soprattutto in seguito all’avvento del 3D, il cinema si è trasformato in luogo dove a spadroneggiare è la forza dell’immagine. I nostri sensi sono interamente catalizzati a catturar luci, forme, colori. E quando una scena si è conclusa siamo immediatamente proiettati nella successiva coll’eccitazione del bambino che si chiede “cosa accadrà adesso?”. Direttore della fotografia è il portoghese pluricandidato all’oscar Eduardo Serra. Il film si apre con una scena visivamente forte, pur senza abuso di effetti speciali. Schiere di alunni in uniforme scura marciano nella corte di Hogwarts: la prevaricazione del male e di Chi Non Può Essere Nominato non è che agli inizi. L’impatto visivo possiede un’efficace forza evocativa: nell’organizzazione della marcia dei giovani di Hogwarts non facciamo fatica a riconoscere la maniacale efficienza prodigata all’educazione giovanile ai tempi del Terzo Reich. Non sono uomini e donne, pur giovani, ma truppe di soldati che marciano seguendo gli ordini dei loro superiori. Serra riesce a concertare un’ atmosfera funebre su cui dominano toni scuri e grigi spenti. Più tardi, tetre sagome si staglieranno su sfondi cupi alternandosi ad inquadrature in cui filtri blu spadroneggiano sulla cromaticità dell’immagine creando fotogrammi d’atmosfere febbrili e inquietanti.
L’ultima battaglia vedrà i guerrieri di pietra protettori di Howgarts discendere dai piedistalli per passare all’azione. Quella concertata nella scuola di magia, assume i tratti di una resistenza partigiana contro l’orrore di un novello regime nazista, pronto a riproporre le nefandezze e i crimini di un secondo olocausto.
In una dimensione dominata dalla potenza dell’immagine, là dove lo strumento narrativo ( spesso debole, fiacco, smorzato da improbabili tagli di eventi e dialoghi necessari all’evoluzione della storia) è subalterno al fenomeno visivo, prende vita un coro di molteplici interpreti, attori di consolidata esperienza, alcuni, altri più giovani, più goffi e impacciati ( Daniel Radcliffe, Rupert Grint, Emma Watson).
Una su tutte è necessario ricordare la superba prova drammatica fornitaci da John Hurt, Olivander. Già nel primo capitolo, diretto da Columbus, Hurt riuscì a ritagliarsi ben più di una semplice apparizione all’interno di un film che faticava a prendere il volo. Un breve aggrottar di sopracciglia, una piega alla bocca, quella minimale seppur studiata gestualità, rendono Hurt-Olivander vivo e pulsante di vita agli occhi dello spettatore. Maggy Smith, con il suo temperamento tutto britannico, domina la scena, così Alan Rikman renderà credibili le incertezze e le sfaccettature che rendono la nera sagoma di Severus Piton ben più di un semplice simulacro di realtà. La sua maschera opaca incorniciata da untuosi capelli neri sarà in grado di sorprenderci, fino alla fine. Ugualmente non sentiamo di sprecarci in elogi esaltando l’impeccabile performance fornitaci da Jim Broadbent- Horace Lumacorno. Nelle rare pose che lo vedono protagonista l’attore, coadiuvato da un’infallibile talento espressivo, riuscirà a rendere palpabile l’angoscia della catastrofe imminente. I visi di questi grandi interpreti assurgono ad opere d’arte: quadri animati da una stupefacente forza narrativa.
Il discorso assumerà una piega diametralmente opposta accingendoci a valutare la prova di un Lord Voldemort non degno di assurgere a personificazione di signore del male, metà oscura del protagonista. Ore di trucco e un mascherone rettiliano non sono sufficienti ad incutere timore. Lo sa bene Ralph Fiennes che qui si prodiga in una recitazione affettata su toni soffiati, tutta sorrisi che vorrebbero apparire ghigni diabolici. Fiennes si dibatte, ma l’unica cosa che riesce ad offrirci è la risibile caricatura di un male non troppo spaventoso.



Kung Fu Panda 2






Un film di Jennifer Yuh
Genere: Animazione
Durata: 91 min.
Soggetto: Ethan Reiff, Cyrus Voris
Sceneggiatura: John Stevenson, Jonathan Aibel, Glenn Berger
Produzione: Melissa Cobb
Casa di produzione. DreamWorks Animation
Montaggio: Clare Knight
Musiche: Hans Zimmer e John Powell
USA 2011


di Chiara Roggino





A tre anni di distanza dal primo lungometraggio DreamWorks Animation firmato Mark Osborne e John Stevenson, tornano a furoreggiare su grande schermo le gesta eroicomiche del neo Guerriero Dragone – il panda Po e dei suoi fidi compagni d’avventura, i “Cinque cicloni”. Alle redini di “Kung Fu Panda 2″, Jennifer Yuh, si vocifera essere la prima donna a dirigere un cartoon. La pellicola asseconda su un piano meramente produttivo quelli che, dal 2009, per voce di Jeffrey Katzenberg, divennero i principi fondanti della Dreamworks, baluardo di un nuovo cinema d’animazione 3D.
Al centro di “Kung Fu Panda 2″, la ‘rivoluzione industriale’ condotta dal perfido pavone Shen (occhi bistrati, speroni metallici, becco adunco e penne scagliate in vece di coltelli) mette in serio pericolo la sopravvivenza delle arti marziali: prima fra tutte, ça va sans dire, quella del kung fu. Po e i Cinque, orchestrati dal saggio maestro Scifu, interverranno a sabotare le mire imperialiste di questo cattivo nuovo di zecca. Portare a termine l’impresa necessiterà una doppia dose di coraggio al goffo antieroe in bianco e nero. Tra una mossa e l’altra di kung fu, il panda si addentrerà in una perigliosa odissea alla ricerca del vero sé, della pace interiore e delle proprie radici.
Come in “Kung Fu Panda”, a esordio di questo riuscito sequel si compongono, in un’affascinante fiera di pittogrammi cinesi animati in 2D , le immagini-flash back dell’antefatto alla storia vera e propria. Si esplica pertanto la genesi di Lord Shen e della sua rabbia in seguito alla cacciata dalla città di Gong Min. Il susseguirsi delle vicende si dipanerà assecondando principi prettamente dinamici per cui l’azione avrà il sopravvento sulla gag comica. Risultato: si ride meno, partecipando altrimenti della narrazione per empatia coreutica, tutta cinetica. In questo gran ballo policromo gli animali antropomorfi protagonisti della vicenda si lanciano in acrobazie spericolate seguendo passo passo il fil rouge che renderà Po un goffo (per questo passibile di maggiore identificazione da parte del pubblico) emulo di Bruce Lee e Jackie Chan , così come abbiamo imparato a conoscerli tramite la filmografia che li vede protagonisti. In tutto questo non possiamo fare a meno di sottolineare l’impatto di scenari, dipinti ricreati digitalmente, efficaci e quanto mai veri. Si susseguono, uno dopo l’altro, in un caleidoscopio di luci, colori ed ombre capaci di ricreare un ambiente familiare e nostalgico, di forte impatto narrativo.
Meritevole di lode il cast originale in carne ed ossa, grande apparato vocale a prestar voce ai beniamini della storia. Jack Black regala al suo Po un’efficace titubanza di fondo insaporita da uno humor fatto di tempi e reazioni genuine, frutto della spontanea verve comica dell’attore.
In un confronto che ha dell’impietoso, Fabio Volo ripropone l’ennesima versione riscaldata del suo panda bergamasco doc, dando vita ad una performance urticante di intonazioni svizzere e monocordi, degne del peggior allievo di un corso di doppiaggio.





giovedì 12 luglio 2012

Cosa piove dal cielo?








Un film di Sebastiàn Borensztein
Con Ricardo Darin, Ignacio Huan, Muriel Santa Ana, Enric Rodriguez, Ivan Romanelli
Titolo originale: Un cuento chino
Genere: commedia
Soggetto: Sebastiàn Borensztein
Sceneggiatura: Sebastiàn Borensztein
Produzione: Pablo Bossi, Juan Pablo Buscarini, Gerardo Herrero, Axel Kuschevatzky, Ben Odell
Produttore esecutivo: Mariela Besuievski
Casa di produzione: Pampa Film
Distribuzione italiana: Archibald Film
Fotografia: Rolo Pulpeiro
Montaggio: Fernando Pardo, Pablo Barbieri Carrera
Musiche: Lucio Godoy
Scenografia: Laura Musso
Costumi: Angela Ortuno, Alejandra Albert
Argentina 2011


di Chiara Roggino 



Cina, provincia di Fusheng. Una mucca cade dal cielo e provoca una tragedia”.
La vita di Roberto, ferramenta a Buenos Aires, è organizzata su misura. Un tran tran di rituali, piccole necessarie abitudini, non permette colpi di scena. Se il giorno è dedicato alla conta di viti e bulloni, la sera è tempo di lettura. Giornali e riviste da tutto il mondo, materia prima ideale per stanare notizie bizzarre, fatti fuori dall’ordinario: ottimi da inserire nella grande collezione. La luce si spegne alle ore 23.00, non un un minuto prima, non un minuto dopo. Ma basta poco per scatenare l’imprevisto nella vita dell’uomo: un cinese scaraventato con forza fuori da un taxi, proprio davanti al suo negozio. Jun non conosce una parola di spagnolo ed è alla ricerca dello zio. Unico indizio ad agevolare la caccia al tesoro, un indirizzo tatuato sul braccio. Roberto non digerisce le ingiustizie. Risultato: il giovane cinese è accolto in casa dal burbero argentino. La strana coppia si metterà alla ricerca del misterioso zio con risultati a dir poco sorprendenti. (sinossi)
Al suo primo film, Sebastiàn Borensztein (premio Marc’Aurelio d’Oro come miglior pellicola al Festival Internazionale del Film di Roma 2011) regala al suo pubblico un piccolo gioiello: un film fatto di niente, permeato di poesia. Una storia sull’accettazione delle diversità che si fa canto dolceamaro narrando di sofferenza ed esistenze in rinascita per una voglia di vivere nuova, piovuta dal cielo. L’autore sussurra a voce limpida la sua morale: niente in questa vita accade per caso. Un destino invisibile lega le nostre esistenze una all’altra, quando meno ce l’aspettiamo.
Borensztein trova il suo Roberto nello sguardo malinconico dell’attore Ricardo Darin, già protagonista de “Il segreto dei suoi occhi” (premio oscar quale miglior film straniero nel 2011). Qualcuno, a ragione, l’ha rivestito dell’appellativo di Buster Keaton argentino. Gestualità minimale, una recitazione calibrata in sottrazione per una performance generosa tra sorrisi appena accennati e improvvisi rabbuiamenti.
Roberto, immigrato italiano, burbero dal cuore tenero, è un abbattuto dalla storia, un reduce di guerra (il breve accenno alle Falkland bene esprime i presupposti per un’esistenza azzerata in età acerba). La sua “non vita” non ha senso giacché per lui nulla nella vita ha un senso. Da ferite tanto profonde, una sopravvivenza priva di emozioni forti e grandi responsabilità che si esprime per tic e rituali insopprimibili. Cercando di mantenere sempre il controllo, nonostante tutto. La grigia routine è spazzata via all’improvviso, quando da un taxi viene scaraventata un’altra vita, ugualmente segnata per diverso dolore. Ignacio Huan è delizioso nell’interpretare lo spaesato Jun, artista che si ritrova suo malgrado a svolgere lavori di bassa manovalanza presso il negozio di Roberto. Un’espressione stampata sul viso, tra stupore, paura e perpetuo smarrimento, Jun sarà per Roberto diversivo, occasione per un dialogo diverso dal soliloquio: una comunicazione essenziale fatta di gesti e reciproci scambi di mimica facciale.
Tra intarsi-omaggio al cinema di Jean-Pierre Jeunet (a “Il favoloso mondo di Amelie”, in particolare), microstorie surreali a rimarcare le qualità di un intreccio altrettanto stravagante, le vicende dei due protagonisti si dirigono verso l’agognato epilogo a lieto fine. Come nella migliore tradizione fiabesca, a volte ciò che sembra non possedere un senso, rivela un significato profondo, nascosto ai più. La felicità spesso proviene da orizzonti inaspettati.




Diaz - Non pulire questo sangue


 

 



Un film di Daniele Vicari
Con Claudio Santamaria, Elio Germano, Jennifer Ulrich, Renato Scarpa, Mattia Sbragia, Rolando Ravello
Genere: Drammatico
Sceneggiatura: Daniele Vicari, Laura Paolucci
Produttore esecutivo: Domenico Procacci
Casa di produzione: Fandango, Le Pacte, Mandragora Movie
Distribuzione italiana: Fandango
Fotografia: Gherardo Gossi
Montaggio: Benni Atria
Musica: Teho Teardo
Scenografia: Marta Maffucci
Costumi: Roberta Vecchi, Francesca Vecchi
Italia- Francia-Romania 2012



di Chiara Roggino



Frammenti di vetro come pioggia: cascata di cocci, mine impazzite. Poi il rewind: le schegge riacquistano forma originaria, la bottiglia torna sui suoi passi per ricomporsi in volo. Era ancora giorno, quel ventun luglio del 2001. Davanti alla scuola Diaz una volante della polizia viene presa d’assalto dai no-globals: gioventù multietnica, pacifici manifestanti; anticapitalismo contro il vertice G8 di Genova. La folla si riversa contro la vettura al grido “Assassini! Assassini!”. Era ancora giorno quando Carlo Giuliani perse la vita in Piazza Alimonda. Aveva ventitré anni. Un poliziotto gli sparò alla testa.
Il regista Daniele Vicari realizza un racconto corale basato su testimonianze e resoconti dei processi inerenti all’intervento militaristico ad opera del VII Reparto mobile della polizia di Stato (da “macelleria messicana”, come lo definì il vicequestore Michelangelo Fournier) avvenuto nella notte tra il ventuno e il ventidue luglio 2001 presso le scuole Diaz, Pertini e Pascoli (centro di coordinamento del Genoa Social Forum).



Un film o un documentario? Una pellicola ibrida quella diretta da Vicari. L’autore decide di alternare due tipi di linguaggio: racconto tradizionale e documentazione tramite camera a mano; quest’ultima programmata a concretare un maggior impatto-effetto di realtà , quasi si trattasse di una presa diretta. Nel 2011 Carlo Augusto Bachschmidt realizza il documentario “Black Block”. Testimonianze reali di alcuni tra i manifestanti al G8 di Genova, presenti alla carneficina Diaz. Quando un racconto orale, privo di immagini sature di violenza, rende con forse maggior efficacia la realtà dei fatti che furono. La ‘colpa’ di Vicari, se così vogliamo definirla, non risiede in una presa di posizione di parte. La scelta di inscenare un racconto corale per dar vita ai fatti del 2001 è in sé un’idea felice, prodiga di aspettative. Tuttavia ci si chiede se tale scelta si stata programmata efficacemente ( e consapevolmente) in fase di stesura del plot, durante la costruzione di una sceneggiatura portante.
Il risultato porta a sviluppare caratteri tagliati con l’accetta, sine spessore psicologico. Posso approvare un simile atteggiamento se inserito nel giusto contesto: quello di un documentario ‘puro’ in cui a contare siano i fatti e non le personalità dei protagonisti. Ma se mi presenti un personaggio e siamo all’interno di un film (ibrido fin che vuoi), allora io pretendo: non di sapere tutto, non uno scavo psicologico approfondito, ma qualcosa di più della realizzazione di semplici macchiette. Unico, grande interprete, in grado di delineare in poche battute il proprio ruolo (e la propria umanità) all’interno della vicenda, Renato Scarpa.
Diaz”, nella sua comprensibile ansia di presentare i fatti così come realmente accaddero, si riduce a un perpetuo pestaggio, a un lago di sangue. E’ sufficiente assistere ad una carneficina per ricordare e imprimere nella memoria l’indignazione riguardo ad avvenimenti che urlano di defunta democrazia?
Una follia collettiva che portò ad una strage programmata nei minimi dettagli. La strage non fu condotta come conseguenza all’assalto della volante quel pomeriggio del 2001. Vicari sembra insistere sull’evidenza di tale movente tramite l’uso ripetuto di flashback, inutile quanto fastidioso: un montaggio che ostacola il dipanarsi degli eventi. I macellai che capitanarono l’operazione avevano dalla loro uno scopo preciso: ripristinare l’autorità della polizia, incapace, durante quei giorni d’inferno, di frenare gli attacchi ad opera dei black block. Una rivincita delle forze dell’ordine. Chi furono i capri espiatori, chi gli architetti del blitz? Il film li esclude dal campo d’azione, accennando volti indefiniti, dialoghi banali. Risultato: confusione e pressapochismo. Eppure i nomi noi li conosciamo. Ma a Vicari questo non sembra interessare. Nel finale quattro ragazzi francesi assunti dall’autore come i veri ricercati dalla polizia, ritornano sul luogo del massacro. “E’ stata colpa nostra”. I manifestanti violenti giunti a Genova dall’estero durante il G8 erano all’incirca duemila. Il responso dell’autore, tramite le parole dei suoi personaggi, risulta quanto meno facilone e inverosimile. Peccato. Cinematograficamente parlando, la memoria dei fatti presso la scuola Diaz meritava di più.





Le idi di marzo










Un film di George Clooney
Con: Ryan Gosling, George Clooney, Philip Saymour Hoffman, Paul Giamatti, Marisa Tomei, Evan Rachel Wood
Genere: Drammatico, thriller
Titolo originale: The Ides of March
Durata: 101 min.
Soggetto: Beau Willimon
Sceneggiatura: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon
Produzione: George Clooney, Grant Heslov, Beau Willimon, Brian Oliver
Casa di produzione: Cross Creek Pictures, Exclusive Media Groupe, Smokehouse Pictures
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Stephen Mirrione
Musiche: Alexandre Desplat
Scenografia: Sharon Saymour
Costumi: Louise Frogley
USA 2011


di Chiara Roggino


Washington D.C. : quartieri alti del lobbismo americano. Percorrendo K Street, Farragut North è una stazione metropolitana come tante.
Liberamente ispirato alle primarie democratiche del 2004 (e alla campagna elettorale del governatore Howard Dean), “Farragut North” , dal nome dell’omonima fermata della Linea Rossa, è opera dell’autore teatrale Beau Willimon. Nell’ottobre del 2008 la produzione debutta al Teatro Linda di New York City riscuotendo uno strepitoso successo. Tra i plaudenti, l’attore e cineasta americano George Clooney. Risultato: nel 2011, il drammaturgo, incaricato dalla Warner Brothers, scrive l’adattamento cinematografico della sua pièce. La sceneggiatura sarà un lavoro a tre mani, tra Willimon, Grant Heslov e lo stesso Clooney. “The Ides of March”, opera quarta dell’autore di “Good Night, and Good Luck” debutterà in anteprima in apertura alla sessantottesima mostra del cinema di Venezia, il 31 agosto. Negli Stati Uniti la distribuzione del film ( effettuata Sony Pictures) inizia il 7 ottobre.
Perché se stai in questo lavoro diventi stanco e cinico”.
Sullo sfondo di un politicare corrotto animato da inesauste brame di potere ha luogo il processo di disumanizzazione dell’enfant prodige Stephen Meyers ( Ryan Gosling), addetto stampa per la campagna elettorale del governatore democratico Mike Morris ( George Clooney).





Un film circolare, “Le Idi di Marzo”: una pellicola che risente del proprio retroterra, squisitamente teatrale, tra entrate e sortite di scena congegnate ad arte, mai banali, catturate in un gioco di efficaci chiaroscuri dalla sapiente fotografia di Phedon Papamichael. Un giovane magro, volto pulito, fa il suo ingresso nel grande palcoscenico. L’attore cammina deciso, da sinistra verso destra: ne intuiamo la sagoma smarrita nel buio. Si ferma: un primo piano ravvicinato ( ora il volto è in piena luce). Sul ‘proscenio’ il personaggio ripete meccanicamente le sue battute: è una comparsa, uno dei tanti, Stephen Meyers. All’approssimarsi del the end , lo stesso uomo entra in scena. Nuovamente. Da destra a sinistra. Ad attenderlo una sedia da star, telecamere e luci.
Intorno al nuovo divo, mani armeggiano al trucco, sistemano i microfoni. Il neo direttore della campagna stampa è ora protagonista indiscusso, robot tra i robot, meccanizzato, inumano, perfettamente inserito nel Sistema.
Le Idi di Marzo”, liquidato da molti come parabola scontata e superficiale sulla corruzione politica è in realtà molto di più. Clooney mette in scena un vero e proprio ‘romanzo di formazione’. Protagonista: Stephen Meyers, giovane ambizioso ma di puri e ingenui ideali. “Governatore, c’è una bella differenza tra me e Paul. Paul crede nella vitttoria e farà di tutto per vincere. Io farò e dirò di tutto per ciò in cui credo. Ma devo credere nella causa”. Da un certo punto della vicenda in poi Stephen cadrà preda della confusione più totale. Poco sarà sufficiente: scoprire che il proprio idolo, colui per cui si è lavorato e lottato , non è la gemma di integrità che dava ad intendere.
La rivelazione basterà a rendere l’eroe dal cuore puro un semplice mortale dominato dall’ubris, animato da vendetta e sfrenati sentimenti di rivalsa, pronto a calpestare chicchessia per conquistare l’ambito seggio di potere.
Il teatro politico di Clooney mette in scena personaggi-attori che ripetono un copione precedentemente appreso. Dignità e integrità sono parole vuote, insegne luminose su uno schermo per essere ricondotte a una labile memoria. “Perché è il modo in cui ci presentiamo al mondo che conta. La dignità è importante! L’integrità è importante! Il nostro futuro dipende da questo”.
Vinto il premio Brian a Venezia 2011, “Le idi di marzo” ottiene quattro candidature ai Golden Globe 2012: miglior film drammatico, miglior sceneggiatura non originale, miglior regista e miglior attore drammatico ( Ryan Gosling).
Gosling rinnova doti d’interprete fuori dal comune, imprimendo il proprio nome tra i divi hollywoodiani che contano. Ma Le Idi di Clooney brillano di un cast complessivamente lungi dall’ordinario: una gara tra talenti in cui a “sfigurare” sarà forse il regista-attore nelle vesti del candidato Morris. Rimarchevole la prova di un Paul Giamatti ( Tom Duffy, direttore della campagna stampa avversaria) in stato di grazia. Tra gigionerie da mestierante consumato e battute, parole buttate lì, apparentemente a caso, ma con meticolosa precisione attorale, Giamatti dà vita a un personaggio sfaccettato nel più efficace dei modi, coro e portavoce ideale di quel disumano cinismo, quella dote drammaticamente necessaria al fare politica.