giovedì 12 luglio 2012

Midnight in Paris









Un film di Woody Allen
Con Owen Wilson, Rachel McAdams, Adrien Brody, Marion Cotillard, Katy Bates
Genere: Commedia
Durata: 94 minuti
Sceneggiatura: Woody Allen
Produzione: Letty Aronson, Stephen Tenenbaum, Jaume Roures, Helen Robi, Eva Garrido
Produttore esecutivo: Javier Méndez, Jack Rollins
Casa di produzione: Mediapro, Versàtil Cinema, Gravier Productions, Pontchartrain Productions
Fotografia: Darius Khondji
Scenografia: Anne Seibel
Costumi: Sonia Grande
Usa, Spagna 2011


di Chiara Roggino




La realtà è che la nostalgia significa negazione. La negazione di un presente doloroso (…) Il nome di questa teoria è ‘l’idea del periodo d’oro’. Un concetto sbagliato secondo cui se vivessimo in un diverso periodo sarebbe meglio dell’attuale. E’ il fallimento di un’immaginazione romantica delle persone che faticano ad affrontare il presente”. Al “pedante” Paul, pseudo intellettuale da quattro soldi, è sufficiente un breve giro di parole per catalogare la ‘patologia’ del sognatore Gil Pender. La diagnosi non si allontana troppo dalla realtà. Gil si trova a Parigi insieme alla fidanzata Inez e ai futuri suoceri, in trasferta nella capitale francese per motivi di lavoro. Il giovane Pender è alle prese con il suo primo romanzo. Le parole, ahimé, non prendono il volo e Gil non nega una certa fatica perché “è uno sceneggiatore di Hollywood e finora non ha mai scritto vera letteratura”. Cosa domandare di più? Per il neo romanziere in cerca d’ispirazione galeotti saranno Parigi e la sua “festa mobile”. Nella miglior tradizione della fiaba secondo Allen, ai dodici rintocchi della mezzanotte gli orologi impazzano: una mano invisibile arretra di un secolo le lancette dell’orologio, scaraventando l’incredulo Gil nel vortice di una scatenata Parigi anni Venti. Il goffo sceneggiatore, baciato da un miracoloso “Cinderella’s touch”, si troverà a tu per tu con i suoi idoli artistici e letterari: i coniugi Fitzgerald, un Hemingway baffuto e tenebroso, Gertrude Stein, Pablo Picasso, Salvador Dalì. I fantasmi del passato, mai così reali, saranno per Gil autentici maestri di vita, creativa e amorosa.
Era dai tempi de “La rosa purpurea del Cairo”che attendevamo il ritorno di un Allen alla larga da intellettualismi e fobie, maestro di pura e incontaminata leggerezza. “Midnight in Paris”solletica la gola dello spettatore tale a una cascata di bollicine di champagne, delicate e frizzanti. Andando per il sottile potremmo tacciare il vecchio Woody per eccesso di ingombranza autoriale (quando il protagonista si fa alterego-sostituto dell’autore in carne ed ossa). Inizialmente sarà forse difficile scindere il personaggio Gil Pender da un Allen assente ma sempre manifesto. Tuttavia, col passar del tempo, ci lasceremo portare per mano, concedendo piena fiducia a Owen Wilson. Fra tenere perplessità, occhi sgranati e un romanticismo d’altri tempi, l’attore feticcio di Wes Anderson (da “Un colpo da dilettanti” a “Il treno per Darjeeling”) è indiscutibile talento di performer, un cocktail ben temperato di misura e istrionismo.
Lungi dallo strafare, Wilson tratteggia una recitazione di teneri sbigottimenti e concitati entusiasmi per cui ogni emozione saprà l’incarnato della vita vera, così come è davvero vissuta.
Se potessi scegliere, in quale epoca vorresti vivere?”. Ci sarà capitato, prima o poi: trovarci nel mezzo di un comunissimo gioco per un periodo ipotetico dell’irrealtà. Un umano e concreto dolere è retroterra alla fiaba intessuta da Allen. Ognuno di noi è in qualche modo incapace di vivere il presente, frastornato dalle montagne russe di una quotidianità proiettata in un incerto avvenire. Più comodo è rifugiarsi in un passato risaputo e meglio decifrabile. Imprescindibile dall’uomo, in ogni tempo, lo sforzo di calarsi nell’oggi per trarne creatività e bellezza.
Adriana, se resti qui diventerà il tuo presente e prima o poi inizierai a sognare un’altra epoca, sai, la vera età dell’oro. Ma è il presente! E’ un po’ insoddisfacente perché la vita è un po’ insoddisfacente. (…) Se mai vorrò scrivere qualcosa di valido dovrò sbarazzarmi delle mie illusioni. Pensarmi più felice nel passato ne fa sicuramente parte”.




This must be the place






Un film di Paolo Sorrentino
Con Sean Penn, Frances McDormand, Eve Hewson, Dean Stanton, Joyce Van Patten
Genere: Drammatico
Durata: 118 min.
Soggetto: Paolo Sorrentino
Sceneggiatura: Paolo Sorrentino, Umberto Contarello
Produzione: Nicola Giuliano, Francesca Cima, Andrea Occhipinti, Michèle Petin, Laurent Petin, Ed Guiney, Andrew Lowe
Produttore esecutivo: Ronald M. Bozman, Viola Prestieri
Casa di produzione: Medusa Film, Indigo Film, Lucky Red, Element Pictures, ARP Sélection
Fotografia: Luca Bigazzi
Montaggio: Cristiano Travaglioli
Musiche: David Byrne, Will Oldham
Scenografia: Stefania Cella
Costumi: Karen Patch
Italia, Francia, Irlanda 2011


di Chiara Roggino



Cheyenne è una rockstar “in disuso”: vent’anni lo separano dal grande ritiro. L’uomo abbandona le scene e dall’America si trasferisce nell’europea Dublino. Qui vive insieme alla moglie Jane, donna forte che riesce a contenere le sue apatie, depressioni grandi e piccole. Quando il padre, ebreo di New York, muore di vecchiaia, Cheyenne è costretto a fare ritorno alla casa della sua infanzia. Il cugino gli rivela che l’anziano genitore, ex prigioniero ad Auschwitz , da tempo si era mobilitato nell’ossessiva ricerca del suo antico carceriere, un certo Aloise Lange, criminale nazista. Il figlio raccoglierà l’eredità del padre. Il “ diversivo” on the road di Cheyenne sarà viaggio, percorso introspettivo e occasione d’incontro con strani e singolari individui. (sinossi)



Un film che si muove su binari di estrema semplicità”. Paolo Sorrentino, regista, sceneggiatore, scrittore, parla della sua ultima fatica, “This must be the place”. L’investimento di trenta milioni di dollari e un divo di Hollywood per protagonista non sono garanti di una resa che livelli sforzi produttivi a un risultato decoroso. Abile investitore, grande artista, favorito della dea fortuna, chiamatelo come più vi aggrada. Di certo c’è solo un esito che si allinea ad un meritato successo. Ossigeno insolito per il cinema italiano: una ventata d’aria buona che lascia ben sperare nell’avvento di una nuova generazione di cineasti alla larga da provincialismo, sciatteria e male abitudini.
Sorrentino insiste nel rimarcare la semplicità del suo film. I critici, afferma l’autore, i detrattori in special modo , ne hanno dato una lettura complessa, troppo “pensata”.
Parola d’ordine: semplicità. Sorrentino strappa la maschera al suo Cheyenne rivelando un’anima nuda e vulnerabile. Il tutto con estrema limpidezza: le parole, il monologo in questo caso, sono il mezzo più semplice per arrivare al dunque.Col cazzo che è lo stesso, David…col cazzo che è lo stesso. Io ero una popstar del cazzo e scrivevo canzonette lugubri perché erano di moda e ci si faceva un sacco di soldi e testi deprimenti per ragazzetti depressi e due di loro, più deboli di tutti gli altri, ci sono rimasti sotto: questo è stato il risultato. E adesso io vado al cimitero tutte le settimane per alleviare il senso di colpa, ma col cazzo che lo allevio, così peggiora solamente. E allora mia moglie mi dice ‘Ma perché non torni a suonare?’ e io penso che è una stupida oppure penso che magari mi ama fin troppo e allora è stupida uguale perché come fa a non rendersi conto del disastro che si trova davanti?!” 





 Cheyenne-Penn si fa fiume di parole in piena, sfogandosi alla presenza dell’amico ed ex collega David Byrne. “Sorrentino è un grande narratore” dirà Sean Penn in un’intervista rilasciata dopo la lavorazione del film. Noi gli facciamo eco.
Tra i leitmotifs che animano la pellicola, un insistente punto di domanda : cos’è un artista? Qual è il significato di questa parola così grande? Sorrentino azzarda un’ipotesi. Un artista è chi ha dei pensieri precisi, delle idee che riesce a realizzare. Artista è chi tramite le sue idee riesce a meravigliare il suo pubblico. In una società malata di show business, dove tutto è spunto per inscenare pubblicità, in cui media e tivvù sono sovrani erogatori di leggi, la parola “arte” è sdoganata al pari di un qualsiasi prodotto di marketing. Oggi c’è sempre meno gente che lavora, commenta Cheyenne, giacché tutti si occupano in un modo o nell’altro di qualcosa di “artistico”. Quella di Sorrentino si fa satira feroce di una collettività, quella americana, e del suo ottuso consumismo.
Forse non riusciremo mai a formulare una risposta provvista di senso e l’artista continuerà ad essere l’enigmatico latore di un imprecisato sapere, tuttavia chi ha assistito a “This must be the place” potrà arrogarsi il diritto a una certezza. Che Sean Penn è un grande interprete. Che questo attore ci ha regalato la performance più generosa e stupefacente della sua carriera. Che quando un attore è così grande, non so voi, ma io lo chiamo artista.
L’inizio è un primo piano continuo, dettaglio dopo dettaglio: smalto nero alle unghie dei piedi, un pendente aggiustato all’orecchio, rossetto acceso sulle labbra, mani che abbottonano una camicia scura, kajal a sottolineare lo sguardo. Gli occhi sono stupefatti, di un azzurro attonito. Una nube di lacca a fissare l’acconciatura. Profilo di Cheyenne, mezzo primo piano di Cheyenne allo specchio. L’uomo pare annoiato per lo più, apatico. Penn regala al suo protagonista un’andatura curva per una camminata sbilenca, a gambe storte. Il passo è incerto, l’equilibrio precario abbisogna di un ulteriore punto d’appoggio: che sia un carrello della spesa o un trolley, è lo stesso.
La voce sembra provenire da un universo lontano o da un pianeta estinto: flebile, cantilenante, vagamente effemminata. Davanti a noi una maschera: uno stralunato Pierrot o un personaggio del cinema muto. Cheyenne ha smesso di suonare da vent’anni, rinnegando un passato di cui è rimasto prigioniero. Oltre il cerone, la matita e il rossetto, un numero imprecisato di anni, un lasso di tempo indefinito. Il tempo: una vettura che si muove d’inesorabile lentezza. Il movimento è costante, accumula giorni, anni. “Lo sai qual è il vero problema? Che passiamo senza farci caso dall’età in cui dici ‘un giorno farò così’, all’età in cui si dice ‘è andata così’”. C’è un tempo per avere quindici anni e truccarsi gli occhi come una rockstar. C’è un tempo in cui tutto porta a pensare che nostro padre ci odi, che ci abbia in disistima per questo motivo. C’è un tempo per accorgersi che un padre non può fare a meno di amare suo figlio. Ed è troppo tardi per recuperare ( “Tardi è tardi!”).
Sorrentino ci regala un film raro: immagini e dialoghi sono un tutt’uno di commovente bellezza. Ci si chiede se il cinema italiano necessiti di trasferirsi oltre oceano per conseguire una nascita nuova. In questo caso non posso che concordare con il giornalista Vittorio Zucconi: ben vengano registi che consegnino all’estero un’immagine positiva di questo nostro, al momento, disastrato paese. Ne abbiamo bisogno.



 


The artist


 

 

Un film di Michel Hazanavicius
Con Jean Dujardin, Bérénice Béjo, John Goodman, James Cromwell, Penelope Ann Miller
Genere: Drammatico, commedia, romantico
Durata: 100 min.
Sceneggiatura: Michel Hazanavicius
Produzione: Thomas Langmann
Produttore esecutivo: Antoine de Cazotte, Daniel Delume, Richard Middleton
Casa di produzione: La Petite Reine, Studio 37, La Classe Américaine, JD Prod, France 3 Cinéma, Jouror Protuction, uFilms
Fotografia: Guillaume Schiffman
Montaggio: Anne-Sophie Bion, Michel Hazanavicius
Musiche: Ludovic Bource
Scenografia: Laurence Bennett, Gregory S. Hooper
Costumi: Mark Bridges


di Chiara Roggino


Anni Venti. Il divo del muto George Valentin è al culmine del successo. Se la sua vita privata è un fallimento e sua moglie lo disprezza, la carriera del grande artista sembra non conoscere rivali. Ma con l’esordio del cinema sonoro le cose precipitano di male in peggio. Valentin si rifiuta di conformarsi al nuovo regime e viene silurato dalle case di produzione, pronte a sostituirlo per far largo a una nuova generazione di attori più giovani e loquaci. Al dramma dell’attore sulla via del tramonto si intreccia la love story tra l’artista e la bella ed esuberante starlette Peppy Miller. (sinossi)






Nel camerino deserto il volto dell’artista si riflette nello specchio. In sala un silenzio irreale. Il pubblico pare sotto l’effetto di un singolare incantesimo. Rispetto per il bisbisnonno del cinéma d’aujourd’hui? Non solo. Vive e si emoziona in preda a un’inesausta tempesta sonora: lo spettatore d’oggi accoglie il ritorno al passato come una benedizione. Niente più boom crash bang, ma un un tappeto sonoro ovattato, musica d’orchestra dolce e insinuante.
Torniamo al nostro divo: l’artista davanti allo specchio. L’uomo beve frettolosamente da un bicchiere. Lo appoggia sul tavolo. Uno strano rumore spezza l’imperante silenzio: quello di un bicchiere appoggiato su un tavolo. Valentin non riesce a capacitarsi: tanta chiassosa enormità è fuori copione. Riprende il bicchiere in mano, lo ripone. Deng, lo stesso suono. Deng, deng, ancora e ancora. E’ la volta di un nuovo oggetto. Altra mossa, altro suono, ancora e ancora. Nel frattempo nuovi rumori si insinuano da dietro la porta: risate, un telefono che squilla, voci di corridoio. Valentin è come paralizzato. Prova a gridare, forse aiuto, ma senza effetto: non un suono esce dalle sue labbra. L’artista esce di corsa dal camerino e via per la strada. Un gruppo di ballerine di fila gli si fa incontro, ridendo e schernendolo. Il vento soffia sempre più rumorosamente portando con sé una piuma minuscola, da niente. La piuma ondeggia lenta e si posa al suolo col fragore di una bomba. Stacco di montaggio. La camera indugia sul volto di George Valentin. L’uomo si è appena svegliato da quello che ora ci appare come il peggiore tra gli incubi. 





Michel Hazanavicius scopre l’uovo di Colombo. Cinema digitale e 3D in ogni salsa dettano legge ad Hollywood 2011. A quanto pare in Francia le cose vanno diversamente: un moderno cineasta con un retroterra tra pubblicità e tv reinterpreta il bianco e nero allestendo un film completamente muto. Una favola romantica che ricalca i clichés dell’epoca, con qualche invenzione di genio purissimo da lasciare il segno.
Quando Michel mi ha parlato di The artist, prima ho pensato che stesse scherzando, poi che volesse attentare alla mia stabilità mentale (…) Perché un attore ha due cose a cui aggrapparsi: le battute da imparare e la voce per recitarle. Toglierle entrambe è come buttarlo giù da un dirupo e stare a vedere se riesce a volare”.
Jean Dujardin (premio per la migliore interpretazione maschile a Cannes) le ali le ha ha messe per davvero. Scimiottare le gigionerie di un attore del cinema muto, tra smorfie e movimenti enfatici, non era sufficiente. A Dujardin basta uno sguardo o uno scatenato balletto di tip tap per rendere al pubblico lo spirito di quell’indimenticabile età dell’oro che vide trionfare divi della caratura di Douglas Fairbanks e Mary Pickford.E’ proprio da Fairbanks (interprete di film d’azione, eroe di cappa e spada dall’ineguagliabile sorriso per un’agilità acrobatica passata alla storia) che Dujardin dichiara d’aver tratto ispirazione per il suo George Valentin, studiando ogni suo gesto ed espressione.
In un cast impreziosito dalla presenza di attori hollywoodiani quali John Goodman (produttore spietato in puro stile O. Selznick, capace di imprevedibili e morbidi cedimenti per regalare alla storia l’agognato happy end) e Penelope Ann Miller (algida consorte di Valentin), spicca la straordinaria performance di una vecchia volpe del grande schermo, pur relegata in un ruolo di marginale importanza. James Cromwell-Clifton, il fedele autista tuttofare del protagonista, brilla di una recitazione apparentemente in sordina, intessuta tra umanità e delicate tenerezze. Per dirla alla Stanislawskij : “Non esistono parti minori, ma solo attori minori”. Certo il buon Cromwell non appartiene a quest’ultima categoria.



 




Take shelter






Un film di Jeff Nichols
Con Michael Shannon, Jessica Chastain, Tova Stwart, Katy Mixon, Shea Whigham
Genere: Drammatico
Durata: 121 min.
Sceneggiatura: Jeff Nichols
Produzione: Grove Hill Productions, Strange Matter Films
Fotografia: Adam Stone
Montaggio: Parke Gregg
Musiche: David Wingo
Scenografia: Chad Keith
Usa 2011


di Chiara Roggino



Una vita apparentemente normale quella di Curtis La Forche. Una bella moglie ( casalinga e sarta part-time) e una figlia, Hannah ( Tova Stwart) , sorda della nascita. L'uomo lavora in un cantiere edile. Tutto bene finché il trantran quotidiano si spezza all'improvviso. Curtis ( Un Michael Shannon in stato di grazia) è assalito da incubi spaventosi: l'approssimarsi di una catastrofe naturale piovuta dal cielo, un'apocalisse con le carte in regola. Il tranquillo padre di famiglia diviene all'improvviso vittima di una spaventosa ossessione. Deve ad ogni costo rimettere in sesto il vecchio rifugio anti uragano situato nel giardino di casa... (sinossi)




Un cielo gravido di nubi, l'approssimarsi di una tempesta. Curtis la Forche lo osserva, minacciato dall'incombere di una catastrofe. Vento tra il fogliame degli alberi. Goccia dopo goccia, l'acqua piovana, scura e densa, quasi olio di motore, impasta la mano dell'uomo. Curtis si sveglia. Un incubo, null'altro.
Il 29 giugno 2012 esce nelle sale italiane “Take shelter”. Al suo terzo lungometraggio, Jeff Nichols, autore di talento visivo purissimo, conduce per mano lo spettatore in una realtà allucinatoria, dove sogno e realtà paiono confondersi, mescolandosi l'un l'altro. Il film ha fatto parte della selezione ufficiale del Sundance Film Festival 2011 per essere successivamente presentato al Festival di Cannes 2011 nella sezione Settimana Internazionale della Critica aggiudicandosi il Gran Premio e altri premi collaterali.
Un argomento di scottante attualità quello di “Take shelter”. Il male di vivere, l'ansia dell'uomo contemporaneo per una fine del mondo che sembra approssimarsi alla velocità della luce (“Ho paura che possa accadere qualcosa”, dirà Curtis). Presagi allucinatori quelli di La Forche. Uccelli sparpagliati nel cielo, quasi a formare una strana nube che pare di insetti, forse cavallette ( Evidente l'associazione con una delle sette piaghe d'Egitto). Curtis è ossessionato dalla volontà di salvarsi, di salvare la propria famiglia ( Lotta per la conservazione della specie umana?). L'uomo, consapevole del proprio disagio psichico, teme di aver ereditato una qual forma di disturbo schizofrenico da parte materna ( La donna, da anni, è internata in una casa di cura). Nel suo rapido precipitare in una lucida follia, La Forche è terrorizzato dall'idea di dover abbandonare la famiglia così come fece la madre un giorno, quando lui e il fratello erano ancora ragazzi. La moglie Samantha ( Un'intensa Jessica Chastain) farà di tutto pur di salvare il suo uomo.
Nichols intreccia una storia in cui si susseguono, implacabili, incubi spaventosi, uno dopo l'altro, senza tregua. Tra le tante, rimarrà impressa nella mente dello spettatore una scena in particolare: uccelli che si avventano in picchiata su padre e figlia per poi cadere a terra, morti, esanimi, uno dopo l'altro.



 




Marilyn







Un film di Simon Curtis
Con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Julia Ormond, Kenneth Branagh, Geraldine Somerville, Emma Watson, Judi Dench, Derek Jacobi
Titolo originale: My week with Marilyn
Genere: Commedia drammatica
Durata: 99 min.
Soggetto: Colin Clark
Sceneggiatura: Adrian Hodges
Produzione: David Parfitt
Produttore esecutivo: Bob Weinstein, Harvey Weinstein
Casa di produzione: The Weinstein Company, Lypsinc Productions, Trademark Films, Uk Film Council
Fotografia: Ben Smithard
Montaggio: Adam Recht
Scenografia: Donal Woods
Regno Unito 2011



di Chiara Roggino



Il giovane Clark, conseguita la laurea a Eton, decide di tentare l'avventura buttandosi a capofitto nel rutilante mondo dello spettacolo. Colin è la pecora nera della famiglia. Figlio dello storico d'arte di fama mondiale Kenneth Clark e fratello minore di un uomo politico, disattese le speranze di un genitore che avrebbe auspicato per il rampollo un futuro di alti incarichi nell'ambito di una professione 'patriarcale' tramandata da generazioni.
E' il 1957 e la Marilyn Monroe Productions (in collaborazione con la società cinematografica di Laurence Olivier) è in procinto di iniziare le riprese di un nuovo film: “Il principe e la ballerina”, tratto da una commedia di Terence Rattingam. A dirigere la pellicola, lo stesso Olivier. La testardaggine di Colin verrà premiata con la promozione a terzo assistente alla regia. Un'esperienza straordinaria per un sognatore incallito. Clark avrà modo di avvicinare e conoscere Marilyn, intrattenendo con la star hollywoodiana una breve relazione: una settimana soltanto. Abbastanza per innamorarsi della donna Norma Jeane, sufficiente per intuirne la disperazione, per tentare di salvarla da quella gabbia dorata che l'avrebbe condotta, anni dopo, alla morte. (sinossi)



Una donna in vestaglia raggomitolata a terra, in fondo alle scale: Norma Jeane Baker, per tutti Marilyn Monroe. Un blocco di appunti stretto tra le mani, lineamenti stravolti. Lacrime a solcarle il viso mentre un ragazzo magro la osserva in silenzio.
Il giovane è Colin Clark ( Eddie Redmayne) , allora ventitreenne, regista specializzato in film per il cinema e la televisione. Nel 1987 si ritirò dal mondo dello spettacolo per dedicarsi alla scrittura. Suoi due diari dal titolo “ The prince, the showgirl and me” e un libro di memorie “ My week with Marilyn”.

Simon Curtis, cinquant'anni, è uomo di teatro. I suoi esordi di carriera sono segnati da una stretta collaborazione in qualità di assistente alla regia presso il Royal Theatre di Londra. In seguito intrattiene un proficuo rapporto con la BBC, curando come produttore esecutivo più di cinquanta film che vedono in qualità di protagonisti numerose stelle del firmamento britannico: Alec Guinness, Kenneth Branagh, Maggie Smith, Ian McKellen, Judi Dench e Michael Gambon.
My week with Marilyn” (tratto dall'omonimo libro di Colin Clark), esordio alla regia sul grande schermo, assorbe e rivela pregi e difetti del teatro televisivo. Il film è assimilabile a una fiction di qualità media; unici punti di forza gli interpreti, tutti rigorosamente inglesi a esclusione della protagonista, Michelle Williams, giovane attrice americana.
Riportare in vita la donna-diva Monroe non è un'impresa da poco.
Il “mito Marilyn” fu un'operazione commerciale costruita ad hoc da parte di quella Hollywood Babilonia pronta a creare e distruggere feticci a proprio piacimento (“La tengono impasticcata. Temono che la loro mucca da mungere possa scomparire”).
Come ricreare sul grande schermo il volto e la leggenda di un'icona irripetibile? Scritturare una sosia non sarebbe stato sufficiente.
Curtis intraprende la ricerca di un'attrice di talento, quell'attrice che possieda il quid necessario per rendere palpabile e vera l'immagine di una donna sola, travagliata, estremamente insicura. Mai Norma Jeane Baker, solo Marilyn. “Non si può lasciare Marilyn da sola. Non ce la fa. E' convinta che prima o poi tutti l'abbandoneranno”.
La Williams, pur non rispecchiando i canoni estetici della diva che fu, offre una prova d'attrice più che convincente: misurata, mai sopra le righe.
Il suo sguardo perso nel vuoto è la disperazione di una donna che desidera una cosa soltanto: essere amata come un qualsiasi essere umano (“Chiedo solo di essere amata come una qualunque”).
Se a cinquant'anni Olivier rappresentava la tradizione britannica sul viale del tramonto, Marilyn, a trenta, incarnava lo spirito della nuova America: uno scontro culturale tra due icone.
Olivier ( uno splendido Kenneth Branagh) era una prima donna. Dalla sua una recitazione esteriore ed istrionica. Sapeva come incantare il suo pubblico e ottenere quel che voleva. Se questo si realizzava sulle tavole del palcoscenico, altra cosa avveniva nella vita reale. Lontano dai riflettori l'attore era l'ombra di se stesso.
Alla fine degli anni cinquanta Marilyn è devota discepola del metodo Strasberg. Era evidente che la sua inquietudine d'attrice fosse alla ricerca non di un insegnamento specifico, ma dell'insegnamento in quanto tale. Tra la diva Monroe e Strasberg si instaura così un rapporto di dipendenza e sudditanza. Paula Strasberg (Geraldine Somerville), moglie di Lee e sua actor coach, rappresentava l'urgenza di avere costantemente a fianco una figura di riferimento, un “guru” protettivo che la rassicurasse sulle proprie doti di performer. Secondo Paula il compito di un'attrice era quello di “trovare nel proprio passato un'esperienza simile per ricreare la giusta emozione”. Cercare a tutti i costi la verità dell'emozione. Se il prezzo da pagare era la follia o una recitazione in cui non sussisteva distanza tra attore e personaggio, poco importava. Olivier non potrà fare a meno di manifestarsi contrariato (“Stanislavskij e il Metodo vanno bene per le prove, ma non sono adatti per questo film. I tempi sono troppo stretti”).
I continui ritardi sul set della diva americana faranno andare il regista su tutte le furie. Ma alla fine, nonostante i numerosi litigi che rallenteranno la lavorazione di un film difficile da condurre a termine, l'attore dovrà riconoscere la grandezza di Marilyn. “Nessuna preparazione, né studio. Nessun trucco, tutto puro istinto. E' stupefacente. Probabilmente è questo che la rende così magnifica e così profondamente infelice. Ho fatto del mio meglio per cambiarla. Ma lei è rimasta favolosa nonostante me”.




Drive








Un film di Nicolas Winding Refn
Con Ryan Gosling, Carey Mulligan, Bryan Cranston, Albert Brooks, Oscar Isaac, Ron Perlman
Genere: thriller/azione
Soggetto: James Sallis (romanzo)
Sceneggiatura: Hossein Amini
Produzione: Bill Lischak, Linda Mc Donough, John Palermo, Gigi Pritzker, Michel Litvak
Casa di produzione: Bold Films
Distribuzione italiana: 01 Distribution
Fotografia: Newton Thomas Sigel
Montaggio: Mat Newman
Musiche: Cliff Martinez
Scenografia: Beth Mickle
Costumi: Erin Benach
Usa 2011


 di Chiara Roggino.



Drive, stuntman part-time, vive di espedienti illeciti sotto la guida ‘paterna’ del suo capo officina, Shannon, invischiato in affari poco puliti con alcuni pesci piccoli della mafia locale. Un giorno l’uomo incontra Irene, sua vicina di casa, e se ne innamora. La donna ha un figlio, Benicio, nato dalla relazione con un criminale, al momento dietro le sbarre.
Standard, padre del bambino, esce di galera. L’uomo è nei guai. In carcere si è indebitato in cambio di protezione. Ora che è in libertà gli strozzini lo marcano stretto. Per pagare il suo debito Standard dovrà rapinare un banco dei pegni. Drive, per amore di Irene e Benicio, si offre di aiutarlo. Le cose non andranno come previsto. (sinossi)





La solitudine m’ha perseguitato per tutta la vita. Dappertutto: nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”.
E’ il 1976. Martin Scorsese coagula su grande schermo i traumi di una generazione. Messa davanti ad uno specchio, la progenie del post Vietnam si riflette nelle fattezze e nei tic di un indimenticabile Robert De Niro.Guida taxi in notturna nella metropoli newyorkese macinando solitudini insonni: l’outsider, protagonista di “Taxi driver”,è collocato anagraficamente come Travis Bickle.
Passano più di trent’anni e una nuova macchina si fa strada nella giungla urbana. Siamo a Los Angeles. La città, dall’alto, pulsa di fuochi fatui: luci artificiali si animano intermittenti nella notte. L’autista non ha nome. Stuntman e operaio d’officina durante il giorno, tassista per rapine al calar del sole. La fotografia scompone l’anatomia del sembiante alle prese con un’operazione di routine (“Dammi ora e luogo e ti do cinque minuti: qualunque cosa accada in quei cinque minuti sono con te, ma ti avverto, qualunque cosa accada un minuto dopo sei da solo. Io guido e basta.”) Gli occhi. Riflessi nello specchietto all’interno della vettura. Il profilo. Ridisegnato dai riverberi del traffico notturno. Il volto. Lineamenti morbidi e rassicuranti. Le mani. Protette da guanti di pelle, allacciano al volante un orologio da polso. Un mezzo primo piano. Ora ne abbiamo la certezza: quelle mani, quello sguardo, quel profilo, quel volto appartengono al protagonista. Inizia la danza dei titoli di testa. “Drive” è lui, il nostro uomo.

Tratto dall’omonimo romanzo di James Sallis, la pellicola prende corpo dai presupposti di un debole spunto narrativo. Sulla carta, i fatti conoscono il sapore stantio del déjà-vu.
Nonostante gli auspici poco incoraggianti, retaggio di un intreccio inconsistente, Refn imbastisce una sceneggiatura di ferro per un’intensa messinscena fotografata ad arte da Newton Thomas Sigel (“Platoon”, “I soliti sospetti”). Quando al tutto si aggiunge l’apporto di interpreti superlativi, il gioco è fatto. Presentato alla 64 edizione del festival di Cannes, “Drive” si aggiudica il premio per la miglior regia.
Essenziale sarà l’incontro tra il Refn e il trentunenne canadese Ryan Gosling. L’attore si concede completamente al suo personaggio: Gosling e Drive sono un unicum imprescindibile. Per portare in vita l’uomo-Drive, l’interprete gioca “di sottrazione”. Sono pochi accorgimenti, piccoli e fondamentali dettagli. La camminata: lenta, insicura. Sembra che l’uomo voglia eclissarsi nella folla per sparire nel nulla. Anche nei momenti di maggior tensione il volto è disteso, i lineamenti rilassati. Lo sguardo è quello di un bambino: occhi attoniti, spalancati nell’ atteggiamento di un perpetuo stupore. Cristallizzato in uno stadio di inconsapevole infantilismo, cresciuto senza una famiglia di riferimento, Drive ha appreso un unico linguaggio: la violenza. Con ostinata violenza lotterà fino alla fine. Per sopravvivere, per salvare Irene e Benicio.
Nel 1971 i documentaristi italiani Jacopetti e Prosperi girano il loro quinto lungometraggio: “Addio zio Tom”. Dalla colonna sonora del film, diretta dal sempre impeccabile Riz Ortolani, è tratta la canzone “Oh My love”, interpretata da Katyna Ranieri. Refn, attento nel calibrare ogni materiale a disposizione, si avvantaggia delle note del brano per allestire il tappeto sonoro di una scena tra le più riuscite dell’intera pellicola. Drive ha appena rinvenuto il cadavere di Shannon. Il suo volto, solitamente calmo e pacato, trasuda disperazione. Trafugata una maschera dalla roulotte di un set cinematografico, l’uomo parcheggia davanti al locale di Nino, boss della malavita cui fa da copertura una pizzeria. Le vetrate del ristorante sono dipinte a scacchiera: quadri bianchi e rossi creano un gioco di claustrofobiche simmetrie. Drive, indossata la maschera, osserva dal di fuori. Tra i tanti rossi e bianchi, il “volto artificiale” si riflette nell’unico riquadro trasparente. Da questa posizione privilegiata, sicuro di non essere riconosciuto, il carnefice spia la sua prossima vittima.








Pollo alle prugne







Un film di Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi
Con Mathieu Almaric, Edouard Baer, Maria de Mereidos, Golshifteh Farahani
Titolo originale: Poulet aux prunes
Genere: Drammatico
Durata: 93 min.
Sceneggiatura: Vincent Paronnaud e Marjane Satrapi
Produzione: Hengameh Panahi
Produttore esecutivo: Jeremy Burdek, François Xavier Decraene, Nadia Khamlichi
Casa di produzione: Celluloid Dreams
Fotografia: Cristophe Beaucarne
Montaggio: Stéphane Roche
Scenografia: Udo Kramer
Musica: Olivier Bernet
Costumi: Madeline Fontaine
Francia, Germania, Belgio 2011


di Chiara Roggino


1958, Teheran. La moglie fa a pezzi il suo prezioso violino. Per il musicista Nasser Ali è l’inizio della fine. L’amore negato per la bella Iran (Golshifteh Farahani), ferita insanabile, sempre presente, gli offrì in gioventù un dono concesso a pochi: afferrare il soffio dell’esistenza per tradurlo nell’arte più pura. Distrutto l’antico strumento, l’uomo è inaridito da una malinconia senza rimedio. Perso per sempre il sapore della vita, Nasser decide di lasciarsi morire. (sinossi)




Presentato in anteprima alla sessantottesima edizione del Festival del Cinema di Venezia,“Pollo alle prugne” divide il pubblico in sala: critici e spettatori ad assaporare aroma e spezie della nuova produzione Paronnaud-Satrapi. “Persepolis”, opera prima di un’accoppiata vincente, debutta nel 2007. La pellicola, tratta dal romanzo a fumetti dell’illustratrice e sceneggiatrice iraniana Marjane Satrapi, è narrazione autobiografica di un’esistenza fratturata tra appartenenza-estraneità, radicamento e volontà d’evasione da una terra amara che poco concede alla libertà individuale. Cinque anni dopo, “Pollo alle prugne” segna un’apparente inversione di rotta: non più cronaca di vita vissuta, ma fiaba visionaria, ideazione di pura fantasia. Racconto da mille e una notte, cartoon animato da personaggi in carne ed ossa. Primo fra tutti, uno strepitoso Mathieu Almaric. Occhi perennemente stralunati, l’attore francese, corpo e voce dell’appassionato violinista Nasser Ali, rivela doti da performer di gran classe.

C’era qualcuno, non c’era nessuno”. Così iniziano le fiabe persiane e insieme il racconto di Azrael, angelo della morte: cantastorie d’eccezione di un’esistenza straordinaria. Preparatevi ad ascoltare vita, miracoli e morte del celebre violinista iraniano Nasser Ali.
Marjane Satrapi non rinuncia alla sua arte. Matita e colori per una firma, la sua, d’animazione squisitamente naif. Così saranno i titoli di testa. Pennellate di un blu tenue tra falci di luna, montagne e nuvole in viaggio. Treni in corsa, gabbie d’uccelli appese a rami d’albero incappucciati di neve. Fine dell’ouverture. Ancora monti all’orizzonte ed una Teheran costruita su misura. Quasi un set teatrale, predisposto con cura, nei minimi dettagli: strade, negozi e botteghe brulicano d’avventori. Qui ha inizio la storia del nostro protagonista.

Un’opera che pecca per mancanza di originalità. Molti, addetti ai lavori e non, hanno additato per “plagio” l’opera seconda di Paronnaud-Satrapi. Un film stucchevole che molto promette e poco realizza. Troppe assonanze con “Il favoloso mondo di Amélie” ? Un doppione forzato dell’opera di Jean-Pierre Jeunet? Ai severi detrattori andrebbe consigliata una seconda visione, priva di condizionamenti da un cinema che nulla ha a che spartire con la pellicola della coppia franco-iraniana.
La sceneggiatura di “Pollo alle prugne” nasce dalla graphic novel di una fumettista. Sagome di carta, schizzi d’inchiostro e colori fuoriescono dalle pagine reclamando vita: personaggi in rivolta anelano a un’esistenza in carne ed ossa. L’autrice li accontenta, a una condizione: i protagonisti, cuore pulsante e sangue caldo, vivranno le loro peripezie calpestando scenari di pura fantasia, adeguandosi senza proteste alle regole di una bande dessinée vivante.
Allo spettatore è necessaria una regressione: quel ritorno all’infanzia che abbatte sovrastrutture e concede di abbandonarsi allo stupore.
Nasser Ali, meditati piani di suicidio troppo macabri e di infelice realizzazione, decide di attendere l’angelo della morte con dignità, nel proprio letto. Sette giorni tra ricordi e fantasie, avanti e indietro nel tempo. Una destrutturazione temporale carica di flashback e flashforward: puzzle scombinato che trova il suo ordine per un montaggio di incastri giocati con classe.
Pollo alle prugne”: non soltanto fiaba dai risvolti malinconici, ma percorso attraverso la storia del cinema. Richiami di sogno felliniano e lo spogliarello di una formosa Sofia Loren .Un omaggio al cinema muto e , dulcis in fundo, l’esilarante digressione: viaggio attraverso le tonalità del cinema in tecnicolor.
Da “Persepolis” a “Pollo alle prugne”, un’inversione di rotta, ma non troppo. Nasser si innamora della bella Iran. Il nome di donna non è casuale. Un sentimento impedito dall’alto (il padre di lei nega il consenso alle nozze), spinge il protagonista ad allontanarsi dal paese natio per vent’anni. L’infinita tournée, teatro dopo teatro, fa del musicista un esule suo malgrado; condizione che ben riflette lo smarrimento di Marjane Satrapi: cittadina del mondo, apolide bandita dalla sua terra. Il viaggio di Nasser lo porterà lontano, il pensiero rivolto perennemente altrove: alla patria-amore perduto. Un amore che si conclude e si infrange, spegnendo ogni ragione di vita.